Amilcar Cabral – capitolo V di “L’arma della teoria” scritti di Amilcar Cabral
La Guinea ed il Capo Verde sono state fra le prime colonie stabilite in Africa dagli europei. Anzi, si può dire che la Guinea sia stata la prima di tutte. Dopo la Conferenza di Berlino, in cui si fece una spartizione dell’Africa fra le potenze di quei tempi, si è tenuto conto di ciò che si chiamò occupazione effettiva dei territori africani. Il Portogallo era già presente nel nostro paese, tanto nel Capo Verde che in Guinea. Nel Capo Verde, la sua presenza si manifestava attraverso i cosiddetti «donatari» che avevano occupato le isole, tentando di sfruttarle utilizzando soprattutto mano d’opera proveniente dal Portogallo e, parzialmente, dalla Guinea; in quest’ultima invece, ciò avveniva per mezzo delle «agenzie commerciali» situate sulla costa, che stimolavano la penetrazione nell’interno.
Dopo la Conferenza di Berlino, il Portogallo si decise ad occupare effettivamente la Guinea. Ciò provocò immediatamente una reazione delle tribù guineane. Dapprima scesero in campo le popolazioni costiere: i Mandjachi ed i Papeis che combatterono in quella zona che costituisce oggi l’isola di Bissao, Fu poi la volta delle popolazioni dell’interno, Balanta, Fulas, Mandinghi ed infine di tutte le tribù guineane che resistettero tenacemente alla occupazione coloniale, in quel periodo di oltre mezzo secolo che i portoghesi definiscono «guerra di pacificazione», durante il quale, secondo Texeira Da Mota, non passò un sol giorno senza che si verificassero scontri violenti. Noi conosciamo tutte le manovre di divisione utilizzate dai portoghesi per poter dominare le differenti tribù, una per una.
Essi hanno approfittato di tutte le contraddizioni fra le differenti etnie e, nello stesso tempo, hanno compiuto atti che potremmo considerare illogici da parte loro. Sono comunque riusciti sempre a trovare qualche africano, fra quelli loro sottoposti, pronto a servire la causa portoghese. Ma la verità è rimasta incisa non solamente nella storia, ma anche nella coscienza del nostro popolo. Questa grande capacità di resistenza ha fatto si che il colonialismo portoghese non ha potuto concludere ufficialmente queste famose guerre di pacificazione che nel 1917; in verità, esse proseguirono fino al 1936, anno in cui i colonialisti riuscirono a piegare le ultime resistenze dei Bijagos che, comunque, non si arresero mai; essi furono traditi e consegnati ai portoghesi da individui della loro stessa etnia.
Queste tradizioni di resistenza contrassegnano decisamente la nostra lotta di liberazione nazionale. A partire dagli anni ‘30, il Portogallo, ove il fascismo aveva oramai preso il potere, cominciò ad installare in Guinea, con una certa facilità, le sue strutture amministrative. Il fatto che la politica portoghese sia stata segnata indelebilmente dalla dittatura fascista fin dal momento in cui il nostro popolo cominciò ad essere autenticamente amministrato dal governo di Lisbona, caratterizza in maniera flagrante la situazione politica del nostro paese, prima della lotta di liberazione nazionale.
Un altro aspetto importante della colonizzazione, comune del resto a tutte le altre colonie portoghesi, è la condizione di sotto-sviluppo del Portogallo; l’arretratezza economica, sociale e culturale del Portogallo implica un ritardo nello sviluppo del nostro paese che ha creato delle condizioni specifiche per la evoluzione politica successiva che si è prodotta in Guinea. Non citerò altri aspetti della colonizzazione portoghese, ma vorrei sottolineare che se da un lato il carattere di elementi provenienti dal contesto sotto-sviluppato portoghese ha favorito la coabitazione fra europei ed africani (cosa che non è, per esempio, accaduta nelle colonie inglesi), dall’altro lato, il colono portoghese, e cosi pure l’amministratore, ha sempre manifestato, spesso per ignoranza, spesso perché male informato, quasi sempre per necessità di dominazione una grande mancanza di rispetto e considerazione verso la personalità africana, verso la cultura africana. È sufficiente vedere come altri paesi imperialisti d’Europa (soprattutto Francia, Inghilterra e Belgio) sono colmi di opere d’arte africana; essi hanno aperto la via alla conoscenza universale delle caratteristiche artistiche dell’Africano, della cultura africana in generale: delle religioni, delle sue concezioni filosofiche. Vale a dire il modo con cui l’Africano affronta la realtà cosmica e del mondo. Il Portoghese, sia perché i coloni inviati sono generalmente degli ignoranti, sia perché gli intellettuali se ne interessano ben poco, non conosce l’Africano nonostante che il Portogallo sia il paese europeo con più colonie africane.
Ciò ha avuto la sua importanza nel corso della nostra lotta, poiché durante lo scontro che ci ha opposti, il Portoghese si è reso conto che non siamo così come ci immaginava, ed ha scoperto un Africano di cui ignorava totalmente l’esistenza.
Diciamo che, nel contesto generale della nostra lotta, questa è stata un’ulteriore sorpresa da noi provocata nel nemico.
Si sono sempre avuti da noi (tanto in Guinea che nel Capo Verde) dei tentativi di resistenza politica al colonialismo portoghese, dopo quel periodo di cui ora parlerò. Per poter fare ciò, si sono creati dei gruppi, sindacati, clubs d’amici etc…, che avevano tendenze nazionaliste. Ma non bisogna farsi illusioni poiché, se qualcosa è avvenuto con caratteristiche nazionaliste, ciò non ha oltrepassato i quadri urbani, e ritorno così a dire che non era niente di più d’una piccola borghesia che aveva contatti col mondo e che si sentiva umiliata quotidianamente dalla presenza portoghese. Il problema del nazionalismo non si poneva ancora, lo dico in piena coscienza. Nell’insieme del nostro paese, soprattutto in Guinea, noi continuavamo a mantenere le caratteristiche tribali e se le tribù erano, da un punto di vista economico, completamente disgregate, i portoghesi si sforzavano di preservare la super-struttura tribale per meglio dominare il nostro popolo attraverso questa. Possiamo dire che è dall’insieme dei nuovi rapporti e dei nuovi fenomeni impiantati (in particolare, la circolazione monetaria, gli scambi sempre più intensi, il movimento di popolazioni) che si è cominciato a creare un senso di nazione. È importante sottolinearlo, per poter avere un’idea delle difficoltà della nostra lotta, delle condizioni concrete del nostro paese.
Un momento importante della nostra lotta, cioè della situazione del nostro paese prima della lotta armata, è stato la fine della seconda guerra mondiale. Questo fattore esterno ha creato una corrente di speranza nel mondo e la nostra piccola borghesia non è stata estranea a questo fenomeno generale.
Nella stessa epoca sono giunti in Portogallo molti giovani provenienti dalle colonie africane che hanno compreso come fosse necessario unirsi per lottare contro l’oppressore. Questi giovani hanno trovato i mezzi necessari per dedicarsi insieme allo studio dei loro paesi ed hanno cominciato a pensare insieme ad una stessa direzione per servire i loro popoli. Questo è stato un momento di grande importanza che caratterizza la lotta contro il colonialismo portoghese; la lotta è cominciata come lotta dei popoli delle colonie portoghesi contro il colonialismo, vale a dire, la lotta di ciascun popolo contro il colonialismo. Un altro fattore importante è stato il fatto che queste persone avevano lavorato insieme ed erano riuscite a ritornare nei loro paesi dopo aver terminato gli studi. Ed anche negli stessi paesi colonizzati, parlo soprattutto del mio paese, si sono avuti dei gruppi di giovani che stavano prendendo coscienza della necessità di un cambiamento.
Prima di cominciare la lotta armata, abbiamo deciso di creare delle organizzazioni africane. Nel 1954 abbiamo iniziato col realizzare delle organizzazioni ricreative, essendo impossibile a quel tempo assegnare loro un carattere politico. Questo è stato importante non solamente per la prospettiva organizzativa, ma perché il colonialismo non ne ha permesso la realizzazione, cosa che ha provato alle grandi masse della nostra gioventù, particolarmente entusiasta di questa iniziativa, che sotto la dominazione portoghese gli africani non avevano alcun diritto. Tutto ciò ci ha dato più coraggio per ulteriori azioni, per riprendere altre idee e per fare avanzare la nostra lotta.
Prima che questa si sviluppasse completamente e, più esattamente, prima che prendesse forma di lotta armata, il momento più importante è stato quello del 1956. In quest’anno, durante una visita alla mia famiglia (io ero allora esiliato) decidemmo di creare clandestinamente il nostro Partito. Vale a dire che per noi, il momento culminante prima della lotta armata, è stato quello in cui ci convincemmo che non era possibile lavorare se non nella clandestinità.
Dopo la creazione del Partito nel 1956, si è avuto un altro momento particolarmente rilevante, nel 1959, quando cioè i Portoghesi commisero il massacro di Pijiguiti che suscitò enorme indignazione in tutta la Guinea e Capo Verde. Questo momento segna un punto decisivo poiché ha provato che il Partito seguiva una linea sbagliata e non aveva alcuna esperienza. In quel momento il Partito sapeva poco o nulla di ciò che accadeva nel mondo ed eravamo quindi costretti ad avanzare in maniera empirica. Per quanto mi concerne, per esempio, soltanto nel 1961 ho potuto conoscere le opere di Mao Tse-Tung. La mancanza di esperienza ci faceva pensare che era possibile lottare nelle città a livello di scioperi ed altre simili azioni, ma ci sbagliavamo, e la realtà del momento ci ha provato che ciò non era possibile.
Nello stesso tempo, dopo l’indipendenza della vicina Repubblica di Guinea, avvenuta nel 1958, si erano creati molti piccoli gruppi ed infine, solamente nel 1959, il Partito riuscì a raccoglierli intorno a sé. Da allora non vi è stata che una unica organizzazione e nessuno si è mai più lamentato dell’esistenza di qualche altro gruppo. Ciò prova, quanto meno, la fiducia che la gente aveva nella direzione del Partito. Nel settembre del 1959, poco più di un mese dopo il massacro di Pijiguiti, abbiamo tenuto a Bissau una conferenza clandestina che ha provocato una virata totale nel carattere della nostra lotta. È allora che abbiamo cominciato a prepararci alla lotta armata, decidendo la penetrazione nelle campagne. Lo stesso presidente del Partito, Rafael Barbosa, è stato il primo ad andare al «mato», come noi diciamo, per mobilitare persone, per creare elementi del Partito.
