Amilcar Cabral – capitolo II di “L’arma della teoria” scritti di Amilcar Cabral
Vorrei fornire alcuni elementi concernenti l’analisi della situazione in Guinea, analisi che, del resto, è servita da base alla nostra lotta di liberazione nazionale.
Dobbiamo fare delle distinzioni fra le diverse situazioni, senza tuttavia opporle. Io penso, per esempio, alla situazione nella campagna e nella città o, piuttosto, nel settore urbano. Così, in campagna, troviamo da una parte il gruppo che consideriamo come semi-feudale, rappresentato dai Fulas e, dall’altra parte, quello dei Balanta che, volendo, potremmo definire «senza condizione».
Esistono differenti situazioni intermedie fra questi due gruppi etnici estremi. E sottolineiamo subito che fra gli animisti (si riscontra in essi una coincidenza fra il semifeudalesimo e l’islamismo e qualche organizzazione dello Stato) v’è un gruppo etnico, il Mandjachi, che, all’arrivo dei portoghesi, intrattenevano già dei rapporti che si potrebbero qualificare feudali.
Come si presenta la stratificazione sociale del Fulas? Consideriamo, per cominciare, i capi, i nobili e le entità religiose; dopo, gli artigiani ed i dyoulas, ovvero i commercianti ambulanti, e, finalmente, i contadini propriamente detti. Non mi dilungherò nell’analisi economica di ognuno di questi gruppi; vorrei semplicemente far notare che i capi ed il loro seguito hanno ancora, a dispetto della conservazione di alcune tradizioni concernenti la collettività della terra, dei privilegi molto importanti, nel quadro della proprietà della terra e dello sfruttamento del lavoro altrui.
Così, i contadini che dipendono dai capi, sono costretti a lavorare per essi per un certo periodo dell’anno. Gli artigiani hanno un ruolo molto importante nell’insieme socio-economico dei Fulas e costituiscono, per così dire, un embrione d’industria di trasformazione di materie prime, dal fabbro fino alla conciatura delle pelli etc…; il gruppo dei dyoulas, che certuni preferiscono situare al di sopra del gruppo artigiano, non ha di fatto questa importanza, ma esso rappresenta virtualmente, e in certa misura praticamente, coloro che hanno la possibilità di accumulare denaro. Il gruppo contadino, generalmente privo di diritti, è il vero sfruttato della società fula. Al di là della questione della proprietà, un elemento di paragone molto interessante è costituito dalla condizione della donna. Presso i Fulas, la donna non gode di alcun diritto sociale; partecipa alla produzione ma non ne raccoglie i frutti. D’altra parte, la poligamia è una istituzione rispettata, poiché la donna è considerata un po’ come proprietà del marito. Al polo opposto, presso i Balanta, troviamo una società completamente priva di stratificazioni e dove solo il consiglio degli anziani del villaggio, o di un insieme di villaggi, può prendere decisioni relative alla vita di questa società.
Presso i Balanta, la terra è proprietà del villaggio, ma ogni famiglia ne riceve una parte necessaria alla propria sussistenza; i mezzi, o piuttosto gli strumenti di produzione, appartengono talvolta alla famiglia, talaltra all’individuo. I Balanta, malgrado delle forti tendenze alla poligamia, sono in gran parte monogami. La donna partecipa alla produzione, ma ella è proprietaria di quanto produce, ciò che le conferisce una condizione privilegiata, poiché la sua libertà è effettiva, salvo per quanto concerne i suoi figli che il capo famiglia può sempre reclamare; bisogna vedere in questo caso, evidentemente, una ragione economica, sapendo che la forza d’una famiglia è soprattutto rappresentata dal numero di braccia abili al lavoro.
Occorre menzionare la presenza di un gruppo minoritario, formato da piccoli proprietari africani, che costituisce una transizione; questo gruppo d’una certa importanza si è dimostrato molto attivo nel quadro della lotta di liberazione nazionale.
