Guido Lutrario in Dalla parte giusta della storia. Intervista a George Mavrikos
La questione sindacale ha sempre avuto una grande rilevanza dentro il dibattito del movimento comunista. Almeno fino a quando i comunisti hanno rappresentato una forza rilevante dentro la società. La crisi del movimento comunista, soprattutto di quello del mondo occidentale, ha corrisposto ad un completo abbandono di questa discussione, al punto che si può stabilire un nesso tra decrescente attenzione per le questioni attinenti il mondo del lavoro e perdita di peso dei comunisti nella società.
In Italia, la relazione tra movimento sindacale e comunisti si è identificata per lunghi decenni con il rapporto molto stretto tra la Cgil e il Pci. L’influenza dei comunisti sul sindacato era considerata quasi naturale e scaturiva dalla fortissima influenza che i comunisti erano riusciti a conquistarsi su larghi strati di lavoratori. Tutto ciò non era certo avvenuto per caso ma era stato il frutto di una disciplinata e tenace politica di penetrazione ed organizzazione dei comunisti tra i lavoratori.
La trasformazione del Pci e la sua involuzione hanno avuto una enorme influenza sui cambiamenti avvenuti nella Cgil, che ha via via perduto la caratteristica di sindacato di classe per assumere sempre più posizioni compromissorie con l’avversario di classe, fino a cambiare definitivamente pelle negli ultimi decenni. In questo processo ha avuto un peso enorme il venir meno di una direzione politica comunista nella gestione del sindacato.
La natura confederale dell’organizzazione sindacale tipica del nostro paese scaturisce proprio dal ruolo che i comunisti hanno avuto nella costruzione del sindacato. Sono stati i comunisti a favorire la costruzione di un sindacato generale che non rimanesse confinato dentro il punto di vista di specifiche categorie e che riuscisse a rappresentare gli interessi complessivi del movimento dei lavoratori. La stessa forma organizzativa, non solo di categoria ma anche territoriale, si pensi alle Camere del lavoro, rispondeva a questa logica e all’obiettivo di unificare le lotte di tutti i lavoratori.
Quando il sindacato generale in Italia cambia prospettiva e abbandona una linea di classe, per approdare via via ad un profilo neo-corporativo (è la storia della Cgil che schematicamente possiamo ricomprendere tra la svolta dell’EUR di Lama nel 1978 e gli accordi dei primi anni 90 ai quali corrispose la cosiddetta “stagione dei bulloni”), matura tra alcuni settori di compagni la necessità di rifondare il sindacalismo confederale di classe. E’ un progetto che comincia a prendere forma alla fine degli anni 70 con le Rappresentanza di Base e che poi si consoliderà nei decenni successivi, incontrando alcuni processi di autorganizzazione prodottisi in diverse categorie (insegnanti, macchinisti, aeroportuali, ecc.) e il contemporaneo approfondirsi delle scelte sempre più consociative della Cgil (per non parlare di Cisl e Uil). Tutto ciò però non sarà il prodotto di una semplice tendenza oggettiva affermatasi nella società, ma al contrario il frutto di un’azione soggettiva disciplinata e militante che ha avuto la capacità di cogliere alcune tendenze reali in corso nella società.
In quegli anni, stiamo parlando degli anni 80 e 90 del secolo scorso, tanta parte della sinistra e di chi allora ancora si definiva comunista, continuava a sostenere che i comunisti dovessero operare lì dove c’erano i lavoratori e quindi nella Cgil, magari strutturandosi in correnti organizzate. Questa linea, che i fatti si sono incaricati di dimostrare errata, non solo ostacolò lo sviluppo dell’organizzazione sindacale indipendente, non solo funzionò da copertura per l’opportunismo di centinaia (forse migliaia) di quadri sindacali che rimasero nella Cgil solo per continuare ad usufruire di permessi e distacchi, ma rappresentò anche un freno all’elaborazione di una linea di classe indipendente.