Nostri militanti della città — operai, piccoli impiegati etc. — hanno fatto la stessa cosa, abbandonando tutto ciò che avevano. Un altro momento fondamentale è il tentativo del Partito di sostenere la lotta degli angolani attraverso azioni dirette nelle nostre regioni, nell’agosto del 1961. Abbiamo compiuto qualche importante sabotaggio cui i portoghesi hanno risposto sferrando una grande repressione contro la popolazione, la qual cosa ha reso ancora più acute le contraddizioni fra noi e loro e ci ha irrimediabilmente condotti alla lotta armata. Le grandi ondate di repressioni scatenate dai portoghesi, durante le quali è stato arrestato il compagno Barbosa, non sono riuscite a farci rinunciare alla lotta per la libertà. Al contrario: ciò ha galvanizzato la nostra volontà di far avanzare la lotta e di provare ai portoghesi che niente poteva fermarci.
All’inizio del 1961, i portoghesi sono riusciti ad arrestare venti membri del Partito fra cui si trovavano Fernando Fortes, Epifanio e altri dirigenti del PAIGC. Il grande movimento popolare che allora si produsse, obbligò i colonialisti a processare «legalmente» i nostri compagni ed a liberarne la maggioranza. Questo fatto ci ha dato molto prestigio ed ha contribuito a radicare ancor più nel nostro popolo l’idea della lotta. Di conseguenza il Partito decise di approfittare della esistenza di paesi indipendenti o, per lo meno, di un paese indipendente, confinante col nostro. Se i fattori interni sono decisivi, non bisogna tuttavia scordare quelli esterni. La esistenza della Repubblica di Guinea ai nostri confini, ha permesso al nostro Partito di decidere che alcuni dirigenti vi si installassero temporaneamente, per creare i mezzi necessari per aiutare la nostra lotta.
Ciò è stato decisivo. Nel 1960, abbiamo realizzato a Conakry, in condizioni miserabili, una scuola politica in cui abbiamo fatto venire prima i militanti delle città, membri del Partito, per prepararli politicamente, allenarli ed insegnare loro a mobilitare il nostro popolo per la lotta. Così furono inizialmente i compagni delle città a frequentare questa scuola; dopo, fu la volta dei compagni dei piccoli villaggi, dei giovani mobilitati da elementi del Partito (fra questi, molti arrivavano con le loro famiglie e le loro masserizie). Ne arrivavano, per esempio, dieci, venti, venticinque per un periodo di uno o due mesi durante il quale si dava loro una preparazione intensiva. Si parlava dall’alba al tramonto, fino a che si diventava afoni. Qualche quadro del PAIGC spiegava tutta la situazione, ma si faceva anche dell’altro lavoro. Si faceva tutto come in un teatro: si immaginava la mobilitazione della popolazione in un «tabanka» (villaggio), ma tenendo conto, nell’opera di convinzione, delle caratteristiche sociali, delle tradizioni, della religione, di tutte le abitudini, insomma, di quella popolazione contadina.
C’è una cosa che vorrei segnalare: la condizione delle nostre campagne. Si, parlo dei contadini, ma il termine «contadino» è molto vago. Il contadino che ha lottato in Algeria o in Cina non è il nostro contadino. Da noi è accaduto questo: il colonialismo portoghese non si è appropriato delle terre, esso ha lasciato che i nostri compatrioti coltivassero le terre da soli; non ha impiantato delle imprese agricole come ha per esempio fatto in Angola; non ha creato delle concentrazioni di coloni (come in Angola dove sono state spostate grandi masse di africani per mettere al loro posto dei coloni europei). Noi abbiamo mantenuto sotto la dominazione coloniale una struttura di base: la terra come proprietà collettiva del villaggio.
È uno dei tratti più importanti che caratterizza la nostra contadinanza che, d’altra parte, non è stata direttamente sfruttata dal colonizzatore, essendolo attraverso il commercio, con la differenza esistente tra i prezzi d’acquisto e il valore dei prodotti.
È là lo sfruttamento, non nel lavoro diretto come avviene in Angola per i lavoratori sotto contratto o, per esempio, per gli impiegati delle «compagnie concessionarie».
Ciò poneva un problema difficile da risolvere: provare al contadino di essere effettivamente sfruttato sulla propria terra. Noi non potevamo mobilitare la nostra gente dicendo loro «la terra deve essere di chi la lavora». Perché la terra non mancava. Vi era anzi tutta la terra di cui si aveva bisogno. Bisognava dunque trovare delle parole appropriate per mobilitare i contadini invece di utilizzare termini che la nostra gente non poteva ancora comprendere. Noi non abbiamo mobilitato la popolazione sulla base della lotta contro il colonialismo: ciò non avrebbe portato ad alcun risultato. Non serviva a niente parlare della lotta contro l’imperialismo. In luogo di ciò abbiamo usato un linguaggio diretto e accessibile a tutti:
Perché noi lottiamo? Chi sei tu? Chi è tuo padre? Cosa ha avuto tuo padre fino ad oggi? Cosa sta accadendo? Qual’è la situazione? Hai già pagato le imposte? Tuo padre le ha già pagate? Cosa pensi di queste imposte? Come ottieni la tua arachide? Hai pensato a ciò che ti frutta la tua arachide? Hai pensato al lavoro che è costato alla tua famiglia? Chi sono coloro che sono stati imprigionati? Tu sei stato prigioniero?
È su queste basi che avviene la mobilitazione.
Tu vai a lavorare sulla strada. Chi ti fornisce gli utensili per lavorare? Sei tu a procurarteli! Chi ti dà il cibo? Sei tu a procurartelo! Chi è che cammina sulla strada? Chi possiede le automobili? E tua figlia che è stata violentata da un tale, trovi che sia bene?
Per entusiasmare alcuni elementi, noi ci siamo inoltre serviti di qualche caso concreto che la gente conosceva: individui che erano stati impressionati da qualche cattiva azione del colonialismo, ma che non sapevano cosa fosse veramente il colonialismo portoghese.
Nella nostra mobilitazione abbiamo evitato tutto ciò che poteva essere generalizzato, le frasi fatte. Siamo scesi nei particolari ma abbiamo costretto i nostri militanti che si preparavano alla attività di mobilitazione a ripetere almeno dieci volte ciò che dovevano dire. È uno degli aspetti che consideriamo importanti, nel nostro caso concreto, perché noi siamo partiti dalla realtà concreta del popolo. Abbiamo evitato che il contadino potesse pensare che noi eravamo persone a lui estranee venute ad impartirgli delle lezioni.
Noi ci mettiamo nella posizione di persone che vengono ad apprendere «con il contadino», il quale finalmente scopre da solo, gradatamente, per quale ragione le cose vanno tanto male.
Egli arriva a comprendere che vi è uno sfruttamento terribile e che è lui a pagare tutto, ivi compresi i benefici delle persone che vivono nelle città. Questo ci prova la necessità che ha ciascun popolo di trovare la sua propria formula per mobilitarsi in vista della lotta.
L’esperienza che abbiamo delle nostre campagne, ci permette di affermare che, per arruolare le masse contadine nella lotta, bisogna avere molta pazienza. Bisogna considerando le nostre condizioni, che le campagne siano inizialmente mobilitate da persone capaci di integrarsi nel mondo contadino e che, a partire dalle prime mobilitazioni, siano i contadini stessi ad organizzare il reste della contadinanza.
Noi possiamo affermare che la nostra classe contadina non è assolutamente un elemento rivoluzionario fondamentale. Il contadino è la forza psichica e ideologica principale della nostra lotta, ma non è mai stato e non è, una forza rivoluzionaria. La forza rivoluzionaria fondamentale noi l’abbiamo trovata nei settori urbani, fra i lavoratori salariati portuali, dei battelli, delle officine di riparazione etc… e fra la piccola borghesia che era cosciente della dominazione straniera sul nostro paese. Sono loro che, dopo molte difficoltà, hanno condotto i contadini a congiungersi alla rivoluzione.
D’altra parte noi abbiamo sempre dato la più grande importanza agli strati sociali più sfruttati tanto nelle città che nelle campagne. Abbiamo fatto una profonda analisi della struttura sociale del nostro popolo, cosi da poter collocare ogni strato di fronte al fenomeno della lotta e sapere come comportarci con ognuno di loro.
È certo che la nostra linea non è stata esente da errori. Uno di questi è stato di aver avuto troppa fiducia nel sentimento nazionale. Non conoscevamo i problemi di alcuni strati sociali. Abbiamo creduto, per esempio al fatto che i capi-tribù (dato che i vecchi capi loro progenitori avevano lottato contro i portoghesi) avessero nuovamente interesse ad espellere gli stranieri dal nostro paese. Ma non è stato così. Un numero molto consistente di capi-tribù si è messo dalla nostra parte, ma coloro che erano i più tradizionalisti e che erano i più attaccati ai propri interessi, si sono messi dalla parte dei colonialisti, perché la loro unica preoccupazione era quella di mantenere il loro dominio sulle popolazioni che controllavano.
Ciò ha sicuramente creato dei nuovi problemi ai quali abbiamo dovuto far fronte seriamente per poter far avanzare la lotta in determinate regioni. La politica scelta dal nostro Partito per ciò che concerne questi problemi tribali ha dato dei buoni risultati. Secondo la nostra concezione, la tribù esiste e, nello stesso tempo, non esiste. Come è noto, quando i portoghesi sono arrivati nel nostro paese, il sistema economico tribale era già agonizzante. Il colonialismo portoghese ha contribuito ancor più ad accelerare il processo di disgregazione, quantunque abbia avuto bisogno di mantenere alcuni aspetti delle sue super-strutture.
Per ciò che ci concerne, non è stata la base economica ad indurci a rispettare la tribù, in quanto elemento di mobilitazione della nostra lotta; sono state le sue caratteristiche culturali: lingua, canzoni, danze etc. Noi non possiamo imporre ai Balanta i costumi dei Fulas o dei Mandinghi. Questo lo abbiamo sostenuto strenuamente, ma abbiamo anche strenuamente combattuto ogni divisione sul piano politico. Inizialmente, abbiamo mobilitato Balanta, Mandinghi, Brafada etc. e, nella misura in cui essi hanno cominciato a prendere coscienza della lotta e ad accettare il Partito, abbiamo cominciato a dislocarli. Abbiamo mandato al fronte coloro che, in ragione delle necessità del Partito, dovevano trovarvisi. Dal primo momento, abbiamo evitato di mettere alla testa di un gruppo un individuo della sua stessa tribù, per evitare eventuali manifestazioni di localismo. Un’altra cosa cui attribuiamo grande importanza, è l’aspetto religioso del nostro popolo. Abbiamo evitato qualunque ostilità verso le credenze del popolo guineano, verso il genere di rapporti che il nostro popolo ha ancora con la natura, dato il suo sottosviluppo economico. Noi ci siamo risolutamente opposti solo a ciò che attenta alla dignità umana. Siamo fieri di non aver impedito ai nostri uomini di utilizzare i feticci, gli amuleti e altre cose del genere che noi chiamiamo «mezinhas». Proibire ciò sarebbe stata una concezione assolutamente assurda ed erronea. Abbiamo lasciato che la nostra popolazione si rendesse conto da sola che i loro feticci non servivano a niente.
Oggi, fortunatamente, possiamo dire che la maggioranza se ne è già resa conto. Se, inizialmente, un compagno combattente aveva bisogno dell’aiuto di un mezinha, attualmente, anche se può darsi benissimo che ne abbia uno a portata di mano, egli comprende e cerca di farlo comprendere agli altri, che il miglior mezinha è la trincea. Possiamo dire che la lotta ha contribuito, su questi piano, ad una rapida evoluzione del nostro popolo. E ciò è importante.
Questa è, in generale, la situazione di mobilitazione del nostro popolo. Già nel 1963, nel momento in cui abbiamo cominciato lo nostra lotta, il nostro popolo aveva un Partito, anche se non in tutto il paese ma solamente nel sud. Prendiamo il sud come esempio. Nel 1962, i portoghesi hanno arrestato Nino che era uno degli agenti incaricati della mobilitazione e capo del Partito nella zona di Cobucaré che va fino a Catio, capitale del sud guineano. I portoghesi lo hanno arrestato dopo molte peripezie. Essi non volevano credere che Nino, che era giovanissimo, fosse un dirigente del Partito. Qualcuno lo ha denunciato ed essi hanno deciso di arrestarlo e di inviarlo a Bissao. Allora un poliziotto africano che era nell’amministrazione ma che era membro del P.A.I.G.C. (perché noi avevamo dei direttori postali, dei segretari di amministrazione, dei cipayes ed alcuni soldati dell’esercito portoghese che facevano parte del P.A.I.G.C.) ha parlato con Nino che gli ha detto di comunicarci che lo avrebbero portato a Bissau per essere interrogato dalla PIDE. Durante quella stessa notte, elementi decisi della popolazione hanno organizzato una sollevazione, assalito la prigione e liberato Nino; mi hanno poi inviato un regalo che conservo ancora: i catenacci della porta della prigione. Ciò fornisce un’idea della situazione nel nostro paese, prima della dichiarazione della lotta armata. Potrei citare innumerevoli esempi come questo per dimostrare la solidarietà del nostro popolo, perché tutti i nostri quadri si trovavano nel «mato». Nei villaggi, ovunque, c’era sempre gente del Partito sul punto di ribellarsi, di organizzarsi e anche di lavorare con i portoghesi. Questa situazione ha enormemente favorito lo sviluppo della nostra lotta armata. Abbiamo installato le basi della guerriglia prima ancora che questa cominciasse. Durante questo periodo, il materiale era introdotto con enormi difficoltà. Una volta introdotto nel paese era conservato da una parte della popolazione nelle nostre basi guerrigliere. Solo dopo di ciò, abbiamo dichiarato la lotta armata contro il colonialismo portoghese. Le nostre basi nel sud si trovavano nelle zone di Cobucaré, d’Indjassan, di Quinera, di Gambafà, di Quitafine e di Sususa. Nel nord, all’inizio noi avevamo solo due o tre basi; ciò dà un panorama generale della situazione.
Possiamo dire che la lotta armata si è molto più integrata alla popolazione che la popolazione alla lotta armata. Vi erano decine e decine di giovani pronti a combattere, ma non bastavano le armi. Abbiamo cominciato col creare dei gruppi autonomi di guerriglieri nelle zone che dirò. Ogni gruppo era collegato con la direzione del Partito.
Questo avveniva verso la fine del 1963. La lotta è progredita molto rapidamente, ancora più di come si era supposto.
(Ricordiamo che, quando nell’agosto 1961, noi avevamo decretato il sabotaggio ed avevamo chiesto alla popolazione di mettere degli alberi di traverso sulle strade, i capi del Partito furono sbalorditi dal magnifico lavoro che era stato fatto. Anche nelle regioni dove questo ordine non era giunto, la gente si era mobilitata ed aveva rovesciato delle piante sulle strade per dimostrare che anche essa voleva partecipare).
Con questi gruppi abbiamo potuto verificare che, data l’integrazione totale della popolazione alla guerriglia, qualche capo-guerrigliero era divenuto eccessivamente autonomo, non per quanto concerneva la direzione vera e propria (perché essi erano direttamente vincolati alla direzione superiore del P.A.I.G.C.) ma in rapporto a taluni capi che avrebbero potuto trovarsi in quella regione. Allora molte tendenze all’isolamento cominciarono ad essere notate, tendenze a misconoscersi reciprocamente, a non coordinare nessuna azione. Di fronte a questa situazione, abbiamo deciso di tenere il nostro Congresso nel 1964, momento questo decisivo per la nostra lotta. Nel Congresso abbiamo preso delle serie misure disciplinari, fra cui quelle di giudicare e condannare alcuni capi guerriglieri. Bisognava passare ad una direzione collettiva della guerriglia, che è rimasta però sotto la direzione del comitato del P.A.I.G.C.. Per noi non vi deve essere polemica sul fatto se deve essere il Partito o le Forze Armate a comandare, perché riteniamo che il Partito e le forze armate sono una sola identica cosa. Abbiamo creato zone e regioni con corrispondenti comitati del Partito in modo tale che i dirigenti del Partito erano nello stesso tempo i capi della guerriglia. Le cose sono migliorate, non tutto è perfetto sotto questo aspetto, ma vanno certamente molto meglio di prima. Inoltre, duranti il Congresso abbiamo deciso di mobilitare una parte delle forze guerrigliere per creare delle forze regolari, per estendere la lotta a nuove zone. Secondo noi, non è necessario mobilitare tutta la Guinea per la lotta armata guerrigliera: è sufficiente una quantità ragionevole di forze. Una volta che si è fatto ciò, si può avanzare con le forze armate ed immobilizzare il resto. Una volta ristrutturato il nostro apparato politico-militare, abbiamo organizzato delle imboscate, dei piccoli attacchi contro i portoghesi ed altre azioni che sono andate aumentando fino a raggiungere il grado di sviluppo raggiunto attualmente dalla nostra lotta. Con la creazione di forze armate regolari, abbiamo potuto aprire dei nuovi fronti di lotta: quello di Gabù e di Boè ad ovest. In quel momento non parlavamo ancora di fronti ma di regioni e di zone di lotta che si confondevano interamente con le regioni e le zone del Partito. Dopo, in misura dell’avanzamento della guerriglia, il nemico è stato costretto a ritirarsi verso i centri urbani ed a costruire le sue postazioni fortificate. Il nemico vive in una profonda contraddizione: se vuole dominare è costretto a disperdersi per controllare le popolazioni, ma facendo ciò egli si indebolisce. Allora noi attacchiamo e lo costringiamo a concentrarsi nuovamente e, quando si è concentrato, siamo noi a controllare le vaste zone che ha abbandonato.
In seguito, è stato possibile creare dei veri e propri fronti di battaglia. In principio esisteva solamente il Fronte del Nord e dal Fronte del Sud poi, col progresso della lotta, abbiamo costituito il Fronte dcll’Est.
Attualmente le nostre forze formano un corpo d’armata su ogni fronte e possono disperdersi in qualunque parte di esso.
Ma nella tappa successiva esse possono disperdersi insieme verso un altro fronte, se ciò si ritiene necessario. Per esempio, per qualche settimana, alcuni corpi d’armata provenienti da fronti diversi si sono congiunti con il corpo d’armata di una regione ed hanno attaccato insieme tutte le caserme portoghesi di Quinera. Ci tengo a ripetere che la direzione della lotta è la direzione del Partito. Nell’ambito dell’ufficio Politico esiste il Consiglio di Guerra che io presiedo in quanto Segretario Generale del Partito. Non vi è azione militare di una qualche importanza che non sia prima analizzata da me. Quando esistevano i fronti, i settori e le unità, essi godevano di una autonomia per le normali azioni quotidiane da realizzarsi nell’ambito di una linea stabilita. Ma già a quel tempo, ogni azione nuova d’una certa ampiezza passava per le mani del Consiglio di Guerra e per le mie mani. I comandi dei fronti sono degli strumenti esecutivi delle decisioni prese dal Consiglio di Guerra. Per esempio, l’attacco al porto di Bissau è stato programmato da noi, con tutte le precauzioni. Il solo contrattempo è stato che l’attacco non si è fatto per la data che noi avevamo stabilito perché vi erano state delle difficoltà materiali. Si è così avuto un ritardo di qualche giorno ma anche questo è stato deciso da noi nel corso di una riunione con tutti i compagni. Si erano anche scelti gli uomini che avrebbero dovuto prendervi parte. Questo permette di comprendere il grado di centralismo del nostro lavoro. Per quanto concerne l’evoluzione della lotta in quanto guerriglia, noi consideriamo che essa si sviluppi come un essere vivente in cui si manifestano tappe successive di crescenza. Spesso, una delle tappe è superata molto presto, mentre a volte dura più del previsto. Noi non forziamo nessuna tappa: ogni volta che se ne supera una, noi avanziamo un poco di più. Questo ha dato una armonia alla nostra lotta. All’inizio non parlavamo di esercito e fino a questo momento non abbiamo ancora parlato di Stato Maggiore. Abbiamo creato dei piccoli gruppi di guerriglia che si dedicavano alle loro attività unendosi progressivamente ad altri gruppi fino a costituire un esercito, cioè le forze regolari. Oggi siamo pervenuti ad una situazione in cui tutte le forze di guerriglia sono regolari. Tutte queste forze sono rigorosamente controllate e regolarmente ispezionate.
Attualmente le forze armate del nostro Partito sono composte, oltre che dalle forze regolari, da una milizia popolare armata situata nelle regioni liberate.
Mi preme sottolineare che inizialmente noi avevamo delle basi di guerriglia che erano degli autentici villaggi: poco a poco abbiamo ridotto le basi, dividendole per due o tre, ed in seguito abbiamo potuto ordinare l’eliminazione di questo tipo di basi. Attualmente esse non esistono più; vi sono i villaggi della nostra popolazione e dei punti d’appoggio delle nostre forze armate. Ciò è stato straordinariamente utile poiché è giunto il momento in cui portoghesi avevano segnato tutte le nostre basi sulle carte del loro Stato Maggiore ed avevano l’intenzione di bombardarle. Sono riusciti in effetti a bombardarne qualcuna, ma quando erano state da tempo evacuate.
Nel nostro paese il nemico ha smesso di utilizzare la stessa tecnica strategica impiegata nel corso di altre guerre coloniali contro altri popoli. Pensando che noi avevamo intenzione di invadere il nostro paese venendo dalla Repubblica di Guinea o dal Senegal, la prima preoccupazione strategica portoghese è stata di collocare un quantitativo ingente di truppe alla frontiera, per evitare quanto era già successo col nord angolano. Hanno così compiuto un grosso errore, perché la lotta è cominciata a cento Km. all’interno del territorio, causando loro ingenti perdite. Quasi subito i portoghesi hanno disperso le loro forze ed hanno piazzato un centinaio di postazioni fortificate in un paese piccolo come il nostro. Hanno installato una rete di caserme che, man mano che la lotta si intensificava, dovevano essere trasferite verso direzioni più sicure. Oggi, il numero di caserme è diminuito in ragione dei costanti attacchi cui le sottoponiamo.
Le tattiche dei portoghesi sono le tattiche comuni di questo tipo di lotta. A partire dal momento in cui il nemico si è reso conto che noi lo battevamo duramente, ha cominciato a bombardare e bruciare i nostri villaggi per evitare che essi costituissero un punto di sostegno alla lotta di liberazione. È questa la preoccupazione fondamentale del nemico in questa lotta; togliere alla guerriglia il sostegno della popolazione. Nello stesso tempo questa dimensione fa capire come sia importante per la guerriglia l’appoggio delle masse popolari, ed i portoghesi lo hanno compreso tanto bene da ricorrere a qualunque barbarie per evitare ciò. Ma, più i portoghesi commettono ingiustizie, e più decisa è la popolazione, da quando è pervenuta ad un certo livello di coscienza politica. I portoghesi hanno realizzato molte incursioni aeree contro le nostre basi; qualcuna con successo, bisogna ammetterlo francamente, fino al momento in cui siamo riusciti a restare vicino alle sue guarnigioni.
Le nostre truppe sono avanzate in misura tale che riusciamo a tendere delle imboscate a 500 metri dalle caserme portoghesi. Questo ha paralizzato enormemente il nemico sul terreno e ha avuto per conseguenza il rabbioso aumento dei bombardamenti.
Il nemico ha cominciato ad utilizzare sempre più frequentemente napalm e fosforo bianco su larga scala, ha attaccato le coste delle regioni liberate con cannoniere ed altre navi.
Nello stesso tempo si è lanciato nel gioco della propaganda politica per cercare di mobilitare la popolazione. Ha soprattutto fatto pubblicità radiofonica in cui ci accusava di tutti i misfatti possibili ed immaginabili: che siamo comunisti (sic), che vogliamo distruggere la religione, che vogliamo abolire i capi tradizionali, che siamo dei venduti allo straniero etc…
Hanno anche cercato di dare l’impressione che sono gli africani a dirigere il paese, hanno creato un «consiglio di governo» composto esclusivamente da africani. Hanno modificato i loro rapporti con i guineani arrivando perfino a concedere borse di studio e posti remunerati abbondantemente. Questi trucchetti non hanno dato però i risultati sperati; il nostro popolo sa perfettamente che senza il P.A.I.G.C., senza la lotta, non avrebbe ottenuto niente di tutto questo. Questo non vuol dire che non vi siano dei traditori, che non vi siano africani che, approfittando della situazione, si mettono a servizio dei portoghesi.
Credo che non valga la pena di proseguire con la dedizione della tattica e della strategia portoghese perché esse sono più o meno una copia di quelle nord-americane nel Viet-Nam. La sola differenza è che i portoghesi non dispongono di tutti i mezzi di cui dispongono invece gli americani. I portoghesi hanno organizzato degli sbarchi in massa: operazioni combinate terra-aria, terramare, terra-fiume ed aria. Ma sono stati attaccati. Noi abbiamo aspettato che arrivassero, che si installassero nei loro baraccamenti e poi abbiamo cominciato a sconfiggerli duramente. Inizialmente gli elicotteri ci hanno causato parecchi danni, soprattutto con gli attacchi di sorpresa contro la popolazione. Ma attualmente noi facciamo fronte con successo agli elicotteri. I nostri proiettili li raggiungono ed portoghesi hanno capito che con i velivoli non avrebbero vinto la guerra. Un fatto molto importante è che i portoghesi non hanno problemi nelle isole del Capo Verde. Quando noi cominceremo a lavorare in quest’isola, la lotta in Guinea sarà praticamente finita. Può anche finire senza che ciò avvenga, naturalmente, ma resta il fatto che quando il Capo Verde sarà attaccato saremo alla svolta decisiva. Quanto alla posizione dei portoghesi, riteniamo che stanno facendo questa guerra criminale in ragione dell’altrettanto criminale politica del loro governo e perché essi hanno un sacro terrore della decolonizzazione. Il Portogallo è un paese sotto-sviluppato, è una semi-colonia dell’Inghilterra, degli Stati Uniti e di altri paesi ancora e non ha una struttura economica che gli permetta di avviare il neo-colonialismo, o ha paura della concorrenza di altri paesi. In Angola per esempio, preferisce il ruolo di intermediario, piuttosto che ritirarsi. Preferisce che l’Angola sia sfruttata dagli Stati Uniti, dal Belgio, dall’Inghilterra etc., che andarsene o lasciare gli altri a mangiarsi il boccone tranquillamente. Nel nostro caso preciso, la sola cosa che impedisce al Portogallo di ritirarsi è il fatto che ciò costituirebbe un precedente. Il discorso di Marcello Caetano del 27 novembre alla Assemblea Generale, lo ha provato. Quando il capo del governo è costretto a dire che bisogna difendere una «provincia» ad ogni costo è perché in realtà egli sa benissimo che non vi è alcuna «provincia» e che se una volta questo paese era una colonia, ora non lo è già più.
E giacché ci troviamo a parlare di Caetano, diciamo subito nettamente che noi pensiamo che il cambiamento del Capo del Governo portoghese non significa un bel niente. Noi non abbiamo mai lottato contro la politica di un uomo, noi non abbiamo mai lottato contro Salazar, né contro il fascismo. Sono i patrioti portoghesi che devono lottare contro il fascismo portoghese. Noi non lottiamo contro il fascismo portoghese e questo non è figlio di Salazar: noi lottiamo contro una situazione di dominazione di classe in Portogallo e contro la situazione imperialista generale.
Poiché la classe dominante portoghese non potrebbe essa stessa dominare il nostro paese se non fosse sostenuta dall’imperialismo mondiale, dagli Stati Uniti, dalla Germania Federale, dall’Italia ed altri paesi ancora. Così Marcello Caetano, che è un burattino in mano al colonialismo portoghese e all’imperialismo mondiale, non fa altro che cercare di conservare il proprio posto, quando dichiara che «bisogna difendere a tutti i costi» la nostra terra. Ma noi faremo in modo che tutto ciò gli costi molto caro e non gli permetteremo di prenderci nulla. E la prova più chiara di ciò che ho affermato è che l’anno 1968 è stato per noi un anno straordinario per le ottime vittorie militari e politiche ottenute. Vi sono due altri avvenimenti significativi: il viaggio di Americo Thomaz e la partenza del Governatore. Il fatto che Americo Thomaz abbia visitato velocissimamente in aereo qualche città e, d’altra parte, la partenza del Governatore della Guinea, è un grosso smacco. È vero che il Governatore era giunto al termine del suo stato di servizio. Ma qual’è il generale, che proprio sul punto di vincere la guerra, se ne va quando il stato di servizio è terminato?
Ebbene, se parte allo scadere dei termini ufficiali, significa né più né meno che è stato sconfitto. Lo scorso anno è veramente stato colmo di successi, anche se questo non vuol dire che non abbiamo subito alcuna sconfitta: ciò è normale in una guerra.
Noi abbiamo attaccato tutti i centri urbani del nostro paese, eccettuato Bissao, la capitale, se non si tiene conto dell’attacco al suo aeroporto. Centri importanti come Balata, Gabù, Farim, Mansoa, Cansumbé e Bolama sono stati attaccati molte volte; abbiamo fatto un certo numero di prigionieri; vi sono state molte diserzioni fra le file portoghesi ed abbiamo, come non mai, distrutto un numero molto grande di battelli e navi portoghesi.
Il saldo delle nostre operazioni, dal 16 aprile al 15 novembre 1968, è il seguente: 251 attacchi alle caserme portoghesi, 2 attacchi ad aerodromi, 2 attacchi a porti, 94 veicoli distrutti, 30 navi affondate, 4 aerei abbattuti etc. e si ritiene che i nemici uccisi siano stati almeno 900 mentre il numero dei prigionieri è di 12.
Il 1968 è stato fruttuoso (e anche il 1967 ci ha portato dei risultati magnifici) sul piano politico, amministrativo, sociale, culturale etc. e quello in corso si sta concludendo ancora meglio. Le nostre forze hanno fatte sforzi straordinari obbligando i portoghesi ad evacuati letteralmente molte postazioni fortificate. Bel nell’est, Cacocoa e Sanchonhà lungo la frontiera del sud, sono stati fra i più importanti ad essere evacuati. Il fatto è che la nostra lotta è arrivata ad un punto nuovo di sviluppo e noi siamo in grado di conquistare gli accampamenti portoghesi. Ma non diamo in escandescenze, noi siamo molto calmi. Dobbiamo prendere molte precauzioni, dobbiamo lottare in condizioni che sono le nostre, e avanzare con cautela. La prova che questa nuova tattica è giusta è il fatto che siamo capaci di impadronirci degli accampamenti portoghesi, di costringere il nemico ad uscire dalle sue piazzeforti. Questa non è solamente una sconfitta militare; è una disfatta morale di prima categoria. Questo spiega i flutti di parole riversati dalla radio per giustificare l’abbandono delle postazioni fortificate. Ci sembra che sia tuttora molto importante concentrare la nostra azione verso i centri urbani per creare una grande insicurezza. Sappiamo che i portoghesi hanno intenzione di utilizzare i gas contro di noi, ma è difficile per loro. Siamo pronti ad affrontare qualunque situazione: l’importante è che noi siamo pronti a compiere tutti gli sforzi necessari per liberarci. Noi speriamo che nella linea generale scelta fino ad oggi e in particolare dopo la Conferenza di Khartum, le forze anti-imperialiste che sono disposte effettivamente a farlo ci aiutino più seriamente.
È preferibile non ricevere alcun aiuto, piuttosto che riceverne uno che in seguito si riduce, fino a cessare di esistere. Perché se noi abbiamo un aiuto determinato, possiamo creare, grazie ad esso, una nuova situazione; ma se esso cessa a un dato momento, noi ne siamo danneggiati politicamente e spesso militarmente.
Ci teniamo a confermare a tutte le forze anti-imperialiste del mondo e in particolare a quelle che lottano in America Latina, in Asia ed in Africa che noi non ci fermeremo, che faremo avanzare ogni giorno più vigorosamente la nostra lotta. Ed esortiamo tutte le forze anti-imperialiste che hanno la responsabilità di lottare al nostro fianco, a fare uno sforzo per portarci un aiuto maggiore.
[*] Articolo pubblicato dalla rivista «Tricontinentale», 1969.
CREDITS
Immagine in evidenza: Soldato con una granata a propulsione di razzo (RPG) nella base militare PAIGC di Manten.
Autore: Roel Coutinho; aprile 1974
Licenza: Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0)
Immagine originale ridimensionata e ritagliata