Giacomo Marchetti – Rete dei Comunisti in Comrade Sisters
«Nelle poesie e nei blues
E negli urli del Sassofono
L’abbiamo portata avanti.
Nelle Scuole. Nelle chiese
Nei tribunali. Nelle prigioni.
L’abbiamo portata avanti.
Sui podi improvvisati e ai picchetti degli scioperanti.
Nelle file dei poveri, nelle file dei disoccupati.
Le nostre vite in fila.
L’abbiamo portata avanti.
Nei Sit-in, nelle preghiere insieme,
nei cortei e nei funerali.
L’abbiamo portata avanti»
The Tradition, Assata Shakur
Nel volume che racconta principalmente, ma non esclusivamente, la sua esperienza all’interno delle Black Panther Party, Mumia Abu-Jamal dedica un capitolo specifico alle compagne che hanno animato il Partito delle Pantere Nere – che qui ripubblichiamo integralmente – composto prevalentemente dal racconto in prima persona di coloro che erano la maggioranza dell’organizzazione afro-americana.
Mumia lo definisce infatti, in maniera appropriata, “Un Partito di donne”, ribaltando gli stereotipi denigranti su una delle organizzazioni più avanzate negli USA per ciò che concerne la parità effettiva tra tutti i militanti e le militanti, che erano il 66% dei membri.
Due Pantere su tre, quindi, erano donne.
Il suo libro, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 2004, è forse il primo contributo che mette in luce organicamente – a parte le indispensabili autobiografie di alcune compagne già precedentemente pubblicate – il contributo dato ad ogni livello dell’organizzazione da parte delle sue militanti, dalle dirigenti alle militanti di base.
Le autobiografie di Angela Davis e di Assata Shakur hanno fatto conoscere ad un pubblico italiano, tra le altre cose, il ruolo delle compagne dentro il BPP raccontando, dal punto di vista di due figure di spicco, l’intersezione della propria parabola politico-esistenziale con quella delle Pantere Nere.
Recentemente il bellissimo documentario Free Angela Davis and all political prisoners, diretto da Shola Lynch, ha ricostruito la vita e l’odissea giudiziaria della Davis.
Angela e Assata hanno conosciuto la latitanza, il sistema carcerario e la detenzione nelle carceri dell’Amerika per le proprie scelte politiche di dirigenti del Movimento di Liberazione Nero, in una esperienza politica che aveva rotto sia i limiti dell’approccio integrazionista che aveva caratterizzato il “movimento per i diritti civili” sia del nazionalismo nero.
I loro nomi possono essere affiancati ad altre note dirigenti che hanno lasciato una testimonianza scritta – tra le quali: Safiya A. Bukhari, Afeni Shakur, Kathleen Cleaver –, ma il lavoro delle BPP era sostenuto principalmente da “anonime” compagne che avevano fatto una scelta precisa di militanza come stile di vita dentro un’organizzazione rivoluzionaria divenuta il principale nemico dell’establishment statunitense.
Il BPP era un Partito che coniugava programmi di mutualismo con l’autodifesa armata della comunità afro-americana, l’incessante attività di massa con la rigorosa formazione politico-teorica, la lotta per il miglioramento delle proprie condizioni materiali con l’attività internazionalista al fianco della liberazione dei popoli del Tricontinente così come delle altre Nazioni e Soggettività Oppresse dentro il “Ventre della Bestia”.
Proprio per questo è stato il bersaglio principale di un sistematico programma di annientamento messo in atto dal FBI che ha usato qualsiasi mezzo per stroncarlo: infiltrazione, omicidio politico, disinformazione strategica, ecc.
Recentemente Ericka Huggings, ex militante delle BPP, e Stephen Shames, che ha documentato come fotografo l’attività delle Pantere dal 1967 al 1973, hanno co-curato un bellissimo libro fotografico che testimonia l’attività delle Sisters Comrades e offre dei brevi racconti sia di compagne in vista sia di attiviste meno conosciute, preziosi per capire ex post lo spirito che ha motivato le proprie scelte e l’eredità che ha lasciato.
Nella sua prefazione al volume pubblicato nel 2022, Angela Davis scrive:
«Molteplici generazioni ora ci separano da un’era definita sia dal leggendario attivismo del Black Panther Party sia dalla dura, spesso letale, repressione della polizia praticamente in tutte le principali città degli Stati Uniti. Per quanto importante possa essere stato il lavoro contro la repressione della polizia e, in effetti, ha gettato le basi per Black Lives Matter e per le teorie e le pratiche abolizioniste contemporanee; dobbiamo anche tenere presente che il nuovo collegamento radicale tra antirazzismo e anticapitalismo che ha caratterizzato l’approccio del Partito alla Liberazione Nera è stato accompagnato da una tenace dedizione alla lotta contro il capitalismo».
