Rete di comunisti – Bologna
Ieri si è tenuto un importante momento di analisi e dibattito a partire dal contributo di Donne De Borgata e Giacomo Marchetti, che hanno curato l’opuscolo Comrade Sisters (link in bio), e con gli interventi dell’Unione Sindacale di Base, Cambiare Rotta, OSA, Potere al Popolo.
Si è trattato di una iniziativa in continuità rispetto a un percorso di approfondimento e mobilitazione che ci ha visto in piazza e nei dibattiti: dalla presentazione dell’appello “Non in nostro nome – Non userete le donne e le libere soggettività per giustificare il genocidio in Palestina“, all’incontro su “Le donne in lotta: donne, comuniste e partigiane durante e dopo la liberazione dal nazi-fascismo a Bologna” e con la nostra presenza militante nelle strade non solo l’8 marzo. In ogni occasione, abbiamo ribadito che la nostra lotta non è episodica né legata a singole emergenze, ma è parte di un cammino di trasformazione radicale della società. Oggi, con questo nuovo momento di confronto, vogliamo riaffermare la necessità di prendere parola e posizione in un periodo che spinge sempre più verso il riarmo e l’imbarbarimento sociale, un periodo in cui lavoratori e lavoratrici, giovani, donne, libere soggettività e migranti sono sotto attacco sistematico.
Vediamo tutti i giorni come le politiche di guerra e repressione si intrecciano con la precarizzazione delle nostre vite. Le risorse destinate alla spesa militare crescono, mentre i servizi essenziali vengono smantellati, le condizioni di lavoro peggiorano e il ricatto della povertà viene usato per dividere e controllare. Un esempio evidente è il recente piano “Rearm Europe” presentato da Ursula von der Leyen, che prevede un aumento delle spese militari di 800 miliardi di euro. Non si trovano fondi per garantire consultori, maternità, sanità e scuole, ma si destinano cifre enormi alla guerra e al riarmo, in un contesto in cui la militarizzazione diventa l’unico orizzonte proposto dall’Unione Europea. Cade così la maschera del finto empowerment femminile, che spaccia per progresso mettere delle donne a capo di governi senza cambiare nulla. Von der Leyen, Meloni, Lagarde non rappresentano una vera emancipazione, ma solo il volto femminile delle stesse politiche capitaliste e imperialiste. Nel frattempo, chi cerca di resistere viene criminalizzato e chi prova a organizzarsi viene attaccato. Tutto questo non è casuale, ma è parte di un progetto preciso: rafforzare il dominio di classe attraverso la paura e la frammentazione.
Per questo è fondamentale che le lotte per i diritti sociali e per le libertà sessuali non siano isolate e che non vengano piegate a una logica di compatibilità con il sistema. Troppe volte vediamo i nostri temi essere strumentalizzati per legittimare il dominio occidentale: la retorica della difesa delle donne, delle persone LGBT, dei diritti umani è usata per giustificare guerre e politiche repressive. È successo con la guerra in Afghanistan, dove si è parlato di “liberare le donne” mentre si imponeva un’occupazione militare; succede oggi con la Palestina, che viene costantemente contrapposta a Israele, che viene rappresentato come l’unica democrazia occidentale nella regione e un faro di diritti civili, mentre in realtà porta avanti da 75 anni un regime di apartheid, pulizia etnica e, oggi, un vero e proprio genocidio. Lo stesso schema viene usato contro l’Iran e i musulmani in generale, per giustificare guerre di conquista e l’esportazione forzata della cosiddetta democrazia. Quindi, in primis, si rende necessario rivendicare le nostre battaglie senza permettere che siano usate per giustificare le oppressioni di altri.
Un altro punto centrale della nostra discussione è il modo in cui organizzare le donne all’interno di un’organizzazione più ampia, senza isolare le questioni di genere e unendole alla lotta di classe. Per questo abbiamo analizzato l’esperienza delle donne nella lotta al nazi-fascismo e oggi presentiamo l’esempio delle Black Panthers, un’organizzazione che ha saputo integrare la lotta contro il razzismo, l’oppressione di classe e la liberazione delle donne all’interno di un’unica strategia rivoluzionaria.
Le Black Panthers hanno saputo coniugare l’organizzazione politica con la costruzione di servizi autogestiti, creando un modello di resistenza e di autodifesa collettiva che metteva al centro la comunità e i suoi bisogni. Non si limitavano a denunciare il razzismo e l’oppressione, ma fornivano risposte concrete: programmi di alimentazione per i bambini, assistenza medica gratuita, formazione politica e protezione attiva contro la violenza della polizia. Questo non solo rafforzava il legame con le masse popolari, ma trasformava la lotta in una pratica quotidiana di emancipazione. Le donne, all’interno del movimento, non erano semplici figure di supporto, ma dirigenti e militanti in prima linea, consapevoli che l’oppressione di genere andava combattuta insieme a quella razziale e di classe.
Riprendere questo esempio oggi significa chiederci come possiamo costruire strumenti di autodifesa collettiva e di organizzazione nei nostri territori, nei quartieri popolari, nei luoghi di lavoro e di studio. Come possiamo rispondere alla violenza di genere senza delegare la nostra sicurezza a istituzioni che sono parte del problema. Come possiamo unire le lotte contro il sessismo, il razzismo, l’omofobia e lo sfruttamento di classe senza che nessuna di queste venga ridotta a un elemento di marketing per la sinistra istituzionale.
E dentro questa prospettiva, continuiamo a scendere nelle piazze tra cui quella dell’8 marzo che non possiamo non ricordare come una nostra giornata, una giornata di lotta che affonda le sue radici nelle battaglie del movimento operaio e socialista dell’inizio del Novecento. Le comuniste hanno sempre avuto un ruolo di primo piano nel portare avanti la liberazione delle donne come parte della lotta di classe, consapevoli che senza l’abbattimento del capitalismo non potrà esserci una vera emancipazione. Fu la Rivoluzione d’Ottobre a tradurre queste aspirazioni in realtà, e tutto ebbe inizio proprio con la grande manifestazione dell’8 marzo 1917, quando le donne – lavoratrici e madri oppresse dalla guerra e dalla miseria – scesero in piazza a San Pietroburgo chiedendo pane e pace, dando il via agli eventi che avrebbero portato alla rivoluzione che poi garantì alle donne diritti e spazi di autodeterminazione fino ad allora impensabili. Fu la sconfitta del nazifascismo, grazie all’Armata Rossa e alla Resistenza, di cui quest’anno ricorderemo l’80esimo anniversario, a porre le basi per conquiste che il regime fascista e la borghesia avevano sempre negato. Anche in Italia, le battaglie delle donne hanno trovato una spinta decisiva nelle lotte degli anni Settanta, quando il conflitto di classe ha imposto tutele e diritti che oggi ci vogliono strappare. Anche quest’anno, come Rete dei Comunisti, scenderemo in piazza l’8 marzo, ribadendo che la liberazione femminile è una questione di classe e internazionalista, perché non esiste emancipazione senza rottura con l’imperialismo e il sistema capitalistico.
Rifiutiamo l’idea che l’imbarbarimento sociale e la guerra siano le uniche possibilità, ma ci poniamo l’obiettivo di trasformare il presente con la consapevolezza che non c’è liberazione senza organizzazione, non c’è trasformazione senza conflitto. Le esperienze del passato ci ricordano che non ci hanno mai regalato niente, ma che tutto ciò che abbiamo conquistato è frutto della lotta collettiva. La storia ci insegna che ogni diritto strappato, ogni spazio di libertà ottenuto, è stato il risultato di sacrifici, organizzazione e determinazione. Nulla ci verrà concesso spontaneamente, ed è per questo che dobbiamo continuare a costruire analisi, mobilitazione e organizzazione senza cadere nella retorica delle classi dirigenti e del centro-sinistra, unendo lotta di classe, anti-militarismo e anti-imperialismo. A partire dalle prossime date dell’8 marzo e del 15 marzo, dove si scenderà in piazza contro la chiamata alla guerra dell’Unione Europea e della sedicente sinistra.
Oggi come ieri, le donne e le libere soggettività sanno da che parte stare.