Nelle città, e bisogna tener conto che non parlo della presenza, inesistente in Guinea, di europei nella campagna, troviamo innanzitutto due gruppi distinti: da una parte gli europei e dall’altra gli africani.
È possibile suddividere facilmente i primi, nella misura in cui essi conservano ovviamente l’attività che esercitano fra noi, la stratificazione sociale cui appartengono in Portogallo. Così, al livello più elevato, gli alti funzionari ed i direttori di impresa costituiscono uno strato molto isolato dal resto della stessa popolazione europea. Vengono poi i funzionari medi, i piccoli commercianti, gli impiegati del commercio ed i liberi professionisti. Infine, vi sono gli operai specializzati.
Quanto agli africani, un primo gruppo è costituito da funzionari superiori e medi e dai liberi professionisti; seguono i piccoli funzionari, gli impiegati sotto contratto del commercio (da non confondere con gli impiegati del commercio senza contratto che possono essere licenziati in qualunque momento), i piccoli proprietari agricoli chiamati, per analogia, «piccola borghesia africana».
Una più approfondita analisi potrebbe dimostrare che anche il primo fra i gruppi citati dovrebbe essere incluso nella piccola borghesia. Vengono poi i salariati; noi raccogliamo sotto questo termine tutti gli impiegati del commercio senza contratto che vendono la loro forza-lavoro alla giornata; penso, per esempio, all’importante gruppo degli impiegati portuali, dei battelli e dei trasporti di merci o di prodotti agricoli.
Vi sono anche i domestici, per la maggior parte uomini, gli operai delle officine di riparazione o di piccole fabbriche e la mano d’opera dei magazzini.
Tutti questi gruppi fanno parte dei salariati. Si tenga presente che noi stiamo attenti a non definirli «proletariato» o «classe operaia». È infine la volta dei «senza classe», che possono essere a loro volta divisi in due sottogruppi: l’uno che non merita veramente l’appellativo di senza-classe, ma per il quale non abbiamo potuto trovare il termine adatto, e l’altro, facile ad identificarsi, che potrebbe essere il nostro lumpenproletariat (ammesso che esista in Guinea un proletariato con una coscienza di classe), costituito infatti da mendicanti, disoccupati, prostitute etc…; il primo di questi gruppi, cui noi abbiamo prestato particolare attenzione, si è rivelato effettivamente molto importante nell’ambito della lotta di liberazione nazionale; esso è costituito da moltissimi giovani venuti in tempi recenti dalle campagne, che con queste ultime hanno conservato stretti legami, pur entrando in contatto con la vita europea; essi non hanno sovente alcuna occupazione e vivono alle spese delle loro famiglie piccolo borghesi od operaie. Bisogna distinguerli dai figli delle famiglie europee; in effetti, alcune tradizioni ed usanze africane esigono, per esempio, che uno zio che viva in città, offra ospitalità al proprio nipote proveniente dalla campagna.
Si crea in tal modo uno strato occupato a dispensare la propria energia nell’esperienza della vita urbana, che dovrà avere un ruolo importante.
1. I gruppi sociali e la lotta di liberazione
I Fulas erano già dei conquistatori in Guinea, ed i portoghesi si sono dunque alleati ad essi nel momento della loro conquista: così, fra i semi-feudali che caratterizzano questo gruppo, vediamo che i più importanti capi ed il loro seguito sono alleati del colonialismo. Il loro potere è strettamente vincolato a quello delle autorità portoghesi.
Anche gli artigiani sono molto dipendenti dai loro capi e vivono generalmente del lavoro che forniscono per il beneficio del gruppo superiore, che accaparra il prodotto.
Fra essi, alcuni sono soddisfatti di questa situazione, mentre altri, al contrario, tenderebbero ad assumere una posizione di rifiuto di fronte al colonialismo portoghese. Il dyoula, almeno in Guinea, è un individuo instabile, un mercante ambulante senza alcun legame, la cui preoccupazione costante, lo scopo essenziale, è la difesa degli interessi personali.
