Giacomo Marchetti – Rete dei Comunisti
Con questo slogan i popoli peruviani sono scesi in strada per la giornata di mobilitazione nazionale che ha sfidato lo stato d’emergenza promulgato in tutto il paese. Una pesante militarizzazione a cui si è aggiunta ieri una nuova disposizione presidenziale con il divieto di circolazione in 15 regioni dalle sei di sera alle quattro della mattina a partire da questo venerdì. Di fatto un vero e proprio “coprifuoco”.
È stato l’ottavo giorno di protesta dopo la destituzione del presidente Pedro Castillo ed il subitaneo instaurarsi di un governo fantoccio con una presidente “usurpatrice” come l’ha giustamente definita Castillo.
Una giornata importante promossa dalle organizzazioni contadine, come la federazione agricola e rurale FARP, indigene come l’Assemblea Nazionale dei Popoli (ANP) – che avevano già indetto nei giorni scorsi il paro national senza che venisse avanzata un eventuale giorno per la sua cessazione, la centrale sindacale peruviana CGTP che ha dato appuntamento alle 4 del pomeriggio a Lima, le organizzazioni studentesce, il partito comunista Patria Roja – PCP e differenti coordinamenti di base.
Sono queste, tra le altre, la spina dorsale di una insurrezione di massa che gia dalla mattina ha visto svilupparsi mobilitazioni ad Ayachuco, Cusco, Cajamarca, Apurimal, con blocchi stradali e marce, insieme ad una repressione feroce da parte dela polizia ed esercito.
Ieri, secondo quanto riportano in un comunicato ufficiale dalle autorità sanitarie locali, in un bilancio provvisorio, ci sarebbero stati ben 7 morti e più di un cinquantina di feriti nella sola regione di Ayachuco, dovuti al duro intervento in seguito al tentativo di occupazione dell’aereoporto.
Sarebbero quindi 18 le vittime dall’inizio delle proteste, e diverse centinaia i feriti come riporta il network d’informazione Telesur.
Il Coordinamento Nazionale dei Diritti Umani – come riportato nel servizio del canale informativo “comunitario” Wayka – denuncia detenzioni arbitrarie, isolamento delle persone trattenute e l’impossibilità di parlare con gli avvocati.
Di fatto ciò che sta avvenendo è una sostanziale sospensione dello stato di diritto.
Circa vent’anni fa, nel dicembre 2001, il popolo argentino era sceso in piazza con le stesse parole d’ordine – Que Se Vayan Todos – che qualificavano un intera classe politica colpevole di avere portato il paese sul lastrico, dopo la fine formale della dittatura.
La fine del regime, infatti, in Argentina come in altri Stati dell’America Latina, era coincisa con scelte nettamente neo-liberiste in materia economica e con l’aggancio del peso locale al dollaro.
In una notte i depositi bancari si svuotarono facendo riparare i capitali all’estero, facendo svanire l’illusione di benessere fittizio di cui si pasceva la classe media argentina, e facendo cadere nel baratro della povertà una parte delle classi subalterne.
Piquetes, caserolacos, e assemblee di quartiere animarono allora quell’inedito movimento sociale che faticó non poco a trovare uno sbocco politico ed una proposta d’alternativa all’altezza, fino alla lunga presidenza di Nestor Kirchner, nonostante la generosità degli attivisti, in specie dei vari movimenti dei “disoccupati” (MTD) e delle fabbriche recuperate dagli operai, come la Zanon.
Allora, era finita sul banco degli accusati una intera classe politica, incapace di esprimere una qualche figura presidenziale in grado di condurre il paese fuori dalla crisi e dal crack finanziario.
Oggi, in Perù, se si vuole, il grido di rabbia è più forte e determinato, non esprime un generico rifiuto solo contro una casta politica ma contro una trama di poteri, che ha svestito i panni democratici ed usa ora gli strumenti del terrore che per lungo tempo ne hanno caratterizzato la governance.
I popoli del Perù stanno pagando l’ennesimo tributo di sangue di morti e feriti, senza suscitare minimamente l’indignazione dell’opinione pubblica occidentale, solitamente molto attenta a sollevare la questione dei diritti umani quando si tratta di contrastare i propri competitor, ma mai quando ad essere messo in discussione il sistema capitalista.
Soprattutto, la differenza tra l’Argentina di allora ed il Perù di oggi, è in quella ferrea volontà di cambiamento aveva trovato nella candidatura di Pedro Castillo la propria possibilità di realizzarsi ed in Perù Libre l’offerta politica adeguata.
Ma questa speranza ora è stata stroncata dopo essere stata sabotata fin dall’inizio, con un presidente praticamente “sequestrato”, una neo-presidente che non è stata eletta da nessuno ed uno stato d’emergenza che mette la cappa di una pesante militarizzazione sul legittimo dissenso non molto dissimile dagli anni più duri del Plan Condor.
I popoli peruviani chiedono la “chiusura” di questo ignobile Congreso che destituendo il 7 dicembre il presidente legittimamente eletto ha assecondato un golpe, la liberazione di Castillo, e l’elezione di una Assemblea Costituente per voltare realmente pagina rispetto all’oscuro periodo della dittatura fujimorista, che è stato uno dei peggiori macellai della travagliata storia dell’America Latina.
Le oligarchie che hanno impedito una rivoluzione “pacifica” hanno spianato la strada ad insurrezione di massa che non può essere schiacciata così facilmente dato il mutato quadro politico continentale – la destra golpista ora al governo lamenta l’intromettersi negli affari interni del paese degli stati progressisti – e la non certo breve storia politica rivoluzionaria peruviana con i toni asprissimi che assume lo scontro di classe nel paese andino.
Lo slogan con cui Castillo ha vinto era “mai più poveri in un paese ricco”, ma i detentori di questa ricchezza – le multinazionali occidentali e la locale borghesia compradora – non ne hanno voluto sapere di una ridistribuzione anche minima della ricchezza per permettere lo sviluppo ed il benessere di quell’esercito degli esclusi a cui manca tutto: un lavoro sicuro, una abitazione dignitosa, sanità e istruzione ed i minimi comfort, questo mentre una élite urbana corrotta vive nei suoi fortini assediati i privilegi di sempre.
Ora le popolazioni marciano realizzando la profezia di Tupac Amaru: “torneremo e saremo milioni”.
Non li fermeranno, ne siamo certi.