URSS-Afghanistan (1979-1991): una storia inedita attraverso i documenti de-secretati
“Cos’è più importante al cospetto della storia mondiale? I Talebani o la caduta dell’impero sovietico? Qualche islamista esaltato o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra fredda”
Zbigniew Brzezinski, intervista a Vincent Jauvert, gennaio 1998
Le ingerenze statunitensi precedono l’intervento sovietico
Gates, anziano direttore della CIA, nel suo libro di memorie “From the shadows” sulle operazioni sotto copertura dell’agenzia di intelligence durante la Guerra Fredda (pubblicato nel 1996), riferisce dell’aiuto che i servizi segreti nord-americani avrebbero fornito ai mujahideen ben sei mesi prima dell’intervento sovietico in Afghanistan a fine dicembre del 1979.
In una intervista al settimanale francese “Le Nouvel Observateur” del 15-21 gennaio 1998, Vincent Jauvert chiede a Zbigniew Brzezinski – consigliere del presidente statunitense Carter in carica dal 1977 al 1981 che aveva recentemente pubblicato La Grande Scacchiera [1]– di confermare o meno ciò che era stato rilevato da Robert Gates.
Brzezinski risponde affermando che una prima direttiva era stata firmata da Carter il 3 luglio del 1979, aggiungendo poi: “quel giorno ho scritto una nota al presidente nella quale gli ho spiegato che a mio parere questo aiuto avrebbe causato un intervento militare dei sovietici”.
Come riporta Andrea Giannotti nel capitolo dedicato all’Afghanistan della biografia di Jurij Andropov [2] : «Washington stanziò un primo contributo di cinquecento milioni di dollari – ai quali nel corso degli Anni Ottanta si sarebbero aggiunti ulteriori tre miliardi – indirizzati al Pakistan, allora governato dal generale Muhammad Zia-ul-Haq, che aveva instaurato un regime dittatoriale e attuato un programma di restaurazione islamica. Islamabad, forte anche del sostegno americano avrebbe realizzato una rete di campi per organizzare, addestrare e armare gruppi rifugiati afghani che poi sarebbero statati inviati a combattere in Afghanistan. Peraltro, proprio a seguito dell’intervento sovietico e dinnanzi al timore che questo non si limitasse all’Afghanistan, gli Stati Uniti enunciarono la cosiddetta “dottrina Carter” che formalizzò lo special interest degli Stati Uniti verso il Medio Oriente.»
Una dottrina, quella Carter, “accelerata” senz’altro dalla cacciata dallo Scià in Iran, dall’affermarsi del regime di Khomeini, e dall’intervento dell’URSS in Afghanistan, e confermata successivamente nella sua importanza dalla disastrosa gestione da parte statunitense della crisi degli ostaggi dei diplomatici USA a Teheran, con il fallimento della loro liberazione attraverso l’operazione Eagle Down.
Così Jimmy Carter, a meno di un mese dall’intervento sovietico in Afghanistan, parlando al Congresso il 23 gennaio 1980, concluse il suo intervento – predisposto con Brzezinski – dopo aver ammonito il Cremlino a non farsi illusioni sulla regione del Golfo: “Chiariamo senza che ci possa essere ombra di dubbio la nostra posizione: ogni tentativo da parte di alcuna forza esterna di avere il controllo della regione del Golfo Persico sarà considerata come un assalto agli interessi vitali degli Stati Uniti d’America, e questo tipo d’assalto verrà respinto con ogni mezzo necessario”.
Infine, e non certo per importanza, è la Direttiva nr. 59 dell’amministrazione Carter nel dicembre 1979 ad avviare il processo di installazione dei missili nucleari USA in Europa, i cosiddetti “Euromissili”. In Italia verranno installati nella base militare di Comiso, in Sicilia.
La guerra “per procura” contro il paese asiatico, era uno di questi mezzi necessari, di cui parlava Carter, in un quadro di nuovo inasprimento della Guerra Fredda in cui l’Afghanistan, e la regione che va dall’Asia Centrale al Golfo Persico, ne diveniva una fondamentale linea di faglia.