Nello stesso tempo, la sua mobilità permanente ha potuto essere utilizzata nel quadro del lavoro di mobilitazione e di diffusione delle idee all’inizio della lotta; bisognava, perché ciò avvenisse, offrirgli dei compensi, poiché egli si rifiutava quasi sempre di lavorare disinteressatamente.
Data la natura delle differenti società presenti in Guinea (feudali, semi-feudali, etc…) ed i diversi gradi di sfruttamento di cui essi sono oggetto, il gruppo dei contadini è evidentemente il più interessato alla lotta. Ma l’interesse che egli prova, non è solamente oggettivo.
Le nostre tradizioni, o, se si preferisce, la nostra superstruttura economica, fanno sì che i contadini fulas o i contadini semi-feudali abbiano spesso la tendenza a seguire i propri capi. La loro mobilitazione ha così richiesto un profondo quanto intenso lavoro. Rimangono, fra i musulmani, dei gruppi «senza condizione» e, fra i balanta, delle importanti tracce di strutture che sono state all’origine dell’animismo.
Bisogna aggiungere che la popolazione non è veramente islamica, quanto, piuttosto, islamizzata, e che, pur adoperando determinate pratiche della religione musulmana, essa resta particolarmente impregnata di concezioni animiste.
Questi gruppi «senza condizione» hanno restituito ben più degli altri ai conquistatori colonialisti, ed è fra loro che abbiamo trovato maggior disposizione ad accettare l’idea della liberazione nazionale; anche se per questi contadini, giacche essi sono tutti dei contadini, ciò non avviene sempre senza difficoltà e problemi.
La questione di sapere se i contadini rappresentano o meno la principale forza rivoluzionaria, è di una importanza fondamentale.
Per quanto concerne la Guinea, devo rispondere negativamente. Partendo da ciò, può sembrare incredibile che noi fondiamo sulla contadinanza la totalità della nostra lotta. Rappresentando l’intero paese, controllando e producendo le sue ricchezze, essa è fisicamente molto forte; noi sappiamo però, per esperienza, quanto ci sia costato l’incitarla alla lotta. Prima di ritornare su questo argomento, vorrei far notare, riguardo a quanto detto dal precedente oratore, che in Cina, per esempio, la situazione della contadinanza era fondamentalmente differente; è sufficiente, per convincersene, ricordare tutte le rivolte di cui questa contadinanza è stata protagonista. In Guinea, a parte certe zone e certi gruppi che ci hanno fatto, all’inizio, una favorevole accoglienza, abbiamo dovuto, al contrario dei comunisti cinesi, conquistarla con la forza.
Nella città, qual’è la posizione dei differenti gruppi rispetto alla lotta? La maggioranza degli europei, strumenti umani dello Stato coloniale, rifiuta a priori qualunque idea di liberazione nazionale, ed i lavoratori sono i più ostinati in ciò. Non voglio comunque tacere della grande simpatia che ci è stata talvolta dimostrata da piccoli borghesi europei.
Per ciò che concerne la piccola borghesia africana, possiamo definire tre sottogruppi: il gruppo compromesso o profondamente compromesso con il colonialismo, che comprende la maggior parte dei funzionari medi e superiori ed i liberi professionisti; il gruppo che chiamiamo, certamente a giusto titolo, la piccola borghesia rivoluzionaria e, infine, il gruppo intermedio che oscilla continuamente fra la liberazione ed i portoghesi.
Quanto al gruppo dei salariati, comparabile al proletariato europeo senza per altro essergli esattamente simile, la maggioranza entra nella lotta, mentre altri, di mentalità molto piccolo borghese, cercano al contrario di difendere le loro piccole conquiste in seno alla società.
Coscientemente o no, il gruppo dei senza-classe è stato francamente contrario alla nostra lotta, ed i vagabondi, i disoccupati permanenti, le prostitute, sono serviti da agenti di spionaggio alla polizia portoghese.