E, in effetti, il salto di qualità del BPP è stato l’approccio anti-capitalista alla lotta anti-razzista, superando la gabbia interpretativa del nazionalismo nero, e una visione anti-imperialista alla lotta contro la guerra in Vietnam, andando oltre un generico pacifismo.
Continua la Davis:
«Programmi di sopravvivenza della comunità. Questi programmi hanno dimostrato che la libertà è molto più di una lista di diritti formali. La libertà implica colazione gratuita per i bambini, generi alimentari gratuiti, istruzione gratuita, assistenza sanitaria gratuita, trasporto gratuito per visitare i propri cari incarcerati. Complessivamente c’erano oltre 60 programmi di sopravvivenza comunitaria, gestiti principalmente da donne.
C’è stata la tendenza a dimenticare che il lavoro organizzativo che ha reso il BPP veramente rilevante per una nuova era di lotta per la liberazione è stato in gran parte svolto dalle donne.
Spesso è difficile correggere errori storici così profondamente radicati che la prospettiva di ripristinare una rappresentazione accurata sembra una preoccupazione del tutto marginale. Così siamo molto fortunati che esistano prove archivistiche della centralità delle donne nel lavoro del BPP e che molte delle donne impegnate in quel lavoro possano raccontare le proprie esperienze vissute. In un’epoca in cui le donne sono in prima linea in Black Lives Matter e in tante altre importanti lotte per la giustizia sociale, comprese le campagne globali contro il razzismo, contro la violenza di genere e per la giustizia climatica, e in un momento in cui stiamo finalmente salvando l’eredità delle donne dalle ceneri della storia, è essenziale riconoscere le donne del Black Panther Party per la loro inestimabile leadership. Il loro ruolo in questa organizzazione ha convinto le persone di tutto il mondo – dal Brasile e Palestina alla Nuova Zelanda e al Sud Africa – che un cambiamento radicale era necessario e possibile. Servivano le persone, il corpo e l’anima».
Ma chi erano le donne del BPP?
Ericka Huggings, co-curatrice di Comrades Sister, cerca di farne un ritratto:
«Donne provenienti da ogni stato degli Stati Uniti – e a livello internazionale da tutto il mondo – sono state attratte dalla possibilità di un movimento di liberazione in grado di cambiare le cose. (…) Eravamo giovani e piene di amore per tutte le persone. Se il governo non si prenderà cura della sua gente, lo faremo da sole. Serviremo le persone, corpo e anima.
Le donne del Black Panther Party non sono in qualche modo speciali e separate dalle altre. Sono semplicemente donne che all’età di 12, 14, 16, 18 o 21 anni hanno deciso che doveva esserci “una via d’uscita dal nulla” per i neri e i poveri. Avendo l’opportunità di farsi avanti e donare, hanno parlato apertamente e hanno sviluppato le loro capacità innate per creare modelli brillanti per la leadership della comunità».
Cosa motivava questa schiera di giovani e giovanissime afro-americane? Un mix di amore per la propria gente, un odio per il sistema che l’opprimeva e la necessità di una rottura.
Sempre la Huggings:
«Questo amore è stato dimostrato attraverso il loro lavoro nel BPP. In particolare i programmi di sopravvivenza della comunità. I programmi di colazione gratuita per i bambini in età scolare si sono diffusi in tutto il paese, dando da mangiare ai bambini nei centri ricreativi e negli scantinati delle chiese ogni mattina prima della scuola per molti anni. Riconoscendo i bisogni della loro comunità, le donne guidarono il BPP a creare le Cliniche mediche gratuite popolari, che offrivano assistenza sanitaria familiare e test per l’anemia falciforme. Ciò ha portato all’idea del programma di ambulanza gratuita. Questo programma è stato creato per garantire che le persone senza soldi o prive di assicurazione ricevessero il trasporto di emergenza all’ospedale più vicino. In alcune città, le persone venivano lasciate morire essendo stato rifiutato il servizio di ambulanza. (…) Come facevano le donne e gli uomini del partito a sapere cosa offrire? La gente parlava e noi ascoltavamo. Abbiamo creato cliniche gratuite, programmi alimentari comunitari, programmi per anziani e adolescenti, il programma Busing to Prison, scuole di liberazione, programmi doposcuola e centri per l’infanzia. Ogni programma di sopravvivenza della comunità era completamente replicabile in luoghi e culture di tutto il mondo».