Bisogna ricordare che l’intervento sovietico, venne deciso nelle prime settimane di dicembre, dopo che per circa una ventina di volte – dal marzo del 1979 – era stato rifiutato.
La autorità afghane incalzarono senza successo per circa sei mesi – dalla sollevazione anti-governativa di Herat del 15-20 marzo – i dirigenti dell’URSS affinché intervenissero direttamente nel Paese.
Il trattato afghano-sovietico del 1978
Tornando all’articolo sul Nouvelle Obs, Jauvert ricorda nell’intervista all’allora consigliere nord-americano, che una delle ragioni additate dai sovietici per giustificare l’intervento in Afghanistan era proprio quella di lottare contro l’ingerenza segreta degli Stati Uniti, ma che nessuno – tranne nel campo socialista, aggiungiamo noi – gli credette.
Un fatto sostanziale, questo precoce aiuto statunitense alle forze che volevano destabilizzare il legittimo governo afghano a pochi mesi dall’insurrezione nella terza città del Paese a marzo, considerato che il trattato di “amicizia, buon vicinato e collaborazione” afghano-sovietico siglato tra il 4 ed il 7 dicembre del 1978 contemplava proprio l’intervento militare sovietico in caso di aggressione esterna.
Un trattato che comunque aveva portato il numero di consiglieri e tecnici, non solo militari, nel paese da qualche centinaia a 4.500 unità.
Tale trattato era stato firmato dall’allora leader sovietico Brežnev ed il presidente del Consiglio Rivoluzionario Mohammed Taraki – che assommava le cariche di Capo dello Stato e di Primo Ministro – , a qualche mese della Rivoluzione d’Aprile.
Si trattava di un accordo, simile a quelli firmati dall’URSS con l’Etiopia ed il Vietnam, che preoccupava non poco le cancellerie occidentali, nonostante il paese asiatico rientrasse da tempo nella “sfera di influenza” di Mosca, ed i due Stati intrattenessero stretti rapporti sin dagli Anni Venti del Novecento, cioè dai tempi di Lenin.
Così scrisse il The Washington Post, il 6 dicembre del 1978: “La forte influenza di Mosca ha sconvolto gli strateghi occidentali, preoccupati per l’impatto sul travagliato Iran a ovest, così come sugli altri stati del Golfo Persico il cui petrolio è vitale per l’Occidente. Gli sviluppi afghani sono visti anche come una minaccia per il Pakistan a est, che a sua volta è afflitto da una prolungata crisi di governo. Gli afgani e i pakistani si contendono a lungo il Balucistan, nel Pakistan meridionale.”
Il WP ipotizzava un possibile aiuto diretto della RDA nel sostenere i movimenti indipendentisti di sinistra del Baluchistan – interferendo con la politica interna del Pakistan – ed una destabilizzazione della zona del Mar Arabico.
L’internazionalismo sovietico e i molteplici attori della destabilizzazione afghana
In realtà, quello degli Stati Uniti sarà solo il maggiore intervento, in termini economici – insieme a quello dell’Arabia Saudita – tra quelli attuati da differenti Stati, in appoggio alla guerriglia contro il governo della Repubblica Democratica dell’Afghanistan nata dalla Rivoluzione d’Aprile del 1978.
L’Iran di Khomeini, che aveva da poco posto una pietra tombale sulla Rivoluzione che aveva cacciato lo Scià, attraverso la numerosa comunità sciita presente nel Paese, la Repubblica Popolare Cinese che con il suo espansionismo minacciava contemporaneamente anche il Vietnam, ed il Pakistan, insieme a Gran Bretagna che aveva combattuto 3 guerre contro l’Afghanistan, L’Egitto di Sadat, e Israele davano appoggio alla contro-rivoluzione in Afghanistan.
