Salvatore Tinè in Marx. Dialectical Studies
Al centro della riflessione di questi saggi raccolti in un volume significativamente e giustamente intitolato Per una teoria del conflitto è il tema gramsciano dell’egemonia che Mazzone riprende e sviluppa sulla base di una interpretazione della teoria marxiana del modo di produzione capitalistico come «modello di processo», ovvero come base economica e materiale ma anche nello stesso tempo parte e momento per quanto centrale e fondamentale del più vasto e concreto processo storico di quella che lo studioso marxista definisce «riproduzione sociale complessiva». Si tratta di una nozione centrale nella riflessione di Mazzone. A partire da essa, egli riformula infatti in una chiave non più economicistica o materialistico-volgare il rapporto tra base economica e sovrastruttura ideologico-politica su cui si basa la dottrina marxista sia come critica dell’economia politica che come concezione materialistica della storia. Mazzone intende infatti per «riproduzione sociale complessiva» proprio il complesso di tutte quella attività umane vitali non solo lavorative che costituiscono la cosiddetta sovrastruttura, senza le quali non potrebbe realizzarsi la riproduzione di quei rapporti di produzione nel cui ambito soltanto operano e si trasformano le forze produttive del lavoro umano associato. È questo nesso inscindibile, sempre storicamente determinato, tra produzione e riproduzione, questo blocco storico per dirla con Gramsci tra struttura e sovrastruttura, che Mazzone identifica con la stessa egemonia, intesa perciò sempre come lotta per l’egemonia, come rapporto di forze mai statico ma sempre in sviluppo e dinamico tra le classi fondamentali della società in lotta tra loro, capitalisti da un lato e lavoratori salariati dall’altro. Perciò tale lotta per Mazzone si svolge sempre dentro un più generale sviluppo del modo di produzione capitalistico, inteso come forma sociale di produzione storicamente determinata e perciò transitoria, temporalmente coincidente con un’intera epoca storica della formazione economica della società. Soltanto a partire dalle sue forme di movimento specifiche concettualizzate in forma ancora soltanto astratta dalla teoria del modo di produzione, diventa possibile analizzare scientificamente, su un piano duplice, teorico e insieme pratico, il processo storico concreto della lotta per l’egemonia tra le classi nelle sue diverse fasi e figure, determinate a tutti i livelli del processo di produzione capitalistico e del processo della riproduzione sociale complessiva nella sua accezione più ”larga, non ristretta alla sola sfera “economica” in senso stretto.
«L’egemonia- scrive Mazzone- come rapporto di classe è la modalità dello svolgimento totale delle forze produttive e dunque anche della produzione e riproduzione della forza produttiva principale-gli uomini stessi».(pp. 132-133)
Mi pare che questa raccolta abbia il pregio di farci vedere come nella riflessione di Mazzone il livello teorico, quello appunto della definizione generale e astratta delle forme di movimento specifiche, peculiari della produzione capitalistica, del «modello di processo» come dice Mazzone, e quello storico-politico, cioè dell’analisi dei modi e delle forme in cui le classi in lotta condizionano, agendo su di esso, le stesse dinamiche spontanee del modo di produzione capitalistico, siano stretti in un nesso indissolubile e insieme di unità e distinzione. Il modello di processo è tale proprio in quanto non coincide immediatamente con il processo stesso, ovvero con la totalità dello svolgimento storico della riproduzione sociale complessiva di cui lo stesso modo di produzione è non a caso un momento fondamentale ma insieme «dileguante». Mazzone definisce così in termini rigorosi la storicità del modo di produzione, ovvero la sua duplice natura di modello teorico e insieme di processo come tale suscettibile di essere conosciuto e analizzato scientificamente anche nel suo concreto svolgimento storico. C’è una forte ispirazione labriolana nella riflessione di Mazzone. Labriola aveva identificato la «rivelazione scientifica» del materialismo storico con «la totalità e l’unità della vita sociale che si ha innanzi la mente». Così «è l’economia stessa – scriveva Labriola- che viene risolta nel flusso di un processo». È propriamente in questo risoluzione della stessa economia nel flusso di un processo che consiste il carattere critico, di critica dell’economia politica, della teoria scientifica del modo di produzione capitalistico che Marx ci ha consegnato ne Il Capitale. La filosofia della prassi nella interpretazione rigorosamente scientifica e materialistica proposta da Labriola nei suoi grandi saggi sul materialismo storico muoveva appunto dalla rilevazione di questo carattere critico e storico della teoria marxiana del modo di produzione capitalistico.
Non a caso le pagine di Mazzone colpiscono non solo per il rigore teorico ma anche per la profondità e la complessità dell’analisi propriamente storica dei processi di trasformazione del modo di produzione capitalistico nella fase imperialista del loro sviluppo, scanditi non meno che dalle loro dinamiche oggettive o spontanee anche dalla lotta tra le classi, dalle sue forme sempre più complesse e articolate di espressione cosciente e di organizzazione della loro soggettività e volontà storiche e politiche. Una complessità e articolazione che si lega organicamente ma anche contraddittoriamente alla dimensione globale e mondiale che il modo di produzione capitalistico assume nella sua forma imperialista, a partire dagli inizi del secolo scorso lungo un processo profondo, visibile e invisibile. tutt’altro che lineare che giunge fino ai nostri giorni, segnando il nostro presente. È il nesso, organico ma tutt’altro che immediato, tra il lato oggettivo e il lato soggettivo della lotta di classe a scala mondiale su cui Mazzone non cessa di richiamare l’attenzione, contro ogni forma di economicismo deterministico ma anche contro ogni forma di astratto soggettivismo o volontarismo politico. È qui il nucleo teorico del leninismo di Mazzone: la soggettività storico-politica della classe operaia è totalità e quindi coscienza di classe generale, universale soltanto come parte, sempre storicamente determinata e specifica, non astrattamente formale, del sistema capitalistico e insieme contraddizione oggettiva, sempre immanente al suo processo di sviluppo e come tale in grado, potenzialmente, di risalire, proprio dall’apparente ma anche reale parzialità del suo punto di vista di classe, all’analisi e alla conoscenza delle forme di vita di tutte le altre classi. Sulla base della teoria dell’imperialismo, ulteriore e decisiva concretizzazione, “concrezione” storica e politica della teoria marxiana del modo di produzione capitalistico, Lenin ha sviluppato la dottrina marxiana attraverso il suo inveramento e la sua realizzazione sul terreno della lotta di classe in tutte le forme fenomeniche concrete, determinate in cui essa si svolge nell’epoca del pieno sviluppo e dell’espansione monopolistica del capitale finanziario, quindi nell’ambito della trasformazione dei moderni stati nazionali in stati imperialisti, da quella immediatamente sociale a quella ideologico-culturale a quella politica, nel contesto dei vari ambiti nazionali in cui si struttura il sistema capitalistico mondiale sia nei suoi centri metropolitani che nelle sue immense periferie coloniali e semicoloniali, i cosiddetti anelli deboli della catena imperialista: sulla base indissolubilmente teorica e pratica dell’insegnamento di Lenin, Il movimento operaio e comunista internazionale sorto sull’onda della Rivoluzione d’Ottobre è stato il soggetto storico-politico globale che nel Novecento ha saputo sul piano dell’analisi e della teoria come su quello dell’organizzazione e della politica almeno fino ad una certa fase misurarsi e confrontarsi con il capitalismo come sistema imperialista in sviluppo sul terreno di una lotta concreta nazionale e internazionale per l’egemonia di classe del proletariato mondiale sulla base di una strategia di alleanze di classe di quest’ultimo con settori di borghesia nazionali dei paesi coloniali e semi-coloniali.
Giustamente Mazzone evidenzia il nesso organico che lega la teoria gramsciana dell’egemonia a quella leniniana dell’imperialismo. La categoria labriolana di «democratizzazione delle masse» ci pare uno dei principali fili conduttori dell’analisi storico-teorica delle trasformazioni sociali e politiche del capitalismo nell’epoca imperialista proposta da Mazzone in queste pagine. Lo sviluppo del modo di produzione capitalistico nella sua fase imperialista è stato scandito dalla continua azione nella forma del socialismo di quel processo di democratizzazione delle masse che era iniziato con la Rivoluzione Francese e con la Rivoluzione industriale in Inghilterra e che poi in modi e forme storiche diverse era proseguito sotto la spinta delle stesse leggi di movimento della civiltà capitalistica, anche dopo la fine dell’età delle rivoluzioni democratico-borghesi.
Mazzone sottolinea come questo processo a fine Ottocento fosse già per Labriola in una fase di arresto, ma, successivamente, la ricerca teorica di Gramsci avrebbe ripreso il tema labriolano del protagonismo democratico delle masse, dello sviluppo cioè del rapporto tra democrazia e socialismo, in rapporto alla rottura rivoluzionaria dell’Ottobre sovietico, quindi alla nozione leniniana di egemonia. Gramsci muove, come sottolineava già Mazzone, nel suo importante saggio del 1976 su Il feticismo del capitale: una struttura storico formale , dalla rivendicazione dell’autonomia teorica del marxismo come filosofia della prassi per svilupparla in una direzione che non può esserci ancora in Labriola, nel senso cioè della teoria leninista dell’imperialismo come sviluppo teorico e pratico del marxismo, sul terreno concreto della lotta di classe. È l’inizio del secolo breve segnato da una nuova fase della lotta di classe internazionale destinata poi, soprattutto nella seconda metà di esso, ad assumere la forma inedita della competizione economica pacifica e insieme della “guerra fredda” tra il campo socialista e quello imperialista a scala mondiale. Sui caratteri e i limiti di questa forma politica della lotta di classe internazionale e e in particolare sui modi in cui essa ha condizionato in positivo e in negativo la transizione al socialismo a scala mondiale, Mazzone non manca di richiamare energicamente l’attenzione.
Ma mi pare, in generale, che proprio l’insistenza di Mazzone sul carattere storico-epocale, di lungo periodo, del processo di transizione al socialismo che aveva preso le mosse dalla rottura politica dell’Ottobre sovietico per poi conoscere un tragico arresto sul finire del Novecento spinga poi Mazzone a considerare lo stesso “secolo breve” come parte del più lungo secolo dell’imperialismo, ovvero come momento, principale figura, potremmo dire, di un più ampio e contraddittorio processo di diffusione e universalizzazione in forma antagonistica del modo di produzione capitalistico a scala mondiale scandito da un continuo intreccio tra espansione del grande capitale monopolistico e sua crisi. Oggi possiamo dire che questo processo è ancora ben lungi dall’essersi esaurito. Tuttavia i suoi possibili esiti catastrofici, non solo per il proletariato mondiale ma per l’intero genere umano, non possono essere affatto esclusi. Quel «nuovo ordine mondiale di guerra, di sterminio» di cui Mazzone parla in un saggio del 2006 compreso in questo volume, tre lustri dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la conseguente fine del compromesso “fordista” e socialdemocratico tra lavoro salariato e capitale che aveva caratterizzato lo sviluppo capitalistico nel blocco occidentale nei cosiddetti “trenta gloriosi” è ancora quello in cui ci troviamo oggi.
Ma la ricerca di Mazzone è continuamente mossa proprio dal tentativo di non fermarsi a questo arresto del processo di transizione dentro cui siamo ancora immersi, certo ben più tragico e inquietante di quello di fine Ottocento oggetto della grande riflessione di Labriola, accettando o subendo a una interpretazione puramente pessimistica o disperata di esso. Rimettere al centro il tema della egemonia significa oggi cercare di capire come ricominciare dopo una grande sconfitta, ma riconnettendosi nello stesso tempo alle tradizioni di lotta del movimento operaio dell’Ottocento e del Novecento, ovvero alle straordinarie esperienze di “democratizzazione delle masse” che ne hanno scandito la vicenda storica. “Non tutto è perduto” dice Mazzone. Perciò teoria e storia, scienza e prassi sono in Mazzone sempre dialetticamente, indissolubilmente intrecciate. Scrive Mazzone in un saggio del 2004: “Senza la democratizzazione delle masse (Labriola 1894) – senza “le condizioni fondamentali di civiltà (Lenin, 1921 e fino alla fine) non si può pensare a una prospettiva socialista o anche a una alternativa all’oppressione e alla guerra che si sta preparando”. E non è chi non veda la drammatica, perfino tragica attualità di quanto scriveva quasi vent’anni fa Mazzone, di fronte alla tendenza al fascismo e alla guerra dell’imperialismo reso sempre più bellicista e reazionario dalla crisi generale che lo attanaglia, pur di fronte all’assenza di una soggettività organica ed organizzata democratica e di classe in grado di contrastarlo e di porre le condizioni di un’alternativa democratica e socialista a scala mondiale. E ancora: “Recuperare la continuità dello sviluppo democratico, ricostruire un soggetto che se ne faccia portatore e che può solo essere un soggetto di classe – in queste formule non si riassume forse il nostro problema all’inizio del secolo XXI?”.
È quindi di nuovo la teoria marxiana ad essere ripresa e riletta ma sempre come base fondamentale per un ulteriore sviluppo e concretizzazione del tema della transizione sul terreno storico anche se non più immediatamente politico come nella fase precedente, chiusasi con la fine dell’Urss e del campo socialista. Una teoria scientifica è tale proprio nella misura in cui si sottopone al vaglio e alla critica della prassi, ovvero nella misura in cui di essa si fa “uso”, come dice Mazzone, riprendendo la geniale definizione leniniana del marxismo come “guida per l’azione”. Mazzone si pone da questo punto di vista agli antipodi di ogni lettura di stampo teoreticistico o astrattamente logicistico della teoria di Marx che finisca per smarrire completamente la sua natura di “teoria obbiettiva della rivoluzione” per dirla ancora con Labriola. Di tale teoria la nozione di crisi costituisce un momento essenziale, proprio ai fini di una definizione della storicità, della dimensione epocale del modo di produzione capitalistico, ovvero della sua coincidenza con un’intera epoca storica segnata non solo dalla generalizzazione della circolazione delle merci e del capitale come merce carica di plusvalore trasformabile in denaro ma anche dal continuo accrescimento della forza produttiva del lavoro sociale attraverso l’integrazione delle potenze naturali nel processo di produzione e il carattere tendenzialmente infinito di tale processo come scopo a se stesso. È infatti la stessa tendenza epocale di questo processo i cui caratteri essenziali vengono già fissati dall’analisi puramente logica, concettuale, della produzione capitalistica che Marx ci ha proposto ne Il Capitale, a mostrare in modo sempre più evidente il suo limite storico, ovvero la regolazione secondo il valore del processo di produzione, la sua autoregolazione funzionale allo scopo limitato della valorizzazione del capitale, sebbene secondo modalità concrete e fasi specifiche che non sono prevedibili come tali dalla teoria del modo di produzione capitalistico assunta a questo livello di astrazione.
Perciò la possibilità oggettiva della transizione come lotta di lunga durata per la costruzione di una nuova egemonia di classe finalizzata al rovesciamento del dominio oligarchico e reazionario del grande capitale e a porre le basi per l’instaurazione di un nuovo modo di produzione e di organizzazione della società, per quanto ancora astratta, molto lontana quindi dal farsi realmente essente, si mostra, sempre di più come l’unica possibilità concreta di una fuoriuscita dalla crisi generale del sistema capitalistico mondiale e dal baratro a cui esso rischia di condurre l’intero genere umano. Ma appunto il processo attraverso cui questa possibilità oggettiva, reale, in quanto già, appunto, nelle cose si trasforma in una possibilità anche “essente” come dice Mazzone, è strettamente, indissolubilmente legato alle dinamiche, strutturali e sovrastrutturali, delle classi, della lotta e dei rapporti di forza economici, politici, ideologici tra di esse. Logica e storia, scienza e prassi, struttura e sovrastruttura, si riconnettono quindi sul terreno della lotta di classe nella totalità articolata e complessa di un unico blocco storico. La forma di moto epocale della produzione capitalistica è fondamentale e imprescindibile anche per comprenderne in termini non puramente empirico-descrittivi o sociologici insieme al suo carattere di processo quello che Mazzone sulla scorta di un lavoro di Gian Mario Cazzaniga definisce il nesso tra funzione e conflitto, che lo scandisce. È dentro infatti tale dimensione “funzionale-conflittuale” che la teoria di Marx coglie insieme alla formazione dell’unità dei molti capitali nel capitale sociale complessivo attraverso la mediazione e la regolazione della concorrenza e del denaro mondiale , la costituzione delle classi attorno al rapporto fondamentale tra capitale e lavoro salariato libero, ovvero la divisione conflittuale del corpo sociale tra detentori dei mezzi di produzione e venditori di forza-lavoro. Solo a partire da questo rapporto contraddittorio, mediato dallo scambio solo apparente tra lavoro e capitale, il modo di produzione capitalistico può essere considerato e concettualizzato come tale e insieme come momento dell’insieme dei rapporti sociali in cui si struttura il modo di vita degli uomini associati.
In fondo è proprio il progressivo avvicinamento della produzione capitalistica mondializzata al limite del suo svolgimento epocale nella figura del potere imperialista che ci indica l’attuale trasformazione della borghesia da classe “nazionale”, “progressiva”, “espansiva” quale è stata per tutta una fase del suo sviluppo storico, in una ristretta oligarchia finanziaria transnazionale tesa al controllo totalitario di ogni modo di vita degli uomini associati, di ogni sfera della riproduzione sociale, in una classe quindi non più “universale”, “dirigente” in senso gramsciano, ma puramente “dominante”. Il carattere di puro dominio, “tirannico” secondo l’efficace espressione di Mazzone, del potere del grande capitale monopolistico finanziario transnazionale, nella particolare configurazione odierna del suo sviluppo imperialista è un aspetto della sua crisi di sovraccumulazione sul terreno economico e della sua crisi di egemonia sul terreno sociale e politico: tale carattere si rivela infatti particolarmente nella sua violenta offensiva contro le condizioni di vita e di lavoro e i diritti economici e sociali del proletariato internazionale mondializzato, condotta attraverso la segmentazione e precarizzazione della forza-lavoro operaia disponibile in rapporto con la formazione di un esercito industriale di riserva totalmente asservito ai bisogni della valorizzazione capitalistica, sia nelle metropoli imperialiste che nei territori ex-coloniali e dei paesi ex-socialisti costretti di nuovo alla dipendenza economica e politica. A questa espansione mondiale della produzione capitalistica sia pure scandita dalle terribili contraddizioni del suo sviluppo ineguale si accompagna la tendenziale subordinazione alle esigenze della valorizzazione capitalistica, al dominio del profitto, non solo dello stato, delle sue istituzioni e dei suoi apparati pubblici di governo dell’economia e della società ma anche anche del complesso delle forme di vita e di attività sociale finalizzate alla produzione e alla riproduzione della vita degli uomini, in un ulteriore sviluppo anche in forme diverse e più complesse dello stesso “capitalismo monopolistico di stato” che già Lenin aveva messo al centro della sua analisi dell’imperialismo.
È dunque in questo ambito di azione totale, sempre più “globale” e integrato, in questo rapporto che non è mai stato così stretto e così evidente come oggi tra modo di produzione e modi di vita, che si pone per Mazzone la questione cruciale della democrazia, intesa non solo e non tanto come un insieme formale di regole e di istituzioni ma, marxianamente, come terreno fondamentale della lotta di classe, quindi via al socialismo come autogoverno della comunità umana, regolazione libera e consapevole della totalità del corpo sociale collettivo, sulla base di un pieno sviluppo, al di là dei limiti in cui esso si svolge nella forma capitalistica di produzione, della dimensione sempre più “soggettiva”, “ideale”, intellettuale-finalistica del lavoro sociale umano, di quello che Marx definisce il General Intellect. Il carattere di “potenza sociale obiettiva”, di soggetto, del capitale non toglie che sia pure nella forma antagonistica della produzione capitalistica, quindi sotto il dominio del capitale come lavoro morto, si sviluppi nell’ambito della riproduzione sociale complessiva la soggettività, l’idealità, l’intelligenza della forza produttiva umana, della capacità di quest’ultima di sottomettere ai sui scopi le potenze naturali attraverso la scienza e il saper fare generale. Nelle figure specifiche che il lavoro intellettuale viene assumendo si sviluppa in modo straordinario quella che è in generale una qualità immanente al lavoro umano in quanto tale, ovvero il suo carattere volontario, di “posizione di scopo”, come dice Mazzone sulle orme di Lukacs.
Mazzone accentua fortemente il carattere sociale dell’egemonia di classe nel processo di transizione forse perfino trascurando l’importanza decisiva, cruciale del suo momento politico e politico-statuale, pure fortemente presente nella stessa interpretazione gramsciana della teoria leniniana dell’egemonia. Nello stesso tempo appare evidente in molte sue pagine l’influenza della riflessione del tardo Lukacs sul socialismo come permanente sviluppo della democrazia della vita quotidiana, sviluppo effettivo dell’autocoscienza del genere umano, quindi effettiva, sebbene necessariamente sempre graduale, processuale, realizzazione dell’idea di universalità e di cittadinanza sociale, culturale politica di tutti gli uomini, appunto nella loro vita. In fondo questo nesso storico, intrinseco tra produzione e riproduzione, tra sfera del lavoro e sfera della vita, quindi tra lato soggettivo e oggettivo della lotta di classe, è implicitamente contenuto nella nozione marxiana di “lavoro vivo”. Nesso ma non indistinzione come nell’impostazione sostanzialmente “vitalista” dei teorici del carattere “biopolitico” della produzione capitalistica. Certo, il soggetto del processo di produzione capitalistico è il capitale stesso – ci dice Mazzone. Ma subito dopo egli rileva il carattere internamente dialettico del processo di capitale e del rapporto di capitale in cui all’opposizione tra capitale e lavoro vivo si intreccia il loro rapporto insieme conflittuale e di reciproca complementarietà funzionale: “entro il processo di capitale -scrive- le classi producono e riproducono se stesse e questo loro riprodursi è parte integrande del moto del capitale, della sua riproduzione e accumulazione. Non è una semplice opposizione: di qua il capitale, di là il lavoro: il primo non può esistere e accumularsi senza il secondo, ma anche il secondo, il lavoro vivo non può esistere e attuarsi in questo specifico rapporto di produzione senza il capitale che lo assorba. È un rapporto doppio, di funzionalità indispensabile e di conflitto immanente.”
Il dominio del capitale imperialista investe, in quanto fondato sullo sfruttamento del lavoro vivo, la totalità del lavoro produttivo di plusvalore e insieme quella della riproduzione della vita dei lavoratori come uomini, come tipi umani. L’imperialismo è questa sussunzione reale del lavoro al capitale che tende con una estensione e profondità inaudite a diventare e diventa realmente sussunzione al capitale della stessa vita. Ma proprio questo processo obiettivo amplia enormemente l’ambito il terreno della lotta per una nuova egemonia di classe come lotta per la democrazia e per il suo sviluppo nel senso del socialismo.
Mazzone ci dà qui delle indicazioni teoriche preziose: la democrazia come autogoverno della collettività dei produttori associati, antitesi quindi dell’anarchia della produzione, significa essenzialmente conquista di una coscienza unitaria, universale, non meramente pluralistica dell’intero processo della riproduzione sociale ma sulla base materiale della sua unità oggettiva e contraddittoria. La coscienza di questo processo come “ambito totale dell’azione” in grado di elevarsi a soggetto storico e quindi politico è effettivamente tale solo se oggettivamente possibile, immanente mai esterna ad esso. Mi pare che questa immanenza della coscienza, della soggettività consapevole al processo, questo darsi di ogni forma di soggettività, anche di tipo storico, sempre solo come momento specifico, oggettivo dello stesso processo storico obiettivo, sia un tratto essenziale dello storicismo di Mazzone, della sua interpretazione rigorosamente materialistica e dialettica della “filosofia della prassi” così come essa è stata elaborata prima da Labriola e poi da Gramsci.
In fondo è proprio questa immanenza della coscienza e della soggettività di classe all’ unità e all’oggettività del processo storico di espansione universale e di crisi permanente della moderna civiltà capitalistica nella figura del potere imperialista a rendere non solo possibile e necessaria ma anche terribilmente ardua e difficile la prospettiva di una ripresa della democratizzazione delle masse nel senso marxiano della loro emancipazione insieme umana, cioè sociale, e politica. In una splendida pagina di un saggio del 2003, Mazzone connette il carattere dialettico e aperto, tutt’altro che garantito di questa prospettiva, la possibilità del suo compimento, proprio alla modernità dell’imperialismo, quindi alla necessità, proprio ai fini della lotta di classe e di massa di tutte le forze antimperialiste a scala mondiale per la pace e per la democrazia, del suo studio, della sua analisi scientifica. Mazzone individuava rigorosamente la modernità dell’imperialismo come configurazione odierna del modo di produzione capitalistico e del suo processo di universalizzazione nella capacità di ristrette oligarchie finanziarie di sottomettere al loro potere economico e al loro dominio politico l’intera umanità. Scriveva perciò in quella pagina:
“Di fronte all’annunciata aggressione, caparbia e tracotante, incurante della volontà di pace di milioni di uomini e donne in tutto il mondo, che si attua in questi giorni, la domanda ‘ a chi e a che serve studiare l’imperialismo, può apparire perfino provocatoria. Eppure conoscere l’imperialismo è molto più che identificare gli aggressori; è molto più anche del necessario orientamento politico nel mondo di oggi; molto più che identificare forze, movimenti, anzi anche ceti, grandi istituzioni (come le Nazioni Unite o la Chiesa) che la superpotenza imperiale mostra voler battere e umiliare. Conoscere l’imperialismo significa porre la domanda sull’epoca nostra, e su noi stessi. E conoscere l’imperialismo moderno è cercare di intendere la natura delle forze in gioco, ma di tutte le forze, economiche, politiche, morali culturali, in tutto il mondo. Impresa sterminata, si dirà. Ebbene cerchiamo di prenderne le misure”. (p. 221)
Di fronte alla potenza, solo in apparenza schiacciante, irresistibile, dell’imperialismo, Mazzone rivendica la potenza della teoria, il suo carattere di arma fondamentale ma anche formidabile della lotta di classe. Il marxismo è onnipotente perché vero- ha detto una volta Lenin. È questo il senso profondamente dialettico dell’identità tra la conoscenza dell’imperialismo e la conoscenza di noi stessi di cui parla Mazzone. Conoscere noi stessi significa risalire via via, dialetticamente, alla totalità del processo e del soggetto che lo produce e che si riproduce in esso.
Qui Mazzone riprende attualizzandola al livello dell’analisi dell’imperialismo la nozione marxiana di “lavoratore complessivo”. L’imperialismo produce e aumenta sempre più in numero il lavoratore complessivo, facendo di esso, sul piano dell’oggettività del suo essere sociale la totalità dei lavoratori salariati a livello mondiale, ma nello stesso tempo lo divide, lo segmenta geograficamente, culturalmente, corporativamente. Esso blocca insomma il processo di unificazione del genere umano proprio rendendolo nello stesso tempo possibile. Di qui la difficoltà del lavoratore complessivo mondiale a comprendere il carattere di totalità di questo processo, di cui diventa oggetto, pur essendo lui l’effettivo “soggetto” di esso. La conoscenza oggettiva del processo complessivo è fondamentale per non subirlo soltanto ma proprio per conquistare l’iniziativa in esso e fare delle sue contraddizioni momenti di lotta, non solo sul piano della tattica ma anche della strategia, quindi della coscienza di classe, che Mazzone concepisce appunto non come un che di presupposto o già dato ma appunto come il risultato di un processo insieme oggettivo e soggettivo, in cui solo gradualmente l’oggettivo si fa soggettivo. Un processo che -dice Mazzone- può anche essere lunghissimo, ma che comincia subito, che si dà già nel presente.
Mi pare che la critica radicale che Mazzone muove ad ogni forma di essenzialismo antropologico, lungi dal negare l’importanza fondamentale del lato soggettivo della dialettica storica, muova proprio da questa affermazione del carattere di principale forza produttiva e insieme rivoluzionaria degli uomini, ovvero della prassi umano sociale umana nelle forme e figure sempre specifiche, determinate in cui solo concretamente e storicamente esiste, del corpus hominum nella natura, come dice Mazzone, cioè della collettività, dell’universalità reale, degli uomini.
Non esiste perciò transizione senza la costituzione di un soggetto storico e politico della trasformazione rivoluzionaria della società. Tale soggetto pur non non comparendo affatto al livello di astrazione della teoria del modo di produzione, appare tuttavia come possibilità concreta e si determina storicamente al livello dell’insieme dei rapporti sociali. Esso non consiste quindi consiste nel ripristino di una qualche “essenza umana” già immanente nei singoli “individui” oppure “alienata” nei rapporti mercantili ma piuttosto piuttosto si costituisce attraverso la creazione di nuovi tipi umani corrispondenti alle esigenze di direzione e di governo consapevole, razionale del corpo sociale collettivo. Mazzone insiste molto sul nesso tra questo autogoverno del corpo collettivo e le tradizioni della ragione moderna in cui vede un medium fondamentale della sua autoriproduzione. L’attacco alla ragione moderna viene individuato come uno dei terreni dell’ideologia irrazionalistica dell’imperialismo.
È qui un punto fondamentale della sua riflessione di Mazzone. La sua interpretazione della filosofia della prassi di Labriola e di Gramsci muove appunto dal problema storico e teorico della costituzione possibile di tale soggetto globale concentrandosi in particolare sul suo rapporto di continuità dialettica con l’intera storia della civiltà moderna scandita dalla sua espansione nella forma capitalistica e imperialistica del mercato mondiale, condizione solo oggettiva, solo in sé ma non ancora anche per sé di una effettiva quindi anche soggettiva unificazione del genere umano. Il comunismo è la prospettiva già possibile oggettivamente del compimento di questo lunghissimo processo. Una prospettiva che vive nel presente e quindi nella lotta da condurre oggi.
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