Di contro, quel gruppo difficile da definirsi, costituito da tutti quei giovani che, seguitando a conservare stretti legami con la campagna, sono stati portati, a contatto coi portoghesi, a stabilire delle comparazioni fra la vita di questi ed i sacrifici inflitti agli africani, si è dimostrato molto dinamico. Esso ha aderito alla lotta fin dal suo esordio, e numerosi quadri destinati a lavorare per la liberazione, sono usciti proprio dai suoi ranghi.
D’altra parte, nella già avanzata tappa presente, una coscienza nazionale comincia ad emergere progressivamente, a dispetto delle nostre divisioni tribali.
Il razzismo ha dato agli africani la coscienza di se stessi, il che rappresenta un aspetto molto particolare della situazione.
2. Il ruolo della piccola borghesia
Il nostro amico si è preoccupato di conoscere quale sarebbe la classe portatrice della storia, alla fine del colonialismo e della sua dominazione, e qui dobbiamo stabilire una distinzione fra storia coloniale e quella che ci riguarda come società umana: in quanto popolo dominato, non formiamo che un insieme di fronte all’oppressore; ma quando, mal grado le diverse influenze subite in ragione dei limiti geografici, talvolta assurdi, impostici dal colonialismo, si sarà in ogni modo sviluppata una coscienza di classe, si può dire che tutte le forze sociali saranno allora portatrici della storia.
È impossibile, nel nostro contesto coloniale, che una sola forza sociale possa portare a termine la lotta contro il colonialismo, poiché ciò esige l’effettiva realizzazione della unità nazionale.
Ma l’assenza di una classe sociale portatrice della storia potrebbe essere sinonimo di vuoto: ebbene no, non è il nostro caso. In effetti, devo ripetere che è lo stesso Stato coloniale, più che la lotta di classe, a dirigere la storia. L’importante è sapere chi sarà in grado, una volta distrutto il potere coloniale, di prendere in mano l’apparato dello Stato.
Affrontiamo ora una questione tecnica: il nostro contadino non sa né leggere né scrivere e non ha quasi rapporti con le forze coloniali, salvo per il pagamento delle imposte che, per altro, non fa direttamente; la classe operaia non esiste come classe ben definita ed essa non è che un embrione in via di sviluppo; infine, non esiste da noi una borghesia economicamente valida perché l’imperialismo non ne ha permesso la creazione.
Si è così formato, al servizio del colonialismo, uno strato sociale che è oggi il solo in grado di dirigere ed utilizzare gli strumenti di cui si serviva lo Stato coloniale contro il nostro popolo.
Nel preciso momento in cui questa classe, dopo la liberazione nazionale, si impadronisce del potere, possiamo considerare d’essere ritornati alla storia; e ciò facendo, noi vediamo manifestarsi nuovamente le contraddizioni interne della nostra situazione economica e sociale, condizionate questa volta, è vero, dai diversi fattori interni, ma anche da quelli esterni.
È necessario tener conto di tutti questi condizionamenti nel momento in cui la nostra piccola borghesia prende il potere, non so se a nome di chi, ma il fatto è che essa lo prende. Quale atteggiamento assumerà allora? La sinistra, nel campo socialista, in generale reclama evidentemente la rivoluzione; la destra, l’imperialismo e la controrivoluzione, la evoluzione verso una via capitalistica, o qualcosa del genere. Quale soluzione è in grado di scegliere? Sia d’allearsi all’imperialismo ed agli strati reazionari del nostro paese, al fine di difendere la propria esistenza di piccola borghesia, sia d’allearsi, senza tener conto dei loro rapporti di forze o della loro proporzione rispetto alla popolazione, agli operai e ai contadini che, per parte loro, hanno l’obbligo di prendere e controllare il potere in vista della rivoluzione.
In breve, che si chiede alla piccola borghesia? Di suicidarsi? La rivoluzione, in effetti, la elimina dal potere, la sottomette al controllo degli operai e dei contadini e pone fine al suo progresso verso la tappa della borghesia propriamente detta.
Vorrei anche, per continuare, parlare un poco della posizione dei nostri amici di sinistra che esigono una rivoluzione della piccola borghesia che detiene il potere. Effettivamente, è possibile chiedersi se, durante la lotta, questa sinistra ha preso la precauzione di analizzare la condizione della piccola borghesia in questione, di comprendere la sua natura, il suo funzionamento, e di conoscere i suoi strumenti.
Si è impegnata, di fronte alla sinistra, a fare la Rivoluzione? Nei paesi capitalisti, per esempio, la piccola borghesia forma uno strato, una classe di cui ci si serve senza che possa modificare per questo l’orientamento storico del paese; in Africa, al contrario, essa si vede conferire questa funzione storica dalla lotta condotta dai nostri paesi sotto-sviluppati. Essa può dunque, avendone la possibilità, come ho già detto, scegliere fra due direzioni, optare per la soluzione più inattesa delle due, ma la questione è di sapere in quali condizioni essa accetterebbe di impegnarsi così in questa via.
Altri problemi meritano egualmente d’essere posti: per esempio, quello dell’insediamento con la forza del colonialismo, la cui conquista si estendeva talvolta per decine d’anni; forza ed oppressione che hanno dunque provocato immediatamente l’unione ed il rinnovamento di forze opposte che costituiscono l’embrione rivoluzionario del nostro paese.
Bisogna dunque constatare che la presenza del sistema coloniale ha modificato notevolmente le nostre condizioni storiche e che esso ha creato, o almeno suscitato, una risposta di tendenza rivoluzionaria. Ma abbiamo ragione a qualificarla così?
Siamo veramente d’accordo nel considerare che la lotta di liberazione nazionale è una rivoluzione? Bisogna che ci si intenda sui termini e sul loro significato, o sul fenomeno stesso. Mi chiedo anche se il movimento di liberazione nazionale è nato unicamente all’interno delle nostre frontiere e se è il risultato derivato dalle contraddizioni interne suscitate dal colonialismo, o se è stato anche determinato da fattori esterni.
In effetti, tenuto conto del progresso del socialismo nel mondo, questo movimento di liberazione non potrebbe essere una iniziativa imperialista? In altri termini: l’espressione giuridica che utilizzano oggi i difensori dei diritti alla lotta di liberazione nazionale è una creazione o un prodotto del popolo interessato, o non ha piuttosto la sua origine dai nostri alleati storici, i paesi comunisti?
I paesi imperialisti, e fra essi il Portogallo che utilizza attualmente delle bombe al napalm per bruciare la nostra resistenza, hanno firmato la Carta delle Nazioni Unite, che riconosce il diritto dei popoli all’indipendenza.
Non rischiamo dunque di considerare come una iniziativa del nostro popolo quella del nostro proprio nemico? Non dovremmo meravigliarci dell’atteggiamento apparentemente incosciente di quest’ultimo, in quanto sarà facile trovare numerose giustificazioni sull’esistenza di questa Carta: impedire, per esempio, l’estensione del campo socialista, liberare le nostre forze reazionarie soffocate dal colonialismo, dare a queste forze la possibilità di allearsi alla borghesia internazionale; ma l’obbiettivo fondamentale era probabilmente di creare, là dove ancora non esisteva, una borghesia destinata a rafforzare il campo capitalista.
Contrariamente ad alcuni, noi consideriamo come normale, nel quadro generale delle lotte contro l’imperialismo, il fatto che la borghesia di questi nuovi paesi abbia, fin dall’inizio, il sostegno del mondo intero. Ed in queste condizioni, dovremmo scatenare, dal primo momento, una lotta feroce contro la borghesia nazionale, o, al contrario, dobbiamo cercare in essa tutte le possibili alleanze, approfondendo la contraddizione assolutamente inevitabile fra borghesia nazionale e borghesia internazionale, che ha condotto la prima al grado di sviluppo in cui si trova attualmente?
Per ritornare alla questione della natura della piccola borghesia ed al ruolo che essa deve assumere dopo la liberazione, vorrei porre subito una semplice domanda: cosa pensereste se Fidel Castro avesse trovato un terreno d’intesa con gli americani? Si può immaginare una intesa simile da parte di questa piccola borghesia cubana, attualmente alla testa del potere e responsabile della marcia del popolo verso la rivoluzione?
Mi si replicherà, naturalmente, che la situazione di Cuba non permetteva di preconizzare una tale ipotesi; d’accordo; ma supponiamo comunque che le cose siano andate così. Quale sarebbe allora il risultato? In ogni situazione si trovano dei fattori positivi e dei fattori negativi, ma non è possibile tuttavia, nel quadro preciso della mia domanda, determinare la piccola borghesia veramente rivoluzionaria?
Come elemento d’analisi, si potrà, forse, rispondere semplicemente: la borghesia onesta, vale a dire quella che, a discapito di tutte le correnti contrarie, continua a far propri gli interessi fondamentali delle masse popolari del paese.
Senza alcun dubbio, essa deve, per pervenire a ciò, farsi hara-kiri, ma non per questo ne esce perdente: sacrificandosi per il proprio popolo, essa ha la possibilità di reincarnarsi nella condizione degli operai o dei contadini.
3. Il neo-colonialismo, una disfatta per il movimento operaio internazionale
Dopo la Seconda Guerra mondiale, l’imperialismo entra in una nuova fase: da un lato esso adotta una nuova politica d’aiuto, vale a dire che accorda l’indipendenza ai paesi occupati, e dall’altro lato concentra gli investimenti preferenziali nei paesi europei.
Questo atteggiamento è stato soprattutto un tentativo di razionalizzazione dell’imperialismo che provocherà, a più o meno lunga scadenza, se ciò non è già avvenuto, delle reazioni di tipo nazionalista fra gli stessi paesi europei. Come vediamo, il neo-colonialismo (che possiamo definire imperialismo razionalizzato) costituisce più una disfatta per la classe operaia internazionale che per i popoli colonizzati.
Il colonialismo agisce attualmente su due fronti contemporanei, in Africa e da voi.
Lo scopo essenziale dell’aiuto che ci dà è di creare una falsa borghesia destinata a frenare la rivoluzione e di estendere le possibilità di questa borghesia perché essa si comporti come neutralizzante.
Quanto agli investimenti di capitali in Occidente (Francia, Italia, etc…), essi tendono, secondo noi, allo sviluppo ed al consolidamento dell’aristocrazia operaia ed all’estensione del campo d’azione della piccola borghesia, con la conseguenza di un «ritardo» notevolissimo della rivoluzione.
Riteniamo che i problemi dovranno essere analizzati da questo punto di vista.
Vorrei affermare, una volta di più, che l’imperialismo, ovvero il «capitalismo in putrefazione», con lo scopo di perpetuarsi, utilizzerà lo strumento neo-colonialista per fare e disfare gli Stati; in seguito ucciderà i fantocci quando essi saranno divenuti inutili e creerà, volendo, un socialismo che taluni si affretteranno a definire neo-socialismo.
Il fenomeno neo colonialista ci ha dimostrato che non bisogna dubitare della stretta relazione che esiste fra la nostra lotta e la lotta della classe operaia internazionale; ma la prima di considerare un raffronto fra la nostra contadinanza ed il movimento operaio internazionale, bisogna cercare di moltiplicare i contatti fra questa contadinanza ed i nostri salariati. La antica situazione coloniale dell’America Latina e la posizione del proletariato nordamericano illustrano altrettanto bene l’assenza di tali contatti.
Noi pensiamo anche che la sinistra europea ed i movimenti operai internazionali dovranno riconoscere le loro responsabilità intellettuali nello studio e analisi della situazione concreta del nostro paese.
Questo è precisamente un aiuto di cui abbiamo bisogno, perché noi manchiamo di strumenti per l’analisi della nostra situazione; d’altra parte, bisognerà sostenere materialmente i movimenti di liberazione autenticamente rivoluzionari. Riassumendo: studio ed analisi dei movimenti sul posto, lotta con tutti i mezzi possibili contro tutto ciò che può essere utilizzato dalla repressione contro i nostri popoli, e penso particolarmente alle spedizioni ed alla vendita d’armi, etc…; vorrei, per esempio, che gli amici italiani sapessero che abbiamo catturato ai portoghesi molte armi italiane, senza parlare, naturalmente, delle armi francesi.
È necessario, inoltre, smascherare coraggiosamente tutti i movimenti di liberazione nazionale sottomessi all’imperialismo.
Si mormora che il tale o il talaltro è un agente degli americani, ma nessuna sinistra europea ha ancora assunto un atteggiamento aperto e violento contro questa gente.
E siamo noi, che mentre affrontiamo i portoghesi, ci vediamo costretti a denunciare delle persone la cui presenza in Europa è stata talvolta sollecitata dall’Africa, il che ci crea, evidentemente, un gran numero di problemi.
Credo sia compito della sinistra e dei movimenti operai internazionali mettere di fronte alle proprie responsabilità gli Stati che rivendicano il socialismo, e denunciare apertamente tutti gli Stati neo-colonialisti.
Penso sia bene ricordare alla sinistra occidentale, presunta o autenticamente socialista, e particolarmente ai suoi giovani, che essa deve prepararsi ad una attività militante e al tempo stesso di studio e di azione concreta nei paesi del terzo mondo.
Vorrei, per concludere, aggiungere qualche parola sulla solidarietà fra i movimenti operai internazionali e la nostra lotta di liberazione nazionale. Delle due l’una: o ammettiamo che ognuno è interessato dalla lotta contro l’imperialismo, o rifiutiamo di ammetterlo.
Se è vero, come tutto ci fa credere, che esiste un imperialismo il cui obbiettivo è nello stesso tempo di dominare la classe operaia mondiale e di soffocare i movimenti di liberazione nazionale dei paesi sotto-sviluppati, dobbiamo vedere in esso un nemico comune contro cui dobbiamo lottare insieme.
Non serve discutere a lungo sulla solidarietà, giaché, di fatto, si tratta di lotta. Noi lottiamo, armi alla mano, in Guinea; lottate anche voi, non dico armi alla mano, non dico in che modo, perché questi sono affari vostri; ma bisogna trovare il mezzo e la forma di lotta contro lo stesso nemico; questa sarà la migliore prova di solidarietà che potrete darci.
Esistono naturalmente altre forme di solidarietà, più secondarie; pubblicazioni di articoli, invio di medicinali, etc…; io posso assicurarvi che se uno dei vostri paesi perviene ad una lotta coerente, e se domani, in Europa vi troverete in conflitto armato con l’imperialismo, anche noi vi invieremo dei medicinali. Ma, ancora una volta, spetta a voi decidere se la coesistenza pacifica rappresenta o no una forma di lotta: ciò che noi domandiamo, per contro, è che non si confonda mai strategia generale di lotta con tattica di lotta.
NOTE
[*] Testo condensato di alcuni interventi orali fatti da Cabral nel corso del seminario organizzato dal Centro F. Fanon di Milano, nel 1964. Una versione è apparsa sulla rivista «Pensamiento Critico».
CREDITS
Immagine in evidenza: Un soldato PAIGC con la sua famiglia in una base militare nei territori liberati
Autore: Roel Coutinho; Marzo – Aprile 1974
Licenza: Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0)
Immagine originale ridimensionata e ritagliata