DOMENICA 10 MARZO, ORE 17,
OFFICINA DEL POPOLO “VALERIO EVANGELISTI”,
VIA DELL’ARTIGIANO 11, BOLOGNA
Conflitto di classe e “guerra a bassa intensità” negli Anni ’70
Ne parleremo con:
- Giacomo Marchetti, Redazione Contropiano
- Aldo Romaro, Rete dei Comunisti
Rete dei Comunisti, Bologna – Cambiare Rotta, Bologna
L’Italia ha conosciuto un’estensione ed una intensità del conflitto di classe tra la fine degli Anni Sessanta e l’Inizio degli Anni Ottanta che non ha equivalenti nell’Europa Occidentale del mondo diviso in blocchi.
É stata una frattura storica che il successivo tentativo di restaurazione capitalista ha voluto ingabbiare – non solo materialmente – dentro categorie interpretative tese ad “esorcizzarne” il portato con un lavoro culturale in profondità di radicale revisionismo storico, non diverso da quello attuato con le esperienze rivoluzionarie dalla Rivoluzione d’Ottobre in poi.
Per certi versi gli Anni Settanta sono un vero “rompicapo storico” visto che insieme al più grande Partito Comunista dell’Occidente ed al movimento operaio più strutturato, non solo sindacalmente, hanno visto lo sviluppo di una sinistra rivoluzionaria “extra-parlamentare” che già nella prima metà degli Anni Sessanta muoveva i primi passi, ed una serie di lotte sociali – in fabbrica, nei quartieri popolari, nei scuole/università, nei servizi, nelle carceri e nelle “istituzioni totali” – che sono sfuggite al controllo delle direzioni politiche-sindacali riformiste e hanno sfidato l’egemonia riformista stessa in seno al movimento operaio, dal ’68 in poi, per almeno un decennio.
Questo in un contesto in cui il conflitto di classe in Italia è stato caratterizzato già dal dopo-guerra da quattro importanti fattori politici: la mancata “rottura” in larga parte degli apparati statali della Repubblica nata dalla Resistenza con il Ventennio fascista che ereditò di fatto lo Stato profondo mussoliniano; la collocazione dentro l’Alleanza Atlantica sin dal nascere della NATO; governi del Paese che erano incentrati sulla Democrazia Cristiana come centro gravitazionale del blocco di potere anti-comunista del Paese e principale (ma non unico) riferimento della classe padronale; non ultimo la presenza di una formazione dichiaratamente neo-fascista come il Movimento Sociale Italiano (MSI) tutt’altro che marginale per il corso politico italiano e a cui la destra democristiana ha sempre guardato come interlocutore “privilegiato”.
In questa cornice la tentazione “golpista” dei circoli reazionari non venne mai meno dalla formazione della “Rosa dei Venti” in poi, considerando che in Portogallo ed Spagna vi erano regimi dittatoriali con Salazar e Franco, ereditati dal periodo tra le due guerre mondiali, e che la Grecia conoscerà “il golpe dei colonnelli” – dal ’67 al ’74 – in una condizione già tutt’altro che democratica. Regimi, è sempre bene ricordarlo, che erano perni della supremazia statunitense e della cosiddetta pax atlantica.
Nel dopo-guerra Lo sviluppo di quello che ai tempi venne chiamato “neo-capitalismo” ha portato l’Italia a divenire un paese a capitalismo maturo ed uno più industrializzati al mondo, ma con tutte le storture e le varie contraddizioni di una modernizzazione capitalista avvenuta sulle spalle delle classi subalterne senza che questo modo di produzione fosse in grado di fornire una effettiva contropartita per i ceti popolari in via di urbanizzazione.
Emigrazione di massa in città-fabbriche non preparate ad accogliere il flusso di persone proveniente dalle sacche di povertà interna e dal Meridione, un comando capitalista che si esercitava in grandi concentramenti industriali di tipo fordista senza contro-bilanciamenti effettivi da parte di lavoratori, ed istituzioni scolastiche ed accademiche che riproducevano le forme di egemonia di un apparente inamovibile blocco di potere democristiano – culturalmente clerico-fascista – esprimevano i limiti di un modello di sviluppo che si palesarono con l’Autunno Caldo e si espressero con forza fino alle “ultime conquiste” dei diritti civili, come il divorzio e l’interruzione di gravidanza.
La reazione del blocco di potere alle istanze dell’emergente “orda d’oro” fu spietata, ed insieme all’eredità scelbiana di “sparare per uccidere” sui manifestanti si affermò la strategia stragista da Piazza Fontana in poi – di cui la Strage alla Stazione di Bologna del 2 agosto del 1980 è una tappa fondamentale – , insieme al terrorismo neo-fascista come fattore peculiare del contenimento delle lotte politico-sociali, cui si aggiungerà il piano deliberato di diffusione dell’eroina tra le giovani generazioni cresciute in un clima di mobilitazione permanente secondo i precetti della “guerra chimica” made in USA.
In questo contesto soprattutto attorno alla figura dell’operaio-massa e nelle varie aree metropolitane, ma non solo, presero corpo esperienze di autonomia delle classi subalterne in una stretta relazione dialettica con le soggettività della sinistra rivoluzionaria dando vita ad una composizione politica di classe che oltre a scontrarsi con gli apparati di potere statali e alle formazioni neo-fasciste, si confronò in maniera piuttosto aspra con la dirigenza del “vecchio movimento operaio” che già da tempo aveva smesso di essere un fattore propulsivo per il conflitto di classe mentre porzioni non marginali di subordinati erano passati di fatto dalla guerra di posizione alla guerra di movimento.
Questo avvenne anche perché l’elezione di Berlinguer a segretario del PCI – di fatto già esercitata durante gli ultimi anni della direzione di Longo – marcò un passaggio di fase importante per il Partito Comunista del “dopo ’68” con l’accettazione della collocazione atlantica sotto l’ombrello NATO ed una sempre maggiore distacco dalla politica dell’Unione Sovietica e di aperta divergenza con il “campo socialista”, in chiave sempre più marcatamente social-democratica.
Il nuovo gruppo dirigente del PCI accettò una maggiore subordinazione – insieme alla dirigenza sindacale – ai piani di ristrutturazione capitalistica ed al ripristino del comando in fabbrica sulla forza-lavoro che ebbe poi come sbocco l’accettazione della “politica dei sacrifici” che portò ad un atteggiamento intransigente nei confronti delle istanze autonome del movimento dei lavoratori antagoniste al blocco padronale e nei riguardi delle varie soggettività della sinistra rivoluzionaria.
La dirigenza del PCI e la sua “cinghia di trasmissione” – la direzione della CGIL – accettarono la politica di sacrifici imposta come viatico per intraprendere la strada di una corresponsabilità a livello di governo del Paese attraverso ciò che sarà il “compromesso storico” per rendere possibile un’uscita del capitalismo dalla crisi manifestatasi in primis con la “crisi petrolifera” successiva alla guerra del Kippur del 1973.
In questo contesto, la destra del PCI si caratterizzò per una collaborazione attiva in varie forme con gli apparati repressivi dello Stato contro la sinistra rivoluzionaria ed in generale per una accettazione dello “stato d’eccezione permanente” imposto, in un clima liberticida e “forcaiolo” che lasciò mano libera agli apparati repressivi con nefaste conseguenze.
La spinta propulsiva del conflitto di classe, con alti e bassi, e la funzione della sinistra rivoluzionaria, in un contesto in cui l’internazionalismo con le lotte di liberazione dei popoli del Tricontinente permeava anche larghi strati della “sinistra riformista”, caratterizzò un decennio del nostro paese, nonostante la ferocia degli apparati repressivi e la strategia stragista almeno fino alla storica sconfitta alla FIAT di Torino nel 1980 dopo 40 giorni di una lotta durissima contro l’annuncio della messa in cassa integrazione di massa che avrebbe aperto le porte al processo di ristrutturazione dell’intero apparato produttivo italiano.
Dentro questo laboratorio politico è iniziata la “storia anomala” della nostra organizzazione che in forme diverse ha attraversato i vari tornanti storici anche dopo la fine di quella stagione di lotte con il venire meno di una forte spinta soggettiva di classe ed il radicale mutamento dei rapporti di forza tra le classi negli Anni Ottanta, l’implosione dell’Unione Sovietica e le sue conseguenze del movimento comunista negli Anni Novanta, per arrivare fino ad oggi.
In occasione dell’anniversario della morte del compagno Francesco Lorusso, ucciso dal piombo della polizia l’11 marzo del 1977, come Rete dei Comunisti, iniziamo un ciclo di formazione sulla storia del movimento di classe e rivoluzionario con un primo appuntamento presso l’Officina del Popolo Valerio Evangelisti, insieme a Cambiare Rotta ed all’Opposizione Studentesca d’Alternativa, teso a mettere in evidenza le peculiarità del “Movimento del ’77” dentro il conflitto di classe e la “guerra a bassa intensità” negli Anni 70 ed onorare la memoria di una, anzi più generazioni, di rivoluzionari che non può essere dimenticata, né strumentalizzata da chi era, o ha scelto poi, di stare dall’altra parte della barricata.
CREDITS
Immagine in evidenza: Ragazza e carabinieri
Autore: Tano D’Amico – Ur Cameras
Licenza: Dominio Pubblico
Immagine originale ridimensionata e ritagliata