Un sostegno che coinvolgerà tutti gli apparati mediatici occidentali ed un folto gruppo di “intellettuali con l’elmetto” pronti a sostenere quella che venne definita come Resistenza, ma che in realtà era una contro-rivoluzione di matrice integralista islamica tesa a destabilizzare un governo che voleva trasformare in senso progressista il paese asiatico.
Una Rivoluzione, quella afghana, osteggiata da quella classe sociale che godeva dei privilegi del regime feudale – latifondisti e parte clero mussulmano in primis – che i comunisti afghani del Partito Democratico del Popolo Afghano volevano trasformare in profondità, attuando un programma di profonde riforme per permettere al paese da uscire dalla sua storica arretratezza economica ed emanciparsi dal retrivo oscurantismo islamico.
Quello sovietico non era che l’ultimo di una serie di interventi a sostegno delle lotte di liberazione nel “Terzo Mondo”, un impegno internazionalista che aveva aiutato le popolazioni di Angola, Mozambico, Etiopia, Somalia, Yemen del Sud per non citare che gli ultimi esempi.
Già nel XXIV Congresso del PCUS, i dirigenti sovietici avevano lasciato intendere che era giunto il momento di operare in politica estera con ancor maggiore assertività e che la coesistenza pacifica con il blocco occidentale non fosse incompatibile con un maggiore impegno a favore dell’avanzata del socialismo nel Terzo Mondo, coronando quel processo di de-colonizzazione iniziato negli Anni Cinquanta.
La dirigenza sovietica pensava che un approccio più “muscolare” in politica estera, non fosse incompatibile con il raggiungimento di importanti obiettivi diplomatici aventi come fine la distensione tra i blocchi all’interno di un quadro di coesistenza pacifica e di espansione del socialismo.
Quello che Stati Uniti stavano facendo in Afghanistan, non era che l’ultimo tentativo di destabilizzare un governo legittimo – l’avevano fatto anche con quelli timidamente riformisti (come in Guatemala e Brasile) e non solo quelli dichiaratamente progressisti, o socialisti – e promuovere il genocidio politico dei comunisti: un modus operandi che aveva caratterizzato tutto il corso della Guerra Fredda a cominciare dal conflitto in Corea nei primi Anni Cinquanta e dal colpo di Stato contro Mossadeq in Iran nel 1953.
Era il “Metodo Giacarta” – per riprendere il titolo di un bellissimo libro/inchiesta di Vincent Bevins [3] – inaugurato in Indonesia nel 1965, in cui il governo degli Stati Uniti sostenne in modo decisivo l’esercito indonesiano nell’assassinio di circa un milione di civili innocenti, spezzando via il terzo più grande partito comunista dopo quello sovietico e cinese.
La guerra in Afghanistan portò al crollo dell’URSS?
Per tornare all’intervista del Nouvel Observateur, il giornalista chiede al consigliere statunitense se sia pentito e così gli risponde: “Rimpiangere cosa? Questa operazione segreta è stata una idea eccellente. Ha avuto come effetto nella trappola afghana e voi volete che me ne penta? Il giorno in cui i sovietici hanno ufficialmente attraversato la frontiera, ho scritto al presidente Carter, in sostanza: «ora noi abbiamo l’occasione di dare all’URSS la sua guerra del Vietnam». Infatti Mosca ha dovuto condurre per dieci anni una guerra insopportabile per il regime, un conflitto che ha portato alla demoralizzazione e infine all’implosione dell’impero sovietico”.
Qui Brzezinski, utilizza una interpretazione che è diventata luogo comune nella narrazione del “dopo Guerra Fredda” secondo cui l’esito dell’intervento sovietico in Afghanistan portò alla fine dell’URSS, attribuendosi così i meriti del collasso sovietico.
Semmai fu la fine dell’aiuto sovietico, a causa del suo “suicidio politico” – supporto continuato ben oltre il ritiro definitivo dal Paese – che causò la fine della Repubblica Afghana in grado di resistere per circa tre anni ai tentativi di destabilizzazione dopo la partenza dell’Armata Rossa da parte sostanziosamente degli stessi attori, Pakistan in primis, nonostante la firma degli Accordi di Ginevra nell’Aprile del 1988.
Certamente l’intervento in Afghanistan, in particolare la pessima gestione della dirigenza sovietica delle conseguenze del conflitto, a cominciare dai circa 14 mila militari morti dell’Armata Rossa ed un numero di circa tre volte più grande di mutilati, aprì una profonda frattura tra la leadership e i cittadini sovietici, e costituì uno dei fattori di criticità che si andavano a sommare ad altri.
La sorte degli afgancy tornati in una Unione Sovietica dall’Afghanistan, dove combatterono circa un milione di soldati sovietici – con una dirigenza che non si assunse fino in fondo la responsabilità delle conseguenze delle proprie scelte, nonostante la decisione di ritiro – fu uno dei fattori della perdita di credibilità della dirigenza che con Gorbachev stava apertamente demolendo dall’interno le conquiste del sistema sovietico.
La destabilizzazione afghana: culla dello Jihadismo
Interessante, visti gli sviluppi che avrà per gli USA – da lì a qualche anno – lo jihadismo, le successive risposte di Brzezinski.
La risposta che darà al giornalista che gli chiede se non rimpianga di aver favorito l’integralismo islamico, di avere dato armi e assistenza ai futuri terroristi è indicativa di una forma mentis: “Cos’è più importante al cospetto della storia mondiale? I Talebani o la caduta dell’impero sovietico? Qualche islamista esaltato o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della guerra fredda”, relativizzando, anzi negando l’esistenza di un “islamismo globale”.
Questo è l’abito mentale degli uomini della Guerra Fredda che hanno fatto della sconfitta del comunismo una priorità assoluta, costi quel che costi.
Quella serpe allevata in seno che è “l’estremismo islamico”, come sappiamo, si rivolgerà contro l’Occidente stesso a cominciare dall’11 settembre del 2001 – anche se in realtà, lo farà ben prima – smentendo clamorosamente le affermazioni del consigliere statunitense sulla sua inconsistenza.
E proprio l’Afghanistan era stato il laboratorio di quella jihad globale che avrà tra i suoi principali ispiratori Osama Bin Laden.
Un modus operandi, quello degli USA, non dissimile da quello attuato in Nicaragua con i Contras per stroncare la rivoluzione sandinista, che emergerà inequivocabilmente con l’affare Iran-Contra durante la seconda amministrazione Reagan. Il Nicaragua sarà l’altro teatro contro-insurrezionale in cui gli USA investiranno di più nel corso di tutti gli Anni Ottanta, in particolare con la Presidenza di Ronald Reagan che succederà nel 1981 a Jimmy Carter.
Perché l’URSS intervenne in Afghanistan?
Le ragioni dell’intervento sovietico in Afghanistan, a cui – come abbiamo ricordato – la dirigenza dell’URSS era, in un primo momento, fermamente contraria devono essere individuate nel quadro strategico maturato nel corso quell’anno, il 1979.
Il 1979, fu un crocevia della storia mondiale e l’inizio della contro-offensiva globale contro il movimento comunista, di cui l’attacco all’Afghanistan fu una tappa fondamentale già durante l’amministrazione Carter ed in maniera maggiore durante quella Reagan.
Allo stesso tempo le cause dell’impegno sovietico vanno ricercate nella vocazione internazionalista di Mosca nei confronti di uno Stato che aveva iniziato un difficile processo di transizione verso socialismo, minacciato sin da subito da forze reazionarie sostenute da una ampia e differenziata configurazione d’interessi che convergevano nella volontà di accerchiamento dell’URSS.
L’eliminazione di un Paese “non-allineato” ma legato da circa 60 anni all’Unione Sovietica, era una tappa fondamentale per realizzare questo accerchiamento e occupare il centro euro-asiatico.
Bisogna ricordare che nonostante la Rivoluzione d’aprile avesse colto di sorpresa la dirigenza sovietica, l’URSS l’aveva sostenuta in da subito nonostante ci fossero pareri discordanti sul ritmo del processo di transizione e l’effettiva possibilità della realizzazione di una rivoluzione socialista nel Paese che alcuni dirigenti pensavano potesse realizzarsi per così dire sul modello Mongolo.
