Rete dei Comunisti
“La politica” attuale: una pura mistificazione della reale natura della crisi
Dopo il fenomeno Berlusconi, di cui ci veniva raccontato che aprisse la strada al fascismo, i “fenomeni” della politica italiana si sono moltiplicati: da Grillo alla star attuale Matteo Renzi. Ognuno ha portato dentro l’apparato “istituzionale” uno stuolo di “nuovi soggetti” formati nel pieno rispetto dei propri interessi individuali e nella miseria politico-culturale trasversale ad ogni schieramento politico; ed anche nel paese.
Tutto questo ha incrementato una diffusa indignazione morale, che si trasforma per impotenza in pura rabbia, allontanando parti sempre più ampie della “società civile” dalla “società politica”. Non possiamo però fermarci alle apparenze e dobbiamo chiederci se tutto quel che viene rappresentato è “la realtà effettiva” oppure uno “spettacolo” sempre rimaneggiato. È una domanda da farsi, perché non possiamo non dare la giusta lettura dell’attuale funzione della “politica” e delle sue dinamiche.
L’attuale crisi del capitalismo “reale” è sistemica, e vede ridimensionarsi sempre più le aspettative di crescita e con queste anche le speranze di sviluppo di gran parte dell’umanità. Nel nostro paese e in Europa questo significa peggioramento generalizzato dei redditi medio-bassi, della condizione di vita di fasce sociali sempre più ampie; non a caso si parla chiaramente della fine dei cosiddetti “ceti medi”.
Il sistema politico al potere, già dal secondo dopoguerra, ha avuto la funzione di collegare la crescita economica con il mantenimento dell’egemonia della borghesia “nazionale”. Nel nostro paese questo ha significato 40 anni di regime democristiano, intreccio tra interessi privati e pubblici, clientelismo diffuso e spesa pubblica come strumento di tenuta di quel sistema. Il conflitto di classe di quegli anni è stato caratterizzato, infatti, dallo scontro tra una borghesia che ridistribuiva parte della ricchezza prodotta in funzione del proprio potere politico ed il movimento dei lavoratori, che la rivendicava a vantaggio di tutta la società.
Da circa venti anni questo sistema è in corto circuito. Berlusconi ne è stato il sintomo, non la soluzione. E oggi emerge chiaramente – nella “nostra” Unione Europea – che se la crescita è forse ancora possibile per il capitale, non è però più disponibile per la società nel suo complesso. Questa nuova condizione ha prodotto effetti anche nella dimensione politica ed istituzionale; dunque, interpretare queste dimensioni con i vecchi parametri rischia di non far capire la realtà dei fatti e di bloccare stabilmente ogni possibile opposizione. Quello che sta emergendo è quindi la contraddizione tra le aspettative indotte da una crescita drogata dalla finanza e la realtà di una impossibile redistribuzione della ricchezza sociale.
Questo è il dato di fondo che mette in mora l’egemonia delle borghesie europee – a cominciare da quelle dei cosiddetti paesi PIIGS – le quali non possono lasciar rappresentare la realtà così com’è, ma devono costruire una enorme mistificazione sociale e culturale per orientare rabbia, frustrazione e conflittualità latente verso obiettivi e settori sociali diversi da sé. È in questo senso che oggi va interpretata “la politica”, un mondo fittizio in cui regna l’omologazione culturale e da cui il conflitto di classe è stato completamente estirpato, soprattutto con il contributo delle forze della cosiddetta “sinistra”.
C’è stato dunque uno spostamento drastico della funzione della “politica”: da terreno di scontro reale per l’egemonia tra le classi, dove il blocco storico della borghesia ha manifestato fino agli anni ’90 la sua capacità di gestione delle contraddizioni, a mera funzione di mistificazione e strumento di “distrazione di massa”. In altre parole, nella fase in cui è sempre meno possibile distribuire le “briciole” della ricchezza sociale, la politica come rappresentanza e terreno di mediazione non ha più senso. Deve cambiare radicalmente funzione. Ma non può neppure presentarsi direttamente nella nuova veste, pena l’autodelegittimazione e il via libera alla conflittualità sociale senza baricentro.
Deve, perciò, nascondere la realtà, spostando il terreno dello scontro dal livello strutturale – dove fin qui aveva mostrato qualche residua capacità egemonica – a quello sovrastrutturale, ovvero di gestione ideologica della società e delle sue relazioni interne.
Alcuni esempi sono la “criminalizzazione” dei politici fatta dal Corriere della Sera, o da una serie di programmi tv quali le “Jene” o “Striscia la Notizia”; in cui il NEMICO additato a tutti è la gestione politica delle crescenti inegualianze sociali, mai la struttura economica che produce quelle ineguaglianze. Naturalmente questo ceto politico è parassitario, ma è lo stesso ceto che ha garantito la continuità di potere delle attuali classi dominanti. La conseguenza diretta – ideologica in senso stretto – è che tutto ciò che è pubblico è parassitario e dannoso, anche qui rimuovendo il fatto che la crisi attuale viene dopo un processo internazionale di privatizzazioni in atto da oltre trent’anni e cominciato proprio negli USA, centro del capitalismo mondiale.
Un ruolo non indifferente viene perciò svolto dalla comunicazione, sia televisiva che cartacea, investita del compito di rendere reale un immaginario che nasconde sistematicamente il vero “nemico” alle classi subalterne. A questo ruolo non viene meno neppure la “Rete”, idealmente descritta come “strumento di democrazia”, in realtà motore inesauribile di parcellizzazione, individualismo e infine – necessariamente – impotenza. Ognuno, infatti, può certamente esprimere in piena libertà la propria opinione online; ma ha di fronte a sé il “resto del mondo”, che sa benissimo di non poter cambiare da solo. Le assurdità e i miti che viaggiano in quest’ambito testimoniano in primo luogo la frustrazione e l’impotenza degli “individui”. Da solo, mai nessuno ha capito nulla del livello “sistemico”.
La follia della “politica” propinata sui mezzi di comunicazione di massa dai vari Berlusconi, Renzi, Monti o Grillo (paradigmatico lo show demenziale in streaming, tra Grillo e Renzi, durante le consultazioni per il governo) non è “la crisi della politica”, ma la funzione della politica in una fase di crisi di sistema. Ovvero la “miglior” politica possibile oggi per “una borghesia non più solo nazionale”, perché al centro del conflitto non ci devono essere i dati strutturali, ma l’indeterminatezza del chiacchiericcio spacciato per “politica”.
Se tutto questo è vero, e francamente così ci sembra, si crea una contraddizione radicale con la concezione ed il modo di “far politica” fin qui adottato dalla “sinistra”, ma anche da una buona parte dei “movimenti” del nostro paese. Una contraddizione che costringe ad una modifica altrettanto radicale dei comportamenti o all’omologazione con il “sistema PD”, se non addirittura col PD stesso. Questa mutazione genetica del sistema ex-democratico del nostro paese non si limita al solo “ceto politico” dei partiti, ma investe direttamente le istituzioni; se “i politici” sono altrettanti burattini manovrati dai poteri reali dell’Unione Europea in costruzione, le istituzioni sono allora il teatro dentro cui si svolge la rappresentazione politico-mediatica.
Basti pensare al ruolo del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, contemporaneamente attore e agito in rapporto alla nuova dimensione istituzionale creata dalla “tecnocrazia europea”; quel funzionariato multinazionale che, assieme alla BCE ed alla Commissione, appare come l’unica “fonte di auto-legittimazione” dell’Unione Europea.
Questa chiave di lettura non ha nulla delle visioni dietrologiche o complottistiche tanto in voga nella “Rete”. Tutto ciò è possibile perché nel nostro paese, ed in Europa, la lotta di classe che ha determinato gli equilibri internazionali nel secolo scorso non ha più peso né rilievo storico; è dunque un dato strutturale, che determina una situazione cui i soggetti individuali e collettivi “si adattano” per inerzia. Non è insomma sufficiente una crisi economica devastante, né effetti sociali altrettanto laceranti, per rimettere in discussione l’egemonia dell’avversario di classe.
Bisogna saper esprimere anche una prospettiva alternativa, anche se necessariamente oggi ancora indeterminata; ma che diviene sempre più necessaria di fronte alle contraddizioni del capitalismo di questo secolo. “La politica” e la sfida sul piano sovrastrutturale diventano perciò un terreno di elaborazione e di confronto serrato tra chi intende lavorare davvero per la rottura di questo sistema; ed è anche l’occasione per rompere la gabbia di un pensiero fin qui egemone nella sinistra e tra i comunisti, ma condannato alla “coazione a ripetere” fino alla scomparsa.
L’Unione Europea e la guerra che già c’è. Come si combatte?
Nel 1996 Helmut Khol sostenne in una conferenza all’università di Lovanio che “L’integrazione europea sarà una questione di pace o di guerra nel XXI° Secolo”. Un anno dopo, l’economista e consigliere presidenziale statunitense, Martin Feldestein, sostenne che l’introduzione dell’euro avrebbe portato “alla discordia e alla guerra sia in Europa che tra Europa e Stati Uniti”.
Queste due visioni quasi profetiche di esponenti dell’establishment europeo e statunitense, stanno trovando una drammatica conferma nello sviluppo degli avvenimenti storici.
Il processo di costruzione dell’Unione Europea come polo imperialista (in cui l’introduzione dell’euro è stato il passaggio decisivo) insieme alle crescenti ambizioni dei Brics, è stato il maggiore scossone al sistema delle relazioni internazionali ereditato dalla seconda guerra mondiale e che vedeva gli Stati Uniti come unica potenza egemone nel mondo capitalista e in competizione con l’Urss.
La guerra, estrema ratio per la distruzione degli eccessi di capacità produttiva, non sembra più essere un fattore estraneo, lontano o rimosso dalle relazioni internazionali e dalla competizione globale in corso. Lo scriveva nero su bianco il Libro Bianco della Difesa francese già negli anni Novanta, mentre due documenti dei neoconservatori statunitensi (uno nel 1992 e uno nel Duemila) segnalavano che gli Stati Uniti- dopo la dissoluzione dell’Urss – dovevano impegnarsi con ogni mezzo per impedire la rinascita di potenze rivali che ne avrebbero minacciato l’egemonia.
Lo strumento di concertazione tra le varie potenze occidentali – la Nato in cui gli Usa hanno esercitato per cinquanta anni la funzione di primus inter pares – non sembra più in grado di funzionare.
La storia degli ultimi venti anni ha visto conflitti di dimensioni importanti in Medio Oriente (Iraq), Asia (Afghanistan)… ed Europa (Jugoslavia). Nella dinamica di questi conflitti è possibile vedere piuttosto nitidamente il cambiamento delle relazioni tra Unione Europea e Stati Uniti: dalla concertazione alla competizione. Il conflitto più paradigmatico è stato in realtà quello in Georgia nel 2008 nel quale è emersa chiaramente la divaricazione tra gli USA – disponibili a ricorrere all’art.5 della Nato per farla intervenire militarmente al fianco della Georgia – e Germania, Francia e Italia che hanno negato tale misura per evitare un conflitto diretto con la Russia. Le anticipazioni di questa divaricazione si erano già viste nella guerra per il Kossovo nel 1999 quando gli Usa premevano per intervenire a fermare la colonna russa arrivata a Pristina e la Gran Bretagna si oppose.
Ma le guerre degli ultimi venti anni hanno rivelato l’aperta competizione tra Ue e Usa sul versante delle forniture energetiche. La guerra sugli oleodotti e i corridoi energetici è stata ed è tuttora in corso come dimostra la vicenda Ucraina. Il sistema di gasdotti e oleodotti attivata a vari livelli dagli Stati europei con la Russia (North Stream, South Stream etc) di fatto hanno reso un fallimento il progetto Usa di bypassare la Russia e l’Iran con un sistema di corridoi energetici alternativi.
L’Unione Europea in questi anni non ha accelerato solo sul piano dei Trattati economici, ma anche sul terreno politico e militare.
In primo luogo esiste ed agisce un complesso militare-industriale europeo che produce, utilizza ed esporta tecnologie avanzate nell’aereospaziale e nel militare. Il processo di concentrazione monopolistico in questo settore ha visto emergere il gruppo europeo Eads a predominanza francese (che punta a inglobare anche Finmeccanica), il consorzio Airbus, il progetto satellitare Galileo ed infine la collaborazione che ha portato al collaudo nel 2013 del drone militare europeo “Neuron”. E’ di questi giorni la notizia del cavo sottomarino transatlantico che collegherà l’Europa al Brasile bypassando quello statunitense. Lo scontro sullo spionaggio Usa contro i leader europei ha indubbiamente accelerato questo progetto. E’ stata istituita l’Agenzia Europea degli Armamenti mentre si cerca di accelerare – tramite le cooperazione rafforzate solo tra i paesi concordi e non fra tutti i membri della Ue – la formazione della Forza di Reazione Rapida europea sganciata dalla Nato e della Eurogendfor (la gendarmeria europea). I primi test sono stati fatti in Bosnia e in Africa.
In secondo luogo proprio l’Africa e il Maghreb sembrano essere diventati esplicitamente area di interesse strategico delle potenze europee (qualche segnale arriva anche sull’America Latina storicamente cortile di casa degli Usa). L’attivismo militare della Francia nella sua area di influenza coloniale storica (l’Africa Francofona dove attua come moneta di riferimento il Cfe legato all’euro) e poi in Libia, Tunisia, Algeria, è già noto. Ma è emblematico che alla vigilia della Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di quest’anno, sia il ministro della difesa che degli esteri della Germania, abbiano ribadito che l’Africa è un’area strategica per l’Europa. La rotta di collisione con gli Stati Uniti e con la Cina in Africa appare praticamente inevitabile.
Sulla politica militare e le scelte strategiche dell’Unione Europea indubbiamente la partita più importante si gioca nelle relazioni tra Germania e Francia. La prima è la maggiore potenza economica che sta maturando ambizioni politiche e globali, la seconda è la maggiore potenza militare e nucleare europea insieme alla Gran Bretagna. Ma se quest’ultima continua ad avere un rapporto del tutto strumentale con l’Unione Europea essendo proiettata nelle relazioni particolari con gli Usa, la Francia si sente il “perno” centrale della politica militare europea e delle sue ambizioni globali. Con le avventure militari francesi in Libia e in Africa, l’oltranzismo dimostrato sulla Siria ha provato a “strappare” e coinvolgere gli altri partner europei ma ha verificato che non può che concertare se poi non vuole trovarsi da sola – e non è affatto in grado di farlo – a misurarsi con il competitore statunitense o con la Russia.
Appare probabile che nei prossimi mesi e anni assisteremo ad una escalation delle iniziative politiche e militari dell’Unione Europea nelle aree che ritiene di propria influenza: Africa, Maghreb ed Europa dell’Est. Il test dell’Ucraina presenta tutte le caratteristiche per una crisi “regionale-internazionale” costituente per questa ambizione dell’Unione Europea.
Assisteremo ancora a episodi di “guerra guerreggiata” in periferia e nelle terre di nessuno. A compromessi e rotture con i competitori (Russia, Stati Uniti e Cina soprattutto). Si conferma così la dannazione della storia a un secolo di distanza dalla Prima Guerra Mondiale.: doveva essere uno scontro tutto giocato nelle colonie, uno scontro che vedeva momenti di concertazione tra le grandi potenze (vedi la repressione della rivolta dei Boxer in Cina nel 1900) e momenti di scontro (guerra russo-giapponese nel 1905, guerra italo-turca nel 1911) e poi lo scontro in Africa tra le colonie tedesche, britanniche, francesi. Sappiamo tutti come è andata a finire dal 1914 fino al 1945.
ITALIA –UE. Tendenze dei processi di concentrazione e centralizzazione del capitale
Sulle caratteristiche macroeconomiche e anche quelle microeconomiche rispetto al sistema impresa e ai suoi processi evolutivi avvenuti con la costruzione della Unione Europea e accentuatesi in questi ultimi anni di forte determinazione del polo imperialista europeo si possono leggere specifici paragrafi nel libro “Il risveglio dei maiali PIIGS ( di Vasapollo, Martufi, Arriola, seconda edizione 2012); ne risulta in questi ultimi anni una tendenza all’aumento delle fusioni ed acquisizioni quindi della concentrazione proprietaria.
All’interno delle discipline di natura economica vi è una tradizione ormai consolidata nel tempo di effettuare una trattazione specifica delle relazioni economiche internazionali, includendo in queste sia gli scambi di beni e servizi tra diversi paesi che le operazioni di carattere finanziario. L’insieme di tali teorie, che solitamente va sotto il nome di economia internazionale, o anche il versante delle politiche economiche internazionali, assume ovviamente una maggiore importanza nella fase della cosiddetta globalizzazione neoliberista a forte connotazione finanziaria, utilizzando nel contempo gli strumenti di microeconomia e quelli della macroeconomia. Dal nostro punto di vista ci interessa analizzare gli squilibri e le disuguaglianze provocati da uno sviluppo capitalistico ineguale e dall’emergere di nuovi accordi internazionali, di nuove comunità statali, di nuova aree di scambio, di nuove aree valutarie, a partire dalla determinazione dell’Europolo imperialista all’interno dell’attuale polarizzazione capitalista connessa all’odierna divisione internazionale del lavoro e la specializzazione produttiva ad essa collegata.
La crisi strutturale e poi sistemica scatenante la fase depressiva prolungata, che incomincia approssimativamente a partire dal 1973-74, condizionò un processo graduale di ridimensionamento economico che abbraccia sia aspetti della ristrutturazione delle relazioni produttive sia quelli delle relazioni socioeconomiche complessive, fenomeno che continuerà ad acquisire contemporaneamente carattere internazionale.
Questo graduale processo di ristrutturazione, che è venuto manifestandosi negli ultimi decenni, ha costituito lo scenario della transizione dal modo di produzione tecnologico meccanizzato a quello automatizzato, e nel contempo alla piena manifestazione di una nuova tappa di esistenza dell’internazionalizzazione del capitale e l’uso contestuale ed appropriato del commercio internazionale nella nuova divisione internazionale capitalista del lavoro.
Tradizionalmente, il commercio internazionale è stato utilizzato come un meccanismo per compensare la svalutazione del capitale nei paesi centrali. Dato che i tassi di profitto sono maggiori quanto minore è la relazione tra mezzi di produzione e lavoro vivo, la formazione per la competitività di un tasso medio in un mercato presuppone un trasferimento di valore tra capitali, in funzione della loro composizione relativa.
Ci sembra importante riflettere circa la stretta relazione esistente tra la dinamica dei cicli lunghi della riproduzione capitalista e lo svolgimento dell’internazionalizzazione del capitale; ciò ci dà modo di realizzare considerazioni circa lo scenario attuale e tendenziale internazionale.
L’espansione del commercio estero, man mano che il regime di produzione si sviluppa, per necessità interna, cioè per il sua appetito di mercati sempre di più estesi, continua a trasformarsi. I processi di esportazione di merci uniti al processo di dominio coloniale del centro sulla periferia del capitalismo si erigono come caratteristiche fondamentali dell’internazionalizzazione del capitale alle condizioni del capitalismo premonopolista.
Il commercio internazionale non si basa su un interscambio di valori equivalenti, poiché, come nel mercato nazionale, i prezzi nel mercato mondiale si reggono sugli stessi principi che si applicano in virtù di un capitalismo concettualmente isolato. Quindi, anche qui c’è una tendenza che determina che i tassi di profitto tendano verso un tasso di profitto medio. Le merci di un paese capitalista avanzato, con la maggior intensità di mezzi di produzione per unità di lavoro vivo (e tasso di profitto inferiore), si venderanno a prezzi internazionali “di equilibrio” (prezzi di produzione) superiori al valore incorporato; a quelle di un paese arretrato, con intensità maggiori di lavoro e maggiori tassi di profitto, invece, vengono assegnati prezzi (internazionali) di produzione inferiori al loro valore.
Tali procedimenti di compensazione a causa del commercio su scala internazionale sono diventati sempre più complessi con la frammentazione dei processi internazionali di produzione. Le delocalizzazioni produttive sono lo strumento utilizzato per cercare di modificare il valore dei mezzi di produzione e della forza lavoro, provando così a compensare la tendenza alla combinazione dei limiti dell’accumulazione.
Anche in questo caso, andranno evidenziati in maniera scientifica i connotati dell’attuale fase della mondializzazione capitalista intesa come competizione globale, cioè come dimensione dell’attuale fase dell’imperialismo. E ciò perché siamo ancora convinti che una delle caratteristiche specifiche del capitalismo è la forma che adotta l’imperialismo. In definitiva, le imprese con livelli di intensità e produttività del lavoro maggiori della media internazionale, ottengono modifiche nei tassi di profitto grazie alle merci prodotte nello spazio internazionale (profitto extra), a discapito di coloro che producono e vendono nel suddetto mercato con tecniche al di sotto della media sociale (e tutto ciò, nonostante il tasso di profitto realizzato da questi ultimi sia più alto degli altri).
Questo tipo di relazioni di dominazione esiste da molto tempo, ma sotto il capitalismo l’imperialismo adotta una forma essenzialmente economica. Prima del capitalismo la sottomissione politica ed economica all’impero era un meccanismo di appropriazione di ricchezza da parte del potere imperiale, ma questo non avveniva sistematicamente ed in generale non modificava le strutture sociali basilari delle società sottomesse.
Sotto il capitalismo, al contrario, le relazioni imperiali condizionano la forma ed il contenuto della produzione materiale nei territori sottomessi, le sue strutture socioeconomiche si adattano alle necessità di consumo di ricchezza e di valorizzazione del capitale della potenza imperiale. Ciò avviene indipendentemente dal fatto che l’imperialismo includa il colonialismo, come all’epoca della dominazione franco-britannica in Africa ed Asia nel secolo XIX, o che abbia un contenuto post-coloniale, di indipendenza politica formale dei territori sottomessi, come nel periodo della dominazione imperiale degli Stati Uniti d’America.
Come si è fatto per analisi-inchieste precedenti, per meglio comprendere la configurazione e il modus operandi dei diversi poli geoeconomici, anche in questo caso ci aiuterà, più che la teoria, la parte descrittivo-applicativa per individuare quei fenomeni relativi agli scambi internazionali che effettivamente si verificano nella realtà e nel contesto istituzionale in cui avvengono.
Gli ultimi dati ufficiali [1] disponibili sui livelli di concentrazione societarie sono quelli del 2011 che segnalano nello scenario internazionale una contrazione delle operazioni di fusione e acquisizione di circa l’8%, accentuando così una tendenza negativa iniziata dal 2008; stessa tendenza è nel valore delle transazioni con una diminuzione di circa il 5% nello stesso periodo.
Per quanto riguarda il numero di operazioni che hanno interessato imprese dell’Unione Europea si riscontra un’accentuazione della tendenza alla diminuzione analoga a quella dello scenario mondiale (vedi figura 2a), anche se vi è una crescita accentuata rispetto al dato internazionale delle operazioni di valore superiore ai 100 milioni di euro.
Ciò fa meglio intendere perché la tendenza nella UE in termini di valore nelle transazioni è molto differente dal dato internazionale, poiché si ha un aumento di circa il 35% nel 2011 rispetto al 2010 (vedi figura 2b)
Tali processi vedono spesso come attore principale la Francia (si pensi ad esempio all’acquisizione della Genzyme Corporation da parte della francese Sanofi-Aventis).
L’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato ha esaminato in Italia nel 2011, 514 operazioni di concentrazione e ne risulta un andamento molto simile rispetto al 2010, anno in cui si era arrivati al valore minimo da inizio degli anni 2000.
Pur segnalando una crescita del 7,5% del numero di operazioni si evidenzia però una contrazione del 5% nel valore totale delle transazioni; ne risulta quindi che il valore medio delle operazioni di concentrazione passa dagli 85 milioni di euro del 2010 ai 75 milioni di euro del 2011.
Aumentano in Italia le transazioni che riguardano l’acquisizione di imprese con fatturato nazionale più basso rispetto alla media delle società di grandi dimensioni ed infatti le operazioni in oggetto riguardano principalmente l’acquisizione di piccole imprese, di esercizi commerciali anche con un solo punto vendita. Le operazioni di concentrazione di valore superiore a 1 miliardo di euro in Italia si dimezzano passando dalle 11 del 2010 alle 6 del 2011; in questo caso si tratta di acquisizioni di multinazionali che realizzano solo una piccola parte del loro fatturato in Italia.
Negli ultimi anni i settori più dinamici nelle acquisizioni sono risultati il tessile e l’abbigliamento, la grande distribuzione e la distribuzione e vendita di carburanti.
In termini di valore l’attività di concentrazione di imprese in Italia vede il settore IT (Information Tecnology) al primo posto e al secondo posto quello dell’intermediazione monetaria e finanziaria.
La dimensione media delle imprese controllate italiane all’estero è abbastanza elevata (78,3 addetti) e tale tendenza è valida sia per l’industria sia per i servizi.
L’Unione Europea a 27 è la più importante area di localizzazione delle multinazionali italiane all’estero (con il 59,6% delle imprese, il 43,3% degli addetti e il 56,1% del fatturato)[2].
Rilevante risulta la quota di fatturato esportato in Italia nei settori del Made in Italy (58,2% per tessile e abbigliamento, 39% per fabbricazione di articoli in pelle, ecc.).
In ogni caso le multinazionali italiane sono di fatto il fanalino di coda nell’Unione Europea con un livello di occupazione e tecnologia lontanissimi dagli standard della Germani e della Francia, dove le multinazionali segnalano riaspetto al nostro paese una marcata maggiore redditività, più forte solidità finanziaria e una più alta produttività; si pensi che rispetto al fatturato aggregato europeo delle multinazionali la quota di quelle con sede in Italia è solo del 7% contro il 21% della Germania e il 15% della Francia.
Se come tendenza internazionale nel 2013 si nota una ripresa dei ricavi da parte delle multinazionali del Giappone, in Italia invece brusca è la diminuzione e sicuramente più decisa rispetto alla frenata realizzata nella UE e in Nord America.
Tra le potenti multinazionali del petrolio si può evidenziare solo l’ENI che guadagna quote di mercato anche nella UE e pur risultando una diminuzione dei consumi di petrolio nel nostro Paese i ricavi complessivi ENI aumentano grazie a quelli conseguiti all’estero. Tale maggiore redditività dell’ENI avviene però con una forte contrazione dell’occupazione all’interno del nostro Paese molto più alta della media europea mentre la stessa ENI ha creato più occupazione all’estero.
Al di là dell’aspetto dimensionale, l’elemento di maggiore debolezza strutturale del sistema industriale italiano è rappresentato dalla natura degli assetti proprietari e dalla loro difficile adattabilità alle esigenze che oggi il sistema industriale manifesta ai fini del suo rilancio.
Tale capitalismo a concentrazione proprietaria nelle mani delle grandi famiglie, comunque dominante e centrale dell’economia italiana, corrisponde e si configura come centralista e basato sull’industria caratterizzata da maggiori dimensioni d’impresa, maggiore intensità di capitale fisso.
Anche il mondo delle piccole e medie imprese è giunto ad un importante punto di svolta. In aggiunta alle difficoltà associate all’estendersi ed all’inasprirsi della concorrenza, le piccole e medie imprese (PMI) italiane si trovano ad affrontare un importante e fondamentale passaggio generazionale che potrebbe risultare decisivo, non solo dal punto di vista degli assetti proprietari, ma anche per l’organizzazione e la divisione del lavoro tra le imprese. E’ così che la stessa costruzione dell’Europolo, basata sui parametri di Maastricht funzionali al modello esportatore tedesco, altro non rappresenta che il contesto di uno scenario di un confronto aperto e diretto dei paesi europei alla partecipazione da protagonisti a quella economia globalizzata incentrata sui nuovi scenari del commercio internazionale, o meglio a quella competizione globale che misura lo scontro per la definizione delle aree di influenza e di dominio delle tre ipotesi liberiste: quella statunitense, quella giapponese-asiatica e quella europea guidata dalla locomotiva tedesca alleata per convenienza tattica alla Francia. La forza di questi due paesi non deriva dalla politica ma dalla solidità dei rispettivi sistemi produttivi; la Germania, infatti, ha mantenuto un ruolo centrale dello Stato ed è tra i principali esportatori, mentre la Francia, oltre a possedere un apparato militare molto aggressivo (si pensi alle guerra contro la Libia), vede lo Stato impegnato in molte grandi imprese.
Gli intensi processi di competizione globale dell’economia a livello mondiale hanno portato, quindi, la Germania, con un asse privilegiato verso la Francia, a cercare una ipotetica soluzione dei problemi della concorrenza internazionale con la costruzione di un’area economica e monetaria incentrata sull’esigenza esportatrice del modello tedesco, con una nuova divisione internazionale del lavoro che va ad assegnare ai paesi dell’Eurozona mediterranea il ruolo di importatori ed erogatori di servizi, delocalizzando il proprio sistema industriale verso i paesi dell’Est europeo per risparmiare molto sul costo del lavoro, avendo al contempo una manodopera specializzata.
Per quanto concerne la dimensione nazionale delle economie europee, la situazione evidenzia che i processi di delocalizzazione massiva della produzione verso la periferia in particolar e per quanto riguarda l’Unione Europea verso i paesi dell’Europa dell’est e dell’Africa Mediterranea e di concentrazione proprietaria dalla periferia mediterranea europea al centro (in particolare Germania e Francia) hanno modificato i circuiti di incremento e accumulazione del capitale. E’ così che va letta questa nuova necessità storica di una borghesia sovranazionale o meglio trasnazionale europea che configura gli scenari della ricomposizione proprietaria e degli assetti politico-economici industriali nell’Europolo imperialista.
Attualmente, la domanda che permette di mobilitare le risorse di investimento per la generazione di occupazione – che si basa sulle aspettative dell’aumento del capitale degli investitori privati – non si manifesta su scala nazionale, ma mondiale ed in particolare nella loro scomposizione tra polo imperialista statunitense, quello europeo e quello di alcuni paesi emergenti.
Nel caso specifico, il commercio internazionale o le dinamiche degli investimenti esteri condizionati da accordi internazionali e organismi sopranazionali, così come si è ormai configurato l’Europolo. Questi vanno ad identificare nient’altro che l’attuale dimensione dell’imperialismo nella competizione fra aree e poli, in un contesto di globalizzazione neoliberista che è sbagliato considerare esclusivamente a connotati finanziari, anche se l’iniziativa finanziaria in questi ultimi trenta anni ha assunto un peso estremamente importante.
In effetti, le condizioni dell’ampliamento della competizione su scala internazionale sono ben visibili e materiali, e vanno individuate storicamente nell’affermazione e diffusione delle tecnologie informatiche e telematiche, oltre che nella diminuzione globale del costo dei trasporti, che consente lo spostamento agevole delle merci e determina la convenienza assoluta alla delocalizzazione delle produzioni in contesti socio-ambientali più favorevoli al capitale.
Il processo di centralizzazione e concentrazione del capitale porterà ad un rafforzamento del potere delle multinazionali. La democrazia continuerà a perdere la propria consistenza, mutando in un ordine plutocratico della repressione ideologica funzionale al dominio del profitto.
Insieme a questi processi si manifesta un nuovo stadio del sistema di contraddizioni del capitalismo, in special modo delle contraddizioni tra ricchezza e povertà, sviluppo tