Amilcar Cabral – capitolo III di “L’arma della teoria” scritti di Amilcar Cabral
Se arrivando a Cuba, qualcuno avesse avuto un qualsiasi dubbio a proposito della stabilità, la forza, la maturità e la vitalità della rivoluzione cubana, questo dubbio è stato cancellato da quanto abbiamo visto.
Una certezza irremovibile riscalda i nostri cuori, e ci incoraggia in questa lotta difficile ma gloriosa contro il comune nemico: nessuna forza al mondo potrà distruggere questa rivoluzione cubana sul punto di creare, nella campagna e nelle città, non solamente una nuova vita ma anche, cosa ben più importante, un uomo nuovo, pienamente cosciente dei propri diritti e doveri nazionali, continentali, internazionali.
In tutti i settori della sua attività, il popolo cubano ha fatto dei progressi importanti nel corso degli ultimi sette anni, particolarmente nel 1965, anno dell’agricoltura…
Noi crediamo che ciò costituisca una ulteriore lezione particolarmente per i movimenti di liberazione nazionale, specialmente per quelli che vogliono che la loro rivoluzione sia autentica.
Alcuni non hanno mancato di notare che, pur costituendo una insignificante minoranza, certi cubani non hanno preso parte alla gioia ed alle speranze delle feste del settimo anniversario, perché essi sono contro la rivoluzione.
È possibile che altri ancora non saranno presenti alla celebrazione del prossimo anniversario, ma noi vogliamo affermare che consideriamo la politica della «porta aperta» per l’uscita dei nemici della rivoluzione, come una lezione di coraggio, di determinazione, di umanismo e di fiducia verso il popolo come una vittoria in più, politica e morale, sul nemico; noi garantiamo a coloro che, da un punto di vista amichevole, si preoccupano per i pericoli che questa uscita può rappresentare che noi, popoli dei paesi africani ancora totalmente dominati dal colonialismo portoghese, siamo pronti ad inviare a Cuba altrettanti uomini e donne quanti saranno necessari per compensare la partenza di coloro che, per ragioni di classe o di non adattamento, hanno degli interessi e degli atteggiamenti incompatibili con gli interessi del popolo cubano.
Ripercorrendo il cammino, un tempo doloroso e tragico dei nostri antenati (soprattutto di Guinea e d’Angola) che sono stati trapiantati a Cuba come schiavi, noi andremo oggi come uomini liberi, come lavoratori coscienti e patrioti cubani, per esercitare un’attività produttiva in questa società nuova, giusta e multi-razziale, per aiutare e difendere col nostro sangue le conquiste del popolo di Cuba.
Tutto ciò, per rafforzare sia i legami storici, di sangue e di cultura che uniscono i nostri popoli, sia questo dono spontaneo di sé, questa gioia profonda e questo ritmo contagioso, che fanno della costruzione del socialismo a Cuba un fenomeno nuovo di fronte al mondo, un avvenimento unico e, per molti versi, insolito.
Non intendiamo utilizzare questa tribuna per prendercela con l’imperialismo. Un detto molto diffuso nel nostro paese dice: «quando la tua casa brucia, non serve a nulla battere il tam-tam».
Sul piano tricontinentale, ciò significa che non è gridando o proferendo ingiurie contro l’imperialismo che potremo ottenere la sua liquidazione. Per noi, comunque, l’imperialismo, quale che sia la sua forma, esiste, ed il solo linguaggio da usare è quello di prendere le armi e di combatterlo. È ciò che noi stiamo facendo, è ciò che noi faremo fino alla liquidazione totale della dominazione straniera sulle nostre patrie africane.
1. L’assenza di ideologia
Quando il popolo africano afferma nel suo semplice linguaggio che «per calda che sia l’acqua della fonte, essa non cuocerà il tuo riso», esso enuncia, con singolare semplicità, un principio fondamentale non soltanto di fisica, ma anche di scienza politica.
Noi sappiamo, in effetti, che lo svolgimento di un fenomeno in movimento, quale che sia il suo condizionamento esterno, dipende principalmente dalle sue interne caratteristiche. Sappiamo anche che, sul piano politico, anche se la realtà degli altri è più bella ed attraente, la nostra realtà non può essere veramente trasformata che dalla sua conoscenza concreta, dai nostri sforzi e dai nostri sacrifici.
È bene ricordare, in questo ambiente tricontinentale dove le esperienze e gli esempi abbondano, che, per quante rilevante sia la somiglianza dei casi presenti e l’identità dei nostri nemici, la liberazione nazionale e la rivoluzione sociale non sono delle mercanzie d’esportazione; esse sono, ogni giorno di più, il prodotto di elaborazioni locali, nazionali, più o meno influenzate da fattori esterni favorevoli e sfavorevoli, ma essenzialmente determinati e condizionati dalla realtà storica di ogni popolo, e consolidati dalla vittoria o soluzione corretta delle contraddizioni interne fra le differenti categorie che caratterizzano questa realtà.
Il sorgere della rivoluzione cubana, sviluppatasi a qualche centinaia di chilometri dalla più grande forza imperialista ed anti-socialista di tutti i tempi, ci sembra essere, nel suo contenuto e nella sua forma d’evoluzione, un esempio pratico e conclusivo della validità del principio menzionato.
Dobbiamo riconoscere tuttavia che noi stessi, e gli altri movimenti di liberazione in generale (ci riferiamo soprattutto all’esperienza africana) non abbiamo saputo prestare tutta la necessaria attenzione a questo importante problema della nostra lotta comune.
La disfatta ideologica, per non dire la mancanza totale di ideologia, in seno ai movimenti di liberazione nazionale, che si spiega fondamentalmente con l’ignoranza della realtà storica che questi movimenti pretendono di trasformare, costituisce una delle più grandi, se non la maggiore, debolezze della nostra lotta contro l’imperialismo.
Crediamo nondimeno che un numero sufficiente di esperienze varie è già stato accumulato per permettere di definire una linea generale di pensiero ed azione, al fine di eliminare questa deficienza. Un’ampia discussione a questo proposito potrà essere utile, permettendo a questa conferenza di recare un prezioso contributo al rafforzamento dell’azione attuale e futura dei movimenti di liberazione nazionale.
Questa sarà una forma concreta di aiuto a questi movimenti, e, secondo noi, di importanza non inferiore a quella del sostegno politico e finanziario, in armi e in altri modi.
È con l’intenzione di contribuire, sia pur modestamente, a questo dibattito, che presentiamo qui la nostra opinione sui fondamenti e gli obbiettivi della liberazione nazionale in rapporto alla struttura sociale.
Questa opinione ci viene dalla nostra esperienza di lotta e dalla analisi critica di altre esperienze. A coloro che vedono in essa un carattere teorico, bisogna ricordare che ogni pratica genera una teoria. E che, se è vero che una rivoluzione può arenarsi, per quanto alimentata da teorie perfettamente concepite, nessuno ha ancora realizzato una rivoluzione vittoriosa senza teoria rivoluzionaria.
2. La lotta di classe
Coloro che affermano, con ragione per quanto ci concerne, che la forza motrice della storia è la lotta di classe, sarebbero certamente d’accordo nel rivedere questa affermazione, al fine di precisarla e darle un campo di applicazione ancora più vasto, se conoscessero più profondamente le caratteristiche essenziali di alcuni popoli colonizzati, vale a dire dominati dall’imperialismo.
In effetti, nella evoluzione generale dell’umanità e di ciascun popolo che la compone, le classi non appaiono né come fenomeno generalizzato e simultaneo nella totalità di questi gruppi, né come un tutto finito, perfetto, uniforme e spontaneo.
La definizione di «classi», nell’ambito di un gruppo o di più gruppi umani, è una conseguenza fondamentale dello sviluppo graduale delle forze produttive e delle caratteristiche della distribuzione delle ricchezze prodotte da questo gruppo o sottratte ad altri gruppi.
Vale a dire che il fenomeno socio-economico «classe», nasce e si sviluppa in funzione di almeno due variabili essenziali ed interdipendenti: il livello delle forze produttive ed il regime di proprietà dei mezzi di produzione.
Questo sviluppo avviene lentamente, gradualmente ed in maniera ineguale, attraverso variazioni quantitative e, generalmente, poco percepibili delle componenti fondamentali; processo che, a partire da un certo grado di accumulazione, sfocia in un salto qualitativo, che si esprime mediante la comparsa di classi e del conflitto fra esse.
Dei fattori esterni ad un dato insieme socio-economico in movimento, possono influenzare, in modo più o meno significativo, il processo di sviluppo delle classi, accelerandolo, frenandolo, oppure provocando dei regressi.
Quando, per una ragione qualunque, cessa l’influenza di questi fattori, il processo riprende la propria indipendenza ed il suo ritmo si determina allora non solamente attraverso le specifiche caratteristiche interne dell’insieme, ma anche attraverso il risultato dell’effetto prodotto su di esso dall’azione temporanea dei fattori esterni.
Sul piano strettamente interno, il ritmo del processo può variare, ma resta continuo e progressivo. I progressi bruschi sono possibili solamente in funzione di violente alterazioni — mutazioni — del livello delle forze produttive o del regime di proprietà. Queste trasformazioni violente operate all’interno del processo di sviluppo delle classi come risultato di mutazioni avvenute al livello delle forze produttive o nel regime di proprietà, si è convenuto di chiamarle, in linguaggio economico e politico: rivoluzioni.
D’altra parte, si constata che le possibilità di questo processo sono influenzate in modo notevole da fattori esterni, in particolare dalla interazione degli insiemi umani, considerevolmente aumentata dal miglioramento dei mezzi di trasporto e di comunicazione creati dal mondo e dall’umanità, eliminando l’isolamento fra i gruppi umani di una stessa regione, fra regioni di uno stesso continente e fra i continenti stessi.
Questo progresso caratteristico di una lunga fase storica che comincia dalla invenzione del primo mezzo di trasporto, era già più evidente ai tempi dei viaggi punici e della colonizzazione greca, e si è accentuato con le scoperte marittime, l’invenzione della macchina a vapore e la scoperta dell’elettricità.
E oggigiorno, con la domesticazione progressiva della energia atomica, è possibile promettere se non di seminare l’uomo fra le stelle, quanto meno la umanizzazione dello universo.
Quanto detto, consente di porre la seguente domanda: forse che la storia inizia solamente a partire dal momento in cui si sviluppa il fenomeno «classe» e, per conseguenza, la lotta di classe?
Rispondere affermativamente vorrebbe dire situare fuori dalla storia tutto il periodo di vita dei gruppi umani che va dalla scoperta della caccia, e successivamente dell’agricoltura nomade e sedentaria, alla creazione delle greggi ed alla appropriazione privata della terra. Ciò significherebbe anche, e noi ci rifiutiamo di accettarlo, considerare che parecchi gruppi umani delI’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, vivevano senza storia o al di fuori di essa, nel momento in cui furono sottomessi al giogo dell’imperialismo.
Sarebbe come ritenere che alcune popolazioni del nostro paese, come i Balanta in Guinea, i Koaniamas in Angola e i Makonde in Mozambico, vivono ancora oggi, salvo per le leggere influenze del colonialismo a cui furono sottomesse, al di fuori della storia, o che non hanno storia.
Questo rifiuto, fondato d’altronde sulla conoscenza concreta della realtà socio-economica dei nostri paesi e sull’analisi del processo di sviluppo del fenomeno «classe», così come l’abbiamo visto precedentemente, ci porta ad ammettere che, se la lotta di classe è la forza motrice della storia, essa lo è in un determinato periodo. Ciò vuol dire che prima della lotta di classe — e necessariamente dopo — un fattore, o dei fattori, fu e sarà lo stesso motore della storia.
Ammettiamo senz’altro che questo fattore della storia di ogni gruppo umano è il «modo di produzione» — il livello delle forze produttive ed il regime di proprietà — che caratterizza questo gruppo.
Inoltre, come si è visto, la definizione di classe e la lotta di classe sono essenzialmente l’effetto dello sviluppo delle forze produttive unite col regime di proprietà dei mezzi di produzione. Ci sembra dunque corretto concludere che il livello delle forze produttive, elemento determinante, essenziale del contenuto e della formula della lotta di classe, è la forza motrice autentica e permanente della storia.
Se accettiamo questa conclusione, scompaiono allora i dubbi che ci turbavano. Perché, se da una parte constatiamo che l’esistenza della storia, prima della lotta di classe, è garantita, ed evitiamo perciò ad alcuni gruppi umani del nostro paese e, forse, del nostro continente — la triste condizione di popolo senza storia, noi cogliamo, dall’altra parte, la continuità della storia anche dopo la sparizione della lotta di classe o delle classi stesse.
E poiché non siamo noi ad aver postulato, su basi scientifiche, il fatto della scomparsa delle classi come una fatalità storica, siamo soddisfatti di questa conclusione che, in certa misura, ristabilisce una coerenza e dà, nello stesso tempo, ai popoli che, come quello di Cuba, stanno costruendo il socialismo, la piacevole certezza che essi non sboccheranno sul finire della storia, quando sarà finito il processo di liquidazione del fenomeno «classe» e della lotta di classe nell’ambito dell’insieme socio-economico.
L’eternità non è di questo mondo, ma l’uomo sopravviverà alle classi e continuerà a produrre e a fare la storia, poiché non può liberarsi dal fardello dei suoi bisogni, delle proprie mani e del proprio cervello, che sono alla base dello sviluppo delle forze produttive.
3. Sul modo di produzione
Ciò che è stato detto sulla realtà attuale, ci permette di dire che la storia di un gruppo umano o dell’umanità si sviluppa in almeno tre fasi.
Alla prima corrisponde un basso livello delle forze produttive, della dominazione dell’uomo sulla natura; il modo di produzione ha un carattere elementare, non esiste ancora l’appropriazione privata dei mezzi di produzione, non vi sono classi, né, per conseguenza, lotta di classe; nella seconda fase, l’aumento del livello delle forze produttive conduce all’appropriazione dei mezzi di produzione, complica progressivamente il modo di produzione, provoca dei conflitti d’interesse nell’ambito dell’insieme socio-economico in movimento, rende possibile l’apparizione del fenomeno «classe» e, perciò, della lotta di classe, espressione sociale della contraddizione nel settore economico fra il modo di produzione e la appropriazione privata dei mezzi di produzione, la eliminazione del fenomeno «classe», dunque della lotta di classe.
Allora nuove forze, ignorate nel processo storico dello insieme socio-economico, si scatenano.
La prima fase corrisponderebbe, in linguaggio politico economico, alla società comunitaria dedita all’agricoltura e all’allevamento, in cui la struttura sociale è orizzontale, senza Stato; la seconda, alle società agrarie feudali o assimilate ed agro-industriali borghesi: qui la struttura sociale si sviluppa verticalmente, con lo Stato; la terza fase corrisponderebbe alle società socialiste e comuniste, in cui la economia è soprattutto, se non esclusivamente, industriale (poiché l’agricoltura stessa diviene una forma di industria) ed in cui lo Stato tende progressivamente alla scomparsa, oppure scompare, e la struttura sociale ritorna alla orizzontalità, ad un livello superiore delle forze produttive, delle relazioni sociali e di apprezzamento dei valori umani.
A livello di umanità o d’una parte di umanità (gruppi umani di una stessa regione, di uno o più continenti), queste tre fasi (o due di esse) possono essere simultanee, così come è provato dalla realtà attuale ed, altrettanto bene, dal passato.
Ciò proviene dallo sviluppo ineguale dalle società umane, sia per delle ragioni interne, sia per l’influenza acceleratrice o ritardatrice sulla loro evoluzione di uno o più fattori esterni.
D’altra parte, nel processo storico di un dato insieme socio-economico, ognuna delle fasi di cui abbiamo parlato, a partire da un certo grado di trasformazione, contiene i germi della fase successiva.
Dobbiamo anche far notare che, nella fase attuale della vita dell’umanità e per un dato insieme socio-economico, la successione nel tempo delle tre fasi caratteristiche non è indispensabile.
Quale che sia il livello attuale delle sue forze produttive e della struttura sociale che la caratterizza, una società non può superare rapidamente le tappe definitive ed adeguate alle realtà concrete locali (storiche ed umane) per pervenire ad una superiore fase d’esistenza.
Questo progresso dipende dalle possibilità concrete di sviluppo delle sue forze produttive ed esso stesso è condizionato dalla natura del potere politico che dirige questa società, vale a dire dal genere di Stato o, se si vuole, dal carattere della classe o delle classi che dominano nell’ambito di questa società.
Una analisi più dettagliata dimostrerebbe che la possibilità di un tale balzo, nel processo storico, proviene fondamentalmente, nel settore economico, dalla forza dei mezzi di cui l’uomo può disporre al momento per dominare la natura e, sul piano politico, da quel nuovo avvenimento, che ha trasformato radicalmente l’aspetto del mondo e la marcia della storia: la creazione degli Stati socialisti…
4. L’imperialismo
Ciò che importa ai nostri popoli, è sapere se l’imperialismo, come capitale in azione, ha adempiuto o no nei nostri paesi alla missione storica che gli era riservata: accelerazione del processo di sviluppo delle forze produttive, e trasformazione nel senso della complessità delle caratteristiche dei mezzi di produzione; approfondimento della differenziazione delle classi con lo sviluppo della borghesia, intensificazione della lotta di classe; aumento, infine, notevole del livello di vita economica, sociale e culturale delle popolazioni.
E’ ugualmente interessante conoscere quali sono le influenze o gli effetti della azione imperialista sulle strutture sociali ed il processo storico dei nostri popoli.
Sul piano economico, come sul piano sociale e culturale, il capitale imperialista non ha adempiuto, e di parecchio, nel nostro paese alla missione storica realizzata dal capitale nei paesi d’accumulazione.
Ciò significa che se, da una parte, il capitale imperialista ha avuto, nella maggior parte dei paesi dominati, la semplice funzione di moltiplicare il plusvalore, si vede, dall’altra parte, che la capacità storica del capitale (come acceleratore indistruttibile del processo di sviluppo delle forze produttive) dipende strettamente dalla propria libertà, vale a dire dal grado d’indipendenza con cui lo si utilizza.
Tuttavia, dobbiamo riconoscere che, in qualche caso, il capitale imperialista, o capitalismo moribondo, ha avuto sufficientemente interesse, forza e tempo per costruire le città, aumentare il livello delle forze produttive e consentire ad una minoranza della popolazione autoctona di raggiungere un livello di vita migliore o anche privilegiato, contribuendo così ad un processo che alcuni definirebbero dialettico, per l’approfondimento delle contraddizioni in seno alle società in questione.
In altri casi, ancora più rari, è esistita la possibilità d’accumulazione del capitale, creando le condizioni di sviluppo d’una borghesia locale.
E’ utile esaminare quali sono le forme generali di dominazione dell’imperialismo.
- Dominazione diretta, per mezzo d’un potere politico composto da agenti estranei al popolo dominato (forze armate, polizia, agenti dell’amministrazione e coloni) che si è convenuto di definire colonialismo classico o colonialismo.
- Dominazione indiretta, per mezzo d’un potere politico composto nella sua maggioranza o totalità da agenti autoctoni, che si è convenuto di definire neo-colonialismo.
Nel primo caso, la struttura sociale del popolo dominato, quale che sia la tappa in cui si trova, può subire le seguenti conseguenze:
- Distruzione completa, accompagnata, in generale, dalla liquidazione immediata o progressiva della popolazione autoctona e, per conseguenza, rimpiazzamento di quest’ultima per mezzo di una popolazione allogena.
- Distruzione parziale, accompagnata, in generale, dalla fissazione, più o meno importante, d’una popolazione allogena.
- Conservazione apparente, condizionata dal confinamento della popolazione autoctona nelle zone o riserve generalmente sprovviste di possibilità di vita, accompagnata dall’impiantazione massiva d’una popolazione allogena.
I due ultimi casi sono quelli che ci interessa considerare nel quadro della problematica liberazione nazionale, e sono largamente rappresentati in Africa. Si può dire che, in ognuno dei due casi, l’influenza dell’imperialismo sul processo storico del popolo dominato si esprime con la paralisi, la stagnazione (perfino, talvolta, col regresso) di questo processo.
Questa paralisi non è tuttavia completa. In uno o nell’altro settore dell’insieme socio-economico in questione, si può arrivare a delle trasformazioni sensibili, motivate dall’azione permanente di qualche fattore interno (locale) o risultante dalla azione di nuovi fattori introdotti dalla dominazione coloniale, come il ciclo della moneta e lo sviluppo delle concentrazioni urbane.
Fra queste trasformazioni, è utile rilevare, in alcuni casi, la perdita progressiva del prestigio delle classi o settori dirigenti autoctoni, l’esodo forzato o volontario d’una parte della popolazione contadina verso i centri urbani, con il conseguente sviluppo di nuove forze sociali: lavoratori salariati, funzionari, impiegati del commercio e liberi professionisti ed uno strato instabile di semi-impiegati.
Nella campagna, sorge con una intensità molto variabile e sempre legata all’ambiente urbano, uno strato costituite da piccoli proprietari agricoli. Nel caso del neo-colonialismo sia che la maggioranza della popolazione sia autoctona o di origine esotica, l’azione imperialista si orienta nel senso della creazione di una borghesia o pseudo-borghesia locale, assoggettata alla classe dirigente del paese dominatore…
5. Colonialismo e neo-colonialismo
Quantunque la situazione coloniale e quella neo-coloniale siano identiche nella loro essenza, e l’aspetto principale della lotta contro l’imperialismo sia neo-colonialista, riteniamo indispensabile distinguere, nella pratica, queste due situazioni. In effetti, la struttura orizzontale, sebbene più o meno differenziata dalla società autoctona, e l’assenza di un potere composto da elementi nazionali, facilitano, nella situazione coloniale, la creazione di un ampio fronte d’unità e di lotta, indispensabile al successo del movimento di liberazione nazionale.
Ma questa possibilità non ci dispensa dall’analisi rigorosa della struttura sociale indigena, delle tendenze della sua evoluzione, dell’adozione, nella pratica, di misure appropriate per garantire una vera liberazione nazionale.
Fra queste misure, pur ammettendo che ciascuno sa meglio di chiunque altro cosa occorra fare a casa sua, ci sembra indispensabile auspicare il crearsi di una avanguardia solidamente unita e cosciente del vero significato e dell’obbiettivo della lotta di liberazione nazionale che essa deve dirigere.
Questa necessità è tanto più pressante in quanto si sa che, salvo rare eccezioni, la situazione coloniale non permette né richiede l’esistenza significativa di classi d’avanguardia (classe operaia cosciente di se stessa e proletariato rurale) che potrebbero assicurare la vigilanza delle masse popolari sull’evoluzione del movimento di liberazione.
Inversamente, il carattere generalmente embrionale delle classi lavoratrici e la situazione economica, sociale e culturale della più importante forza fisica, i contadini, non permettono alle due forze principali di questa lotta di distinguere, da se stesse, la vera indipendenza nazionale dalla indipendenza fittizia.
Solamente una avanguardia rivoluzionaria, generalmente una minoranza attiva, può prendere coscienza, dall’inizio, di questa differenza e portarla, attraverso la lotta, a conoscenza delle masse popolari.
Ciò spiega il carattere fondamentalmente politico della lotta di liberazione nazionale e fa comprendere, in certa misura, l’importanza della forma di lotta nel risultato finale del fenomeno di liberazione nazionale.
Nella situazione neo-coloniale, la strutturazione più o meno accentuata della società indigena in senso verticale, e la esistenza di un potere politico composto da elementi autoctoni — Stato nazionale — aggravano le contraddizioni in seno a questa società e rendono difficile, se non impossibile, la creazione di un fronte unito tanto vasto come nel caso coloniale.
Da una parte gli effetti materiali (principalmente la nazionalizzazione dei quadri e l’aumento dell’iniziativa economica dell’elemento indigeno, in particolare sul piano commerciale) e psicologici (orgoglio di credersi diretti dai propri compatrioti, sfruttamento della solidarietà d’ordine religioso o tribale fra qualche dirigente e una frazione delle masse popolari) contribuiscono a mobilitare una parte notevole delle forze nazionaliste.
Ma, d’altra parte, il carattere necessariamente repressivo dello Stato neo-coloniale contro le forze di liberazione nazionale, l’aggravarsi delle contraddizioni di classe, la permanenza obbiettiva di agenti e di segni della dominazione straniera (coloni che conservano i loro privilegi, forze armate, discriminazione razziale), il depauperamento crescente del ceto contadino, e l’influenza più o meno notoria di fattori esterni, contribuiscono a mantenere accesa la fiamma del nazionalismo, ad aumentare progressivamente la coscienza di vasti settori popolari, ed a riunire, basandosi precisamente sulla coscienza della frustrazione neo-colonialista, la maggioranza della popolazione attorno a un ideale di liberazione nazionale.
Inoltre, mentre la classe dirigente autoctona si imborghesisce progressivamente, lo sviluppo di una classe lavoratrice composta da operai della città e da proletari agricoli, tutti sfruttati dalla dominazione indiretta dell’imperialismo, apre delle nuove prospettive all’evoluzione della liberazione nazionale.
Questa classe lavoratrice, quale che sia il suo grado di coscienza politica (al di là di un limite minimale, che è la coscienza dei propri bisogni) sembra, nel caso neo-coloniale, costituire la vera avanguardia popolare della lotta di liberazione nazionale.
Ma essa non potrà realizzare completamente il proprio ruolo nel quadro di questa lotta (che non finisce con la conquista dell’indipendenza) se non si unirà solidamente agli altri strati sfruttati, contadini in generale (impiegati, fattori, mezzadri, piccoli proprietari agricoli) ed alla piccola borghesia nazionalista. La realizzazione di questa alleanza esige la mobilitazione e l’organizzazione delle forze nazionaliste nel quadro (o per l’azione) di una organizzazione politica forte e ben strutturata.
Un’altra distinzione importante fra la situazione coloniale e neo-coloniale, sta nelle prospettive della lotta. Nel caso coloniale (dove la nazione-classe combatte contro le forze di repressione della borghesia del paese colonizzatore) essa può condurre, almeno in apparenza, ad una soluzione nazionalista (rivoluzione nazionale): la nazione conquista la propria indipendenza ed adotta, come ipotesi, la struttura economica che meglio le conviene.
Il caso neo-coloniale (in cui le classi lavoratrici ed i loro alleati lottano simultaneamente contro la borghesia imperialista e la classe dirigente autoctona) non si risolve con una soluzione nazionalista; essa esige la distruzione della struttura capitalista impiantata nel territorio nazionale, e postula appunto una soluzione socialista.
Questa distinzione risulta principalmente dalla differenza di livello delle forze produttive nei due casi e dall’aggravarsi conseguente della lotta di classe.
6. Il ruolo della violenza
I fatti ci dispensano dal provare che lo strumento essenziale della dominazione imperialista è la violenza. Se noi accettiamo il principio per il quale la lotta di liberazione è una rivoluzione e che questa non finisce nel momento in cui si alza la bandiera e si canta l’inno nazionale, vedremo che non vi è, né vi può essere, liberazione nazionale senza l’uso della violenza liberatrice da parte delle forze nazionaliste, per rispondere alla violenza criminale degli agenti dell’imperialismo. Nessuno dubita che, quali che siano le caratteristiche locali, la dominazione imperialista implica uno stato di violenza permanente contro le forze nazionaliste.
Non esiste su questa terra un solo popolo che, sottomesso al giogo imperialista (colonialista o neo-colonialista), abbia conquistato la propria indipendenza (nominale o effettiva) senza vittima alcuna.
Ciò che importa, è determinare quali sono le forme di violenza che devono essere utilizzate dalle forze di liberazione nazionale, per rispondere, non soltanto alla violenza dell’imperialismo, ma anche per garantire con la lotta la vittoria finale della propria causa: la vera indipendenza nazionale.
Le esperienze vissute da alcuni popoli, la situazione attuale della lotta di liberazione nazionale nel mondo (specialmente nel Viet Nam, in Congo ed in Rhodesia [l’attuale Zimbabwe – ndr]), così come la situazione di violenza permanente, o quanto meno di contraddizioni e di sobbalzi, in cui si trovano alcuni paesi che hanno conquistato la loro indipendenza per la via cosiddetta pacifica, ci dimostrano che non solamente i compromessi con l’imperialismo sono inefficaci, ma anche che la via normale di liberazione nazionale, imposta ai popoli con la repressione imperialista, è la lotta armata.
Crediamo di non scandalizzare questa assemblea affermando che la via unica ed efficace per la realizzazione definitiva delle aspirazioni dei popoli, vale a dire per ottenere la liberazione nazionale, è la lotta armata.
E’ questa la grande lezione che la storia contemporanea della lotta di liberazione insegna a tutti coloro che sono autenticamente impegnati nello sforzo per la liberazione dei propri popoli.
7. Sulla piccola borghesia
È ben evidente che tanto l’efficacia di questa via, quanto la stabilità della situazione a cui essa conduce, dopo la liberazione, dipendono non soltanto dalle caratteristiche della organizzazione della lotta, ma anche dalla coscienza politica e morale di coloro che, per ragioni storiche, sono proprio gli eredi immediati dello stato coloniale o neo-coloniale.
Giacche i fatti hanno dimostrato che il solo settore sociale in grado di avere coscienza della realtà della dominazione imperialista, e di dirigere l’apparato dello Stato ereditato da questa dominazione, è la piccola borghesia del paese.
Se teniamo conto delle caratteristiche aleatorie, della complessità delle tendenze naturali inerenti la situazione economica di questo strato sociale o classe, vedremo che questa fatalità, specifica della nostra situazione, costituisce una delle debolezze del movimento di liberazione nazionale.
La situazione neo-coloniale che non ammette lo sviluppo di una pseudo-borghesia autoctona ed in cui le masse popolari non raggiungono, in generale, il grado necessario di coscienza politica prima del sorgere del fenomeno di liberazione nazionale, offre alla piccola borghesia la opportunità storica di dirigere la lotta contro la dominazione straniera, per essere, data la sua situazione oggettiva e soggettiva (livello di vita superiore a quello delle masse, contatti più frequenti con gli agenti del colonialismo, e dunque più occasioni d’essere umiliata, grado d’istruzione e di cultura politica più elevati, etc…), il settore che prende più rapidamente coscienza della necessità di liberarsi dalla dominazione straniera.
Questa responsabilità storica è assunta dal settore della piccola borghesia che si può, nel contesto della rivoluzione, definire rivoluzionaria, mentre gli altri settori si mantengono nel dubbio caratteristico di queste classi o si alleano al colonialismo per difendere, sia pure illusoriamente, la propria situazione sociale.
La situazione neo-coloniale, che esige la liquidazione della pseudo-borghesia autoctona perché si realizzi la liberazione nazionale, dà anche alla piccola borghesia la opportunità di ricoprire un ruolo di primo piano, ed anche decisivo, nella lotta per la liquidazione della dominazione straniera.
Ma, in questo caso, in virtù dei progressi realizzati nella struttura sociale, la funzione di direzione della lotta ; divisa (a un grado più o meno elevato) con i settori più istruiti delle classi lavoratrici e anche con gli elementi della pseudo-borghesia nazionale imbevuta di sentimenti patriottici.
Il ruolo del settore della piccola borghesia, che prende parte alla direzione della lotta, è ancora più importante, tant’è vero che nella stessa situazione neo-coloniale, essa è più adatta ad assumere questo ruolo, sia perché le masse lavoratrici hanno dei limiti economici e culturali, sia a causa dei complessi e dei limiti di natura ideologica che caratterizzano il settore della pseudo-borghesia nazionale che aderisce alla lotta.
In questo caso, è importante far notare che il compito che gli è stato affidato, esige da questo settore della piccola borghesia una maggiore coscienza rivoluzionaria la capacità di interpretare fedelmente le aspirazioni delle masse, in ogni fase della lotta e di identificarsi sempre più con esse.
Ma, per sviluppato che sia il grado di coscienza rivoluzionaria del settore della piccola borghesia chiamato ad assolvere questa storica funzione, esso non può liberarsi da questa realtà oggettiva: la piccola borghesia, come classe dei servizi (vale a dire che non è direttamente inclusa nel processo di produzione) non dispone delle basi economiche che le garantirebbero la presa del potere.
In effetti, la storia ci dimostra che, quale che sia il ruolo, spesso importante, di individui provenienti dalla piccola borghesia nel processo d’una rivoluzione, questa classe non ha mai posseduto il potere politico.
Essa non poteva averlo, poiché il potere politico (Stato) si basa sulla capacità economica della classe dirigente e, nelle condizioni delle società coloniali e neo-coloniali questa capacità è detenuta da queste due entità: il capitale imperialista e le classi lavoratrici nazionali.
Per mantenere il potere che la liberazione nazionale mette nelle sue mani, la piccola borghesia ha un solo cammino: lasciare agire le proprie tendenze naturali di imborghesimento, permettere lo sviluppo di una borghesia burocratica ed intermediaria del ciclo delle merci, per trasformarsi in una pseudo-borghesia nazionale, vale a dire, negare la rivoluzione e riallacciarsi necessariamente al capitale imperialista.
Ora, tutto ciò corrisponde alla situazione neo-coloniale, cioè al tradimento degli obbiettivi della liberazione nazionale. Per non tradire questi obbiettivi, la piccola borghesia non ha che una sola possibilità: rafforzare la propria coscienza rivoluzionaria, ripudiare i tentativi di imborghesimento e le sollecitazioni naturali della propria mentalità di classe, identificarsi con le classi lavoratrici, non opporsi allo sviluppo normale del processo della rivoluzione. Ciò significa che, per assolvere perfettamente il compito che le viene assegnato dalla lotta di liberazione nazionale, la piccola borghesia rivoluzionaria deve essere in grado di suicidarsi in quanto classe, per resuscitare come lavoratore rivoluzionario, interamente identificato con le aspirazioni più profonde del popolo cui appartiene. Questa alternativa, tradire la rivoluzione o suicidarsi come classe, costituisce il dilemma della piccola borghesia nel quadro generale della lotta di liberazione nazionale.
La sua soluzione positiva in favore della rivoluzione dipende da quanto Fidel Castro ha definito correttamente sviluppo della coscienza rivoluzionaria. Questa dipendenza attira necessariamente la nostra attenzione sulla capacità del dirigente della lotta di liberazione nazionale di restare fedele ai principi ed alla causa fondamentale della lotta.
Ciò dimostra, in certa misura, che se la liberazione nazionale è essenzialmente un problema politico, le condizioni dello sviluppo le danno certe caratteristiche che appartengono alla morale.
Non lanceremo degli evviva, né proclameremo qui la nostra solidarietà verso questo o quel popolo in lotta. La nostra presenza è un grido di condanna dell’imperialismo ed una prova di solidarietà con tutti i popoli che vogliono eliminare dalla loro patria il giogo imperialista, in particolare con l’eroico popolo del Viet Nam.
Ma crediamo fermamente che la migliore prova che possiamo fornire della nostra posizione anti-imperialista e del nostro lavoro di solidarietà con i nostri compagni in questa lotta comune, è il fatto che ritorniamo nel nostro paese, per sviluppare ancora di più la lotta e restare fedeli ai principi ed agli obbiettivi di liberazione nazionale.
Ci auguriamo che ogni movimento di liberazione nazionale qui presente possa, armi alla mano, ripetere nel proprio paese, in unione col proprio popolo, il grido già leggendario di Cuba:
PATRIA O MORTE, VINCEREMO!
MORTE ALLE FORZE IMPERIALISTE!
PATRIA LIBERA, PROSPERA E FELICE PER CIASCUNO DEI NOSTRI POPOLI
VINCEREMO!
NOTE
[*] Relazione fatta alla Prima Conferenza di Solidarietà dei popoli dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina (3-12 gennaio, 1966) tenutasi all’Avana, a nome dei popoli della C.O.N.C.P.
CREDITS
Immagine in evidenza: Scuola PAIGC nelle aree liberate
Autore: Roel Coutinho; Marzo – Aprile 1974
Licenza: Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International (CC BY-SA 4.0)
Immagine originale ridimensionata e ritagliata