La dirigenza sovietica nutriva forti dubbi sulla maturità della leadership comunista afghana nell’unificare realmente le due correnti del giovane Partito del Democratico Popolare dell’ Afghanistan (Khalq e Parcham), nato su spinta sovietica nel gennaio del 1965, e nel conquistare realmente il consenso popolare.
Amin, che aveva “destituito” Taraki alla presidenza nel settembre del 1979 e che verrà sostituito manu militari dai sovietici con Babrak Karmal a dicembre, era poi visto di malocchio anche per il suo passato di studente alla Columbia University negli USA, e si temeva che potesse rivelare una specie di nuovo Sadat, pronto ad un repentino cambio di sponda in favore degli americani.
Ipotesi che appare all’oggi non proprio peregrina.
Non a torto, la dirigenza sovietica vedeva inoltre nel tentativo di de-stabilizzare l’Afghanistan, servendosi dell’opposizione islamica, come parte di una strategia più ampia di utilizzazione dell’islamismo politico come strumento di penetrazione negli Stati caucasici dell’Unione – specie quelli lungo la linea di confine meridionale – popolati dalle stesse etnie presenti anche nella RDA: tagiki, uzbeki, turkmeni. Una preoccupazione più che legittima considerata la storica funzione anti-sovietica dell’islam politico nel Caucaso sin dai tempi della Guerra Civile, e quelli che sanno gli sviluppi successivi nella regione dopo la fine dell’URSS.
La crisi degli euro-missili ed un mutato quadro strategico
Il 12 dicembre di quell’anno, oltre alla scelta di intervenire in Afghanistan, venne finalizzata una altra decisione che cambiò il corso storico.
Quel giorno infatti al summit dell’Alleanza Atlantica a Bruxelles venne presa la decisione di dislocare in Europa occidentale missili Pershing II e Cruise, come “reazione” all’installazione di missili sovietici SS-20 nel 1977, pur con la clausola del “doppio binario”, cioè riservandosene la sospensione qualora Mosca ritirasse i suoi.
Era l’inizio della “crisi degli euro-missili” che durò fino al 1987, e che oltre ad una sospensione della politica di distensione, diede l’impulso ad un ampio movimento pacifista europeo in opposizione all’installazione dei missili statunitensi sul suolo del Vecchio Continente.
Se, con quella decisione, si lasciava aperta la strada della trattative, secondo la modalità di una “risposta flessibile” da parte occidentale, la politica euro-atlantica diventava più assertiva, proprio mentre le discussioni sovietico-americane sull’attuazione del SALT-2 – il trattato di limitazione degli armamenti nucleari strategici sottoscritto dalle due super-potenze a Vienna il 18 giugno 1979 – si stava arenando, per poi venire procrastinata a data da destinarsi dall’amministrazione Carter già nel gennaio del 1980.
Così Andrej Gromyko, nelle sue memorie descrive, il cambiamento di atteggiamento dell’amministrazione statunitense: «Con l’ambizione di sbilanciare l’equilibrio strategico a favore degli USA e della NATO, Washington cominciò ad incrementare le spese militari. Gli alleati della NATO furono invitati a seguire l’esempio, e per giunta vennero installati missili americani in Europa. A coronamento del tutto, e senza giustificazione alcuna, Washington frenò, quando addirittura non interruppe, trattative già in corso su alcuni importanti aspetti della limitazione della corsa agli armamenti.» [4]
Se quella scelta è una dei punti più alti della crisi degli Euromissili, fu in realtà il prodotto di una ri-articolazione complessiva della strategia complessiva dell’Alleanza Atlantica che già prima della decisione sovietica – a metà Anni Settanta – aveva maturato la necessità di una modernizzazione delle forze nucleari, come concretizzazione di quella “deterrenza estesa” maturata negli Anni Cinquanta, che non era mai riuscita a trovare l’applicazione pratica di quella “risposta flessibile” preconizzata dall’amministrazione Kennedy.
Circoli statunitensi non avevano mai pensato la politica di “distensione” con l’URSS come sinonimo di stabilità e pensavano che fosse necessario non l’equilibrio strategico con i sovietici, ma che si dovesse perseguire un margine di superiorità per trattare sì, ma da una posizione di superiorità, e non con un rapporto paritetico di forze.
Si stava concependo da tempo, attraverso influenti think tank euro-atlantici, un paradigma d’azione modellato secondo le esigenze di un “equilibrio euro-strategico” che influenzerà in profondità le scelte della leadership occidentale, in particolare della Repubblica Federale Tedesca.
L’illusione di Gorbachev di intrattenere rapporti paritetici con gli USA e di potersi fidare delle promesse nord-americane – nonostante una sostanziale continuità nella politica anti-sovietica perseguita prima con Carter e poi con Reagan – si dimostrò un tragico errore che spianò la strada all’affermarsi dell’unipolarismo statunitense già con il vertice di Reykjavik dell’ottobre del 1986. Quell’incontro mostrò senza ombra di dubbio come il profilo del pacifismo dell’ultimo leader sovietico fosse una palese ammissione di inferiorità e di debolezza strategica nei confronti dell’offensiva che gli Stati Uniti volevano condurre fino in fondo, cioè fino alla resa sovietica.
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Abbiamo deciso di offrire di una ampia traduzione – per la maggior parte si tratta di una traduzione integrale vera e propria, ed in misura minore di una sintesi con ampli stralci tradotti – dei documenti contenuti nell’archivio digitale del Wilson Center nel dossier “Soviet invasion of Afghanistan” da tempo disponibili nella loro traduzione inglese – ed in parte solo in russo – consultabili on line [5].
Questi più di 200 documenti de-classificati vanno dal 1974 al 1991, con una serie di dossier – 7 per la precisione – delle agenzie di intelligence sovietiche che vengono datati 1999 nel dossier.
Questi documenti dell’URSS e dei paesi del campo socialista, e non solo, permettono di fare una ricostruzione puntuale del dibattito interno alla dirigenza sovietica e dei paesi socialisti rispetto all’Afghanistan in specie dalla Rivoluzione d’Aprile del 1978, delle decisioni intraprese in un determinato contesto storico, e delle relazioni con i dirigenti afghani che si sono succeduti alla guida del Paese asiatico per un periodo di circa dieci anni.
Inoltre emergono bene i rapporti tra URSS e USA rispetto alla questione afghana, e le discussioni intraprese tra la dirigenza sovietica e quella statunitense a partire da Gorbachev.
Oltre a questo risultano particolarmente interessanti i costanti tentativi di trovare una soluzione politica alla situazione afghana mai vista, dai sovietici, esclusivamente dal punto di vista militare. L’URSS non concepì mai la sua presenza in loco come mera forza d’occupazione ma come un sostegno allo sviluppo delle condizioni per la sconfitta delle forze contro-rivoluzionarie e la realizzazione di conquiste politico-sociali annichilite, per tutto il corso storico successivo, dalla caduta di Najibullah fino ad oggi.
NOTE
[1] ↑ La Grande Scacchiera, pubblicato nella traduzione italiana da Longanesi nel 1998 era uscito l’anno prima e illustrava, come recita il sottotitolo “Il Primato americano e gli imperativi geo-strategici” (TdC)
[2] ↑ Tra partito e KGB. Per una ricostruzione del ruolo di Jurij Andropov nella politica sovietica, Andrea Gianotti, G.Giappichelli Editore, 2018
[3] ↑ Il Medito Giacarta. Il genocidio anticomunista di Washington e il programma di eccidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo, Vincent Bevins, Einaudi, 2021
[4] ↑ Memorie, Andrej Gromyko, Rizzoli, 1989
[5] ↑ https://digitalarchive.wilsoncenter.org/collection/76/soviet-invasion-of-afghanistan