Tutto questo è avvenuto dentro una profonda trasformazione del sistema produttivo che ha generato una grandissima frantumazione sociale e soprattutto la perdita di peso delle grandi concentrazioni operaie. La scomparsa della grande fabbrica ha provocato un fortissimo arretramento per tutta la classe, che ha perso i suoi maggiori punti di forza e la capacità di incidere con le lotte e gli scioperi nei rapporti di forza dentro la società.
Questo dato macroscopico, che ha sconvolto l’intero sistema sociale, con conseguenze in tutti i campi, compreso quello degli spazi di libertà e di democrazia, avrebbe dovuto spingere le forze residue del movimento comunista in Italia a riflettere sulla necessità di rafforzare l’organizzazione indipendente dei lavoratori. Se la classe si frammenta e si indebolisce e se vengono meno le condizioni oggettive che un tempo avevano rappresentato i punti di forza per far valere il punto di vista di classe, l’indipendenza organizzativa (oltre che culturale e strategica) dalle posizione neo-corporative della Cgil diventa una condizione indispensabile per tenere viva la possibilità del sindacalismo di classe in Italia.
Eppure tra le forze che si definivano comuniste, in particolare Rifondazione Comunista, rimase maggioritaria la posizione di fiancheggiare la Cgil, trascurando la necessità di consolidare e sviluppare il sindacalismo indipendente e di classe.
Chi ebbe il merito allora di sostenere concretamente la necessità di costruire l’organizzazione sindacale indipendente e conflittuale, riuscì a salvaguardare il punto di vista di classe e a strutturare una organizzazione sindacale che, seppur minoritaria, ha caratteristiche di massa ed è diffusa sia sul piano territoriale che categoriale. Essa rappresenta oggi, con l’USB, un punto stabile di riferimento per continuare il progetto di ricostruzione del sindacalismo confederale di classe in Italia.
La sfida oggi però è ancora aperta, ed ha caratteristiche in parte diverse dal passato. La discussione sull’ “entrismo” in Cgil ha perso di rilevanza, di fronte agli ulteriori spostamenti a destra di un’organizzazione che ha completamente perduto i riferimenti teorici di un tempo, approdando ad una visione del mondo del lavoro che è difficilmente distinguibile da quella della stessa Confindustria. Nel corpo dei lavoratori è cambiata la percezione del sindacato che non è più visto come un’organizzazione amica ma come una sorta di agenzia di intermediazione nei rapporti con il datore di lavoro. Il sindacato non è più partecipazione, discussione, solidarietà e lotta ma istituzione a sé, preposta alla risoluzione di controversie sul posto di lavoro. Mentre ieri combattevamo contro una linea sindacale sbagliata, oggi abbiamo di fronte un modello sbagliato di sindacato che spinge all’ulteriore “passivizzazione” dei lavoratori.
Di fronte a questa nuova situazione, non solo la scelta dell’organizzazione dei lavoratori indipendente ne esce rafforzata, ma essa ormai assume il carattere dell’indispensabilità. Rimanere all’interno dei sindacati di sistema, delle novelle corporazioni di regime, significa condannarsi a contribuire al disarmo dei lavoratori. Se si vuole promuovere la partecipazione, la lettura critica delle proprie condizioni di lavoro, se si vuole favorire l’organizzazione per il conflitto e la tutela dei propri diritti, si è obbligati alla scelta indipendente.
Ma la stessa indipendenza organizzativa non è sufficiente di per sé a garantire lo sviluppo di un moderno sindacalismo confederale di classe. Mentre le spinte ad organizzarsi fuori dal sindacato di regime continuano a manifestarsi, producendo una proliferazione di sigle del sindacalismo autonomo ed anche di quello di base, la costruzione di un sindacato di classe ha bisogno, oggi forse ancora più di un tempo, di una direzione politica e di una visione strategica. In un mondo entrato in una fase di profonde e repentine trasformazioni e dentro un contesto destinato a produrre un aumento delle contraddizioni, solo i comunisti possono (e devono) porsi il problema di come ridar vita al sindacalismo di classe.
E’ nei momenti di crisi che si producono le occasioni per cambiare il corso degli eventi. Bisognerà dimostrarsi in grado di coglierle.