Un lavoro di inchiesta costante per offrire soluzioni concrete ai problemi della propria gente dentro un articolato programma politico in 10 punti comprensibile a tutti.
Parafrasando Lenin potremmo dire che le donne nel BPP, fossero “semplici combattenti del popolo” qualsiasi ruolo rivestissero nell’organizzazione: dirigenti, quadri o semplici militanti. Combattenti che avevano compreso che la propria liberazione non potesse compiersi se non all’interno di un processo rivoluzionario dentro un’organizzazione.
Le Pantere dovettero quindi confrontarsi con le molteplici forme di oppressione e sviluppare una politica più possibilmente inclusiva.
Malia Mac Devich-Cyril, in un ricordo di sua madre Janet Cyrill afferma che le BPP erano «una delle organizzazioni nere esplicitamente femministe a cui abbia preso parte», motivo per cui ha potuto apertamente supportarla in quanto queer da quando l’ha apertamente dichiarato a 12 anni.
Continua Davich-Cyrill affermando: «il Partito era l’unica organizzazione nera nel paese a quel tempo che era impegnata ad occuparsi e a lavorare con persone queer».
Segno di un’apertura mentale tutt’alto che scontata ai tempi.
Sebbene godessero di pari diritti e degli stessi doveri dei propri compagni maschi, le donne dovevano comunque affrontare i riflessi culturali della società in cui vivevano e del loro blocco sociale di riferimento, il proletariato metropolitano afro-americano, e i retaggi culturali che erano sopravvissuti alla fine “formale” della schiavitù, anche nei rapporti tra sessi ed anche dentro l’organizzazione stessa.
Nonostante questo non si concepivano come vittime ma come rivoluzionarie, che non facevano sconti ai compagni maschi dentro l’organizzazione, che spesso dirigevano e che le vedevano come “soldati, come compagne, non come graziosi oggettivi”, per citare Elaine Brown.
Nonostante i retaggi patriarcali nei compagni e il loro riflesso, tra le compagne erano la dedizione alla causa, le responsabilità che assumevano e le capacità che sviluppavano nella lotta (compresa quella di dirigere anche militarmente) che ribaltavano i rapporti di genere così come erano codificati nella società capitalista nord-americana, costituendo un esempio per tutte le donne con cui si relazionavano sia nell’attività di massa che nei rapporti politici con gli altri gruppi.
Così Assata Shakur, nella sua Autobiografia, dopo aver raccontato com’è scampata a uno stupro di gruppo da parte di suoi coetanei afro-americani durante l’adolescenza, descrive le ragioni per cui si riproduceva e si normalizzava la violenza di genere tra i Neri.
«Quanto più osservavo come si comportavano i ragazzi e le ragazze, quanto più leggevo e pensavo, tanto più mi convincevo che questo comportamento poteva essere ricondotto direttamente all’epoca delle piantagioni, quando gli schiavi venivano incoraggiati a riversare le miserie delle loro vite gli uni contro gli altri, invece che contro il padrone. (…) I Neri assimilavano l’opinione dell’uomo bianco sulle donne Nere. E, per quanto ne so, molti di noi si comportano ancora oggi come se fossero nelle piantagioni con il padrone che tiene i fili».
Lottare, per i compagni e le compagne delle Pantere, voleva dire recidere quei fili con la schiavitù materiale e mentale che ne aveva caratterizzato la condizione, riannodando quel filo rosso della ribellione.
Bibliografia delle opere citate
- Vogliamo la libertà. Una vita nel Partito delle Pantere Nere, Mumia Abu-Jamal, a cura di Giacomo Marchetti, Mimesi, 2018
- Assata. Un’autobiografia, Assata Shakur, a cura di Giovanni Senzani, Controinformazione internazionale – Erre Emme, 1992
- Autobiografia di una rivoluzionaria, Angela Davis, Garzanti, 1975 (più volte ripubblicata)
- Free Angela Davis and all political prisoners, documentario diretto da Shola Lynch, USA-Francia, 2012
- Comrades Sisters: Women of the Black Panther Party Stephen Shames – Erika Huggings, ACC Art Books, 2022
CREDITS
Immagine in evidenza: Women of the Black Panther Party
Autore:Rob Corder, 9 marzo 2021
Licenza: Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic
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