Emidia Papi (relazione all’assemblea nazionale RdC del 10-11 marzo 2007)
La domanda che bisogna farsi, per chi è impegnato sul fronte sindacale, nel considerare la possibilità di ripresa di un’opzione comunista oggi in Italia, è, a mio parere, quale ruolo e quale funzione può avere un sindacato di classe nella ricostruzione di tale ipotesi, senza cadere in settarismi o ideologismi, ma riferendosi alla necessità reale di un’alternativa sociale vera : ragionare cioè sul sindacato e sul rapporto tra questo e un progetto di trasformazione radicale della società.
Problema antico, che risale ai primi anni del 900, quando all’interno dello sviluppo del movimento comunista rivoluzionario si pose il problema lo stesso problema.
In ogni periodo, credo il sindacato ha rappresentato un punto di unione, di fusione tra il partito e le masse, tra la parte più avanzata, l’avanguardia, ed il settore più vasto elle masse lavoratrici, collocate ad un livello medio di coscienza.
Storicamente, anche nel nostro paese, lo sviluppo del movimento sindacale ha seguito le fasi di crescita, di sviluppo e di crisi del movimento operaio e del PCI in particolare, dalla presenza dei comunisti nei sindacati corporativi del ventennio, durante la clandestinità, finalizzata al rafforzamento della lotta contro il fascismo, alla funzione di cinghia di trasmissione del partito di massa nel dopoguerra.
Fase che è durata fino alla fine degli anni 60, quando l’esplodere delle lotte operaie, generate dall’accumulo di forze e di contraddizioni derivate dal tumultuoso processo di industrializzazione, dal boom economico, dalla forzata emigrazione dal Sud alle fabbriche del triangolo industriale, pose il problema della redistribuzione della ricchezza, del comando in fabbrica e del potere nella società, ovvero della modifica dei rapporti di forza con il capitale.
L’incapacità, durante quegli anni, o forse l’impossibilità di comprendere a fondo la situazione da parte del PCI – considerata la trasformazione in atto nel suo corpo dirigente e militante, presenza forre di ceto medio, piccoli imprenditori, artigiani, cooperative, rappresentati al meglio dal modello emiliano – era in realtà la manifestazione di una crisi di strategia e di prospettiva che non avrebbe tardato ad esplodere con l’ingresso del PCI nella maggioranza di Governo, sostenuta dalla politica della solidarietà nazionale, che ebbe come contraltare nel sindacato l’enunciazione da parte di Lama e della CGIL tutta, nella famosa svolta dell’EUR, del principio del salario come variabile dipendente, non più dai bisogni dei lavoratori ma dalle necessità della crescita economica e della produttività, in ultima analisi dai profitti.
Con il che si avvia la fase della burocratizzazione del sindacato nel nostro paese, che cerca la sua legittimazione non tanto nel rapporto con i lavoratori quanto con la controparte, sia essa confindustriale o istituzionale, con il suo seguito di accordi di politica dei redditi, di moderazione nelle rivendicazioni, di nessun contrasto alle prime grandi ristrutturazioni conseguenti alla crisi petrolifera e alla crisi del dollaro degli anni 74/76.
Fu l’inizio di un processo di deindustrializzazione ( basta ricordare la crisi e la chiusura delle fabbriche dell’elettronica civile a Roma e nel suo hinterland ) che partita dagli inizi degli anni 80 ha visto la sua conclusione venti anni dopo, con il passaggio dalla produzione fordista all’accumulazione flessibile, con l’irrompere delle delocalizzazioni, della dispersione della produzione in ogni ambito sociale, della distruzione dell’unità di classe, con la diffusione della precarietà e della flessibilità.
Come più volte analizzato, la parabola sindacale non è da ascrivere solo al pervicace opportunismo, alle scelte soggettive delle burocrazie sindacali, ma è il frutto di un processo oggettivo che affonda le sue radici nell’evoluzione del capitalismo, nello sviluppo di un nuovo imperialismo, con le sue dinamiche di competizione globale, che hanno portato alla totale subordinazione alle necessità dei poteri forti economici e finanziari, alla rottura dell’unità di classe.
La nascita dell’Euro, la costituzione in Europa di una forte area economica, in competizione con gli USA, sancita degli accordi di Maastricht e dal potere di condizionamento sugli stati nazionali degli istituti monetari, la BCE, e politici, la commissione europea, vanno di pari passo con la perdita della sovranità nazionale su importanti aspetti delle funzioni statali.
La vicenda sindacale ha seguito questi processi oggettivi: dagli accordi del luglio 92 e 93, firmati con le lacrime da coccodrillo da Bruno Trentin, alla concertazione, all’approvazione dell’intervento militare in Yugoslavia , definita da Cofferati e dalla CGIL una ‘contingente necessità’ , al sostegno alle modifiche normative e contrattuali che hanno destrutturato anche formalmente il mondo del lavoro dal pacchetto Treu in poi fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui il sindacato confederale abdica del tutto alla suan funzione naturale trasformandosi in broker e procacciatore di operazioni finanziarie speculative.
Mi riferisco alla scelta di rafforzare la finanziarizzazione dell’economia e la capitalizzazione di borsa con la scelta di far decollare la previdenza complementare con il TFR ai fondi privati; la trasformazione delle burocrazie sindacali è compiuta: da soggetti attivi nel conflitto di classe a mediatori/gestori di finanza speculativa.
Se questo è lo scenario che abbiamo di fronte, caratterizzato da una parte dal declino del sindacato e dalla sua trasformazione strutturale e dall’altra dalla crisi altrettanto profonda del movimento comunista, dalla ripresa dell’imperialismo seppure nella forma della competizione globale, dobbiamo porci concretamente il problema di come un’ipotesi di sindacato di classe riesca, nel nostro paese, a dimostrarsi valida, ad essere attrattiva agli occhi di vasti settori di massa, a rappresentare un’alternativa credibile alla subordinazione totale dei sindacati concertativi ai bisogni del capitale.
Non è un compito di facile realizzazione oggi, quando non esiste un movimento comunista, neppure a livello internazionale capace di rappresentare una prospettiva credibile di cambiamento, quando non abbiamo un partito che possa rappresentare un punto di riferimento forte, un’opzione strategica in grado di produrre egemonia, cultura politica, valori sociali ed etici diversi da quelli propinateci dal pensiero unico.
Penso che più che dalle miserie soggettive, bisogna partire dagli elementi oggettivi, strutturali, che caratterizzano il nostro tempo, facendo tesoro delle esperienze storiche, ma senza adesioni schematiche a percorsi necessitati da contraddizioni diverse dalle attuali.
Partiamo da un dato obiettivo, dalla totale egemonia del capitale sul lavoro e sulla società, che, anche se condizionato da crisi ricorrenti, è ancora in grado di garantire, nel mondo occidentale, una sostanziale tenuta economica.
Abbiamo di fronte una situazione di stabilità e di crescita economica che provoca uno sviluppo distorto e antisociale, con tutte le contraddizioni ed i guasti del caso, penso all’ambiente, che determina conflitti, più o meno forti, più o meno parziali, ma che sopratutto ha generato un’aristocrazia salariata, necessaria alle esigenze di crescita della domanda dei mercati sviluppati.
In questo contesto i sindacati si sono fatti interpreti e mediatori tra le esigenze di sviluppo delle borghesie imperialiste e quelle di redistribuzione della ricchezza prodotta ad una parte del lavoro dipendente, in una sorta di neocorporativismo che getta alle ortiche i settori marginali e rende improbabile ogni ipotesi di battaglia interna che si ponga l’obiettivo di scalzare i vertici opportunisti.
Del resto i tentativi messi in atto in tanti anni ormai, da parte di settori della CGIL , dagli autoconvocati ai coordinamenti delle RSU, alla creazione ripetuta di correnti interne varie, tutti abortiti o a massimo utili a contrattare qualche posto da segretario, la dicono lunga sulla validità di queste scelte, che hanno avuto l’unico risultato di tentare di rafforzare la presenza di un’alternativa sindacale indipendente.
Se il quadro che si offre è quello dell’assenza di un conflitto di classe generale, è bene tenere presente però che la subordinazione ideologica alle esigenze del capitale ha prodotto e continua a produrre, in settori sempre più vasti di lavoratori colpiti dai processi di ristrutturazione, la necessità di lotta e d’organizzazione.
Altro elemento determinante è rappresentato dalle modificazioni dall’apparato produttivo e della composizione di classe.
Se nella seconda metà del secolo scorso la grande fabbrica, racchiudendo in sé le fondamentali contraddizioni di classe, esprimeva anche fisicamente la contraddizione capitale/lavoro, era il luogo dell’accumulazione delle forze antagoniste, ove si organizzava al livello più alto il conflitto di classe, oggi la modifica della struttura produttiva, le delocalizzazioni, le privatizzazioni/esternalizzazioni, la crescita del precariato, compreso il lavoro autonomo di seconda generazione, lo sviluppo delle tecnologie e della produzione immateriale, se da una parte hanno cambiato i rapporti di forza a favore del capitale, dall’altra hanno operato una trasformazione della composizione e della coscienza di classe.
Questo contesto, caratterizzato inoltre da politiche sempre più repressive, dalla guerra come elemento permanente della nostra quotidianità, dal ritiro dello stato dalla sfera della produzione economica e dall’abbattimento dello stato sociale, dall’utilizzo quasi schiavistico degli immigrati, dal diffondersi di culture razziste e xenofobe, questo contesto, dicevo, interviene, oltre che nella sfera materiale delle condizioni concrete di vita e di lavoro, anche nella sfera della coscienza che i lavoratori hanno di se stessi e della realtà che vivono.
La ripresa di un’ipotesi sindacale alternativa non può prescindere da questi elementi ed è con questa realtà che, a mio parere, le espressioni più avanzate dl sindacalismo di base debbono fare i conti se vogliono veramente essere protagonisti attivi non solo di momenti isolati di esplosione del conflitto ma di un percorso più generale di alternativa sociale complessiva.
Il sindacalismo di base nel nostro paese, e purtroppo con le caratteristiche che conosciamo solo nel nostro paese, rappresenta un’espressione ormai storica, seppure limitata quantitativamente.
Datano infatti alla fine degli anni settanta le prime esperienze d’organizzazione vera e propria al di fuori dei confederali, determinate dalla crisi del sindacalismo storico che produsse più di una frattura nella sua stessa base sociale.
Questo processo non ha avuto un’evoluzione lineare né immediatamente organizzata; ha prodotto, potremmo dire, teorie e ipotesi sindacali diverse e articolate, che si sono riprodotte in scelte organizzative molteplici.
Ma da allora ad oggi le condizioni oggettive sono mutate, i cambiamenti strutturali hanno conosciuto uno sviluppo tumultuoso.
Se nei suoi primi passi il sindacalismo di base aveva di fronte un referente compatto, fino ad allora ‘privilegiato’ in quanto a stabilità e ruolo sociale, con caratteristiche quasi ‘corporative’, i macchinisti delle ferrovie, alcune categorie del P.I., gli insegnanti, a cui l’apparato clientelare/politico e sindacale non era più in grado di offrire garanzie, oggi lo scenario è cambiato: le modifiche introdotte nel mercato del lavoro hanno creato un nuovo modello di lavoratore, mai certo del proprio futuro, ricattabile, condizionato dall’accettazione della massima flessibilità e mobilità, precario, spesso elemento di debolezza e divisione del mondo del lavoro, secolarizzato ma frustrato perché adibito a mansioni ripetitive e senza speranza di carriera e progressione sociale.
Le esperienze che in questo scenario hanno saputo al meglio interpretare l’esigenza di un soggetto sindacale nuovo, complessivo, alternativo alla subordinazione dei sindacati storici ed in grado di rispondere alle nuove esigenze del mondo del lavoro, sono quelle che hanno saputo coniugare il piano della lotta e dell’organizzazione, strumenti concreti ed essenziali per la crescita e lo sviluppo, con la necessità di dare risposte anche sul piano di una visione generale delle cose, dell’analisi delle contraddizioni, di un’identità cioè che potesse sostenere il punto di vista collettivo dei lavoratori.
Un’identità che continuamente deve fare i conti con la realtà della società, nel suo sviluppo attuale e nelle forme che tale sviluppo assume, che metta in discussione i capisaldi della nuova ideologia, imperante in ogni ambito, che riconosce il mercato come unico meccanismo globale di relazione, a cui vanno subordinate tutte le esigenze di sviluppo, umano e materiale.
Un’identità che sia in grado di svelare in ogni momento le mistificazioni che, in nome della competitività, tentano di far introiettare nei lavoratori dinamiche e realtà necessarie alla stabilità del sistema, all’aumento dei profitti e alla competizione interimperialistica.
Operazioni che hanno investito ogni ambito delle relazioni e dello sviluppo sociale: da quello politico e mi riferisco alle riforme istituzionali ed elettorali che con il bipolarismo hanno ridotto sempre di più anche la democrazia formale, all’ambito sociale con la quasi del tutto realizzata distruzione dello stato sociale ridotto a Welfare dei miserabili, aprendo conflitti generazionali tra pseudo privilegiati e non garantiti, per non parlare degli interventi militari presentati come missioni umanitarie.
Lo sviluppo di una soggettività sindacale di base, conflittuale non può che basarsi sul ribaltamento di queste impostazioni: non può essere il ‘sistema’ a dettare la linea ma la concretezza della vita individuale e collettiva dei lavoratori, che comprende non solo elementi strettamente economici e materiali ma anche le aspettative che ogni lavoratore ha rispetto alla sua collocazione nella società; garanzie del futuro ma anche garanzie di acquisizione e mantenimento di un livello culturale e formativo adeguato allo sviluppo scientifico e tecnologico, coniugando elementi materiali ed esistenziali, a partire dalla negazione dei valori propagandati dall’ideologia borghese tutti legati alla competizione per arrivare alla riconoscimento della necessità dell’azione collettiva.
Identità dunque come principio fondante, evocatore di rapporti sociali più giusti ed equilibrati, dove le esigenze vengano valutate sulla base di una logica riferita ai diritti e non siano il frutto di mera elargizione.
Identità che spinge all’unità, basata sulla coscienza che solo in questo modo sia possibile modificare i rapporti di forza e riportare una parte della ricchezza socialmente prodotta verso i lavoratori e sottrarla alla speculazione dei capitali finanziari.
Ma c’è un altro elemento necessario affinché il sindacalismo di base possa avere un ruolo effettivo nell’ambito di una reale ricomposizione dell’unità e degli interessi di classe ed è quello dell’indipendenza dal quadro e dalle vicende politiche la cui mancanza come ci ha insegnato la storia più recente ha indebolito e frantumato quelle organizzazioni che si erano poste su questo terreno senza alcuna visione strategica e in modo strumentale.
Oggi,in una situazione che presenta caratteristiche inedite , in cui una forte contraddizione è rappresentata dalla precarietà totale da un mercato del lavoro selvaggio e senza regole il sindacalismo di base può ancora rispondere al compito di offrire strumenti di difesa ai nuovi soggetti ,candidandosi a gestire il conflitto attraverso una rappresentazione di sindacato generale capace cioè di individuare le dinamiche generali e mettendone in evidenza le contraddizioni più acute.
Il quadro che abbiamo di fronte oggi impone terreni di lotta che hanno a che fare con problemi spesso molto più grandi di noi.
Basta pensare alla determinazione con cui il governo Prodi e tutta la su maggioranza sta procedendo alla destrutturazione della pubblica amministrazione colpita nella sua funzione di garante dello stato,ridotta al minimo e consegnata al mercato .
L’obbiettivo reale ,mascherato dall’operazione fannulloni ,portata avanti contro i dipendenti pubblici, è l’introduzione di un nuovo modello nei rapporti tra Stato e società ,subordinato alle esigenze di competitività dell’apparato industriale : diritti e garanzie sociali trasformati in profitto.
Si tratta di un’altra gigantesca operazione funzionale al riposizionamento dei nostri “capitani coraggiosi”, versione moderna del vecchio assistenzialismo.
Quella che in realtà si sta completando è la realizzazione di una pubblica amministrazione parallela depubblicizzata e consegnata ai privati.
Del resto il centro-sinistra non è nuovo a questo genere di “modernizzazioni” già con la riforma del titolo V della costituzione aveva dato una bella spallata non solo alla concezione unitaria e solidale dello stato ma aveva assicurato attraverso il principio di sussidiarietà la devoluzione ai privati di attività interesse generale, cioè di tutti i servizi sociali.
La rete dei comunisti ha da sempre sostenuto il sindacalismo di base e la sua scelta del rapporto diretto con le contraddizioni sociali, ritenendo del tutto fuorviante la battaglia interna al sindacato contro le burocrazie, consapevole che solo una forte soggettività sindacale, progettuale e reale, possa contrapporsi all’ideologia della competitività e della flessibilità totale, concorrendo così a tratteggiare il volto di una nuova composizione di classe