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«Sono stata rinchiusa dai senzalegge,
ammanettata da chi odia,
Imbavagliata dagli avidi. E se capisco qualcosa,
So che un muro non è che un muro,
e nient’altro.
E può essere abbattuto»
Assata Shakur, Dichiarazione
Giacomo Marchetti – Rete dei Comunisti in Bollettino Internazionale Novembre 2023
La mattina del 30 gennaio 1968 la resistenza vietnamita lanciò l’offensiva del Tet, dal nome del capodanno nel calendario lunare vietnamita.
L’operazione fu un’offensiva su larga scala ed in profondità, la più ampia di quelle condotte da entrambi le parti del conflitto dal suo inizio, nel 1965, ed impiegò circa 85mila tra combattenti nord-vietnamiti e Vietcong.
A Saigon i combattenti penetrarono nel Palazzo Presidenziale e nel compound dell’ambasciata statunitense.
Fu un saltò di qualità dalla guerra di guerriglia fino ad ora condotta.
Sebbene si concluse una sconfitta tattica sul piano strettamente militare, fu una vittoria strategica dal punto di vista politico, conquistata con il sacrificio dei combattenti vietnamiti – circa 30mila persero la vita – ed ebbe un irreversibile impatto psicologico sul nemico e sulle scelte che da quel momento fu costretto ad operare.
L’offensiva aveva fatto comprendere che i Vietcong, anche dopo anni di guerra logorante, erano in grado non solo di resistere ma di passare al contrattacco, cambiando i rapporti di forza.
La radio di Hanoi aveva affermato che il fine dell’offensiva era il rovesciamento del governo del Vietnam del Sud guidato da Nguyen Van Thuie, che il giorno dopo l’offensiva dichiarò la legge marziale sul territorio da lui amministrato.
L’operazione non condusse all’auspicata “insurrezione”, ma si concluse di fatto poco meno di un mese dopo il 25 febbraio, con la cacciata dell’ultima unità comunista dalla vecchia cittadella imperiale di Hue.
Ebbe un forte impatto sull’amministrazione Ford, e scioccò l’opinione pubblica nord-americana che era stata convinta (da leader politici e media) che i Vietcong erano sul punto di essere sconfitti e che la Resistenza fosse incapace di condurre operazioni su quella scala.
Il consenso in patria negli USA a quest’avventura militare di Washington diminuì a causa delle perdite (più di mille morti e 6 mila feriti tra gli statunitensi) e alla successiva richiesta di incremento del reclutamento (c’era la leva obbligatoria), spingendo Johnson a non ricandidarsi.
Fu un punto di svolta assolutamente inaspettato nella dinamica del conflitto, così come per il movimento contro la guerra negli USA e nel Mondo.
Ci vollero anni per arrivare poi agli Accordi di Parigi (gennaio 1973) e quindi alla fine effettiva della guerra, nell’aprile del 1975. Ma il solco tracciato dall’offensiva del Tet rese comprensibile al mondo intero il messaggio che il presidente Ho Chi Min aveva lanciato il 25 dicembre del 1967: «è chiaro che gli americani hanno perso la guerra».
Saigon venne poi “liberata”, e le immagini della fuga in elicottero dal tetto dall’ambasciata statunitense fecero il giro del mondo.
Mutatis mutandis (Hamas non è certo paragonabile al Partito Comunista vietnamita), con l’offensiva palestinese di sabato 7 ottobre è chiaro che Israele ha perso la sua guerra e che il terremoto politico regionale cambierà i rapporti di forza in Medio Oriente.
A vincere saranno il popolo palestinese e tutte le organizzazioni che ne compongono la Resistenza – ed i loro amici ed alleati – che nell’anniversario della guerra del Kippur del 1973 hanno deciso nuovamente di rompere barriere che sembravano impenetrabili.
Allora fu l’attraversamento della ‘Linea Bar-Lev’ da parte delle truppe egiziane, edificata da Israele dopo la conquista del Sinai nel 1967, oggi quelle strutture fortificate che rendevano Gaza da anni un’immensa prigione a cielo aperto e un poligono di tiro per cecchini e bombardieri di Tsahal, chiusa in un blocco che l’ipocrisia della “comunità internazionale” occidentale aveva rimosso.
Israele è stato colpito in profondità da una offensiva che ha prodotto più di 700 morti, 2mila feriti, almeno 100 prigionieri, la “riconquista” momentanea di porzioni di territorio attorno a Gaza e importanti danni materiali alle strutture israeliane.
Un fatto senza precedenti nella storia della Resistenza di questo popolo.
Questo ha prodotto un ferita che resterà indelebile in Israele e che la sete di vendetta della leadership sionista – è stato dichiarato lo stato di guerra e si prepara l’attacco a Gaza anche da terra – non potrà rimarginare, per quanto spietata sarà la sua risposta supportata dai suoi alleati occidentali (principalmente USA, UE e Ucraina).
Sulla rete qatariota Al Jazeera, con il presentatore che ribadiva che lo stato di guerra era stato dichiarato in Israele, un analista palestinese ha risposto: «è da decenni che la Palestina è in stato di guerra».
E dalla resistenza, con ogni mezzo, si è arrivati alla guerra di liberazione e all’insurrezione popolare.
Sabato sono suonate le campane a morto per l’intelligence israeliana e per la capacità di reazione dell’esercito sionista. E ciò decreta la fine della formula politica che ha portato Natanyau a governare, di fatto segnandone la fine della carriera proprio mentre sembrava non scalfibile dall’opposizione interna.
L’offensiva ha “galvanizzato” la Resistenza Palestinese anche nella West Bank e nella diaspora, e nuovamente polarizzato l’opinione pubblica negli Stati arabi. ribadendo il posizionamento di quella leadership che si è posta come nuovo “fronte del rifiuto” contro la normalizzazione con l’entità sionista: Iran, Siria ed Algeria.
Ma siamo ragionevolmente certi che l’offensiva palestinese incendierà almeno in parte anche il “giardino” europeo per ciò che concerne quella parte di classi subalterne di origine araba e/o di fede mussulmana che vi vedono un’occasione di riscatto contro quell’“Occidente collettivo” che è stato incapace di trovare una soluzione politico-diplomatica al conflitto israeliano-palestinese, acconsentendo e fiancheggiando le politiche neo-coloniali che hanno “legalizzato” l’apartheid israeliana, annullando completamente gli Accordi di Oslo.
Potrebbe essere un’occasione per gli attori di punta del “mondo multipolare” per porsi come mediatori e fare avanzare una soluzione diplomatica che non sia il semplice ristabilimento dello status quo, ma comprenda la messa in atto delle risoluzioni ONU disattese da Israele e da parte della cosiddetta £Comunità Internazionale”.
L’offensiva palestinese è una boccata d’ossigeno, di fatto, anche per la sinistra di classe e internazionalista, ed una indelebile lezione di coraggio.
Il muro fisico e metaforico attorno alla Palestina è stato abbattuto.
Pensiamo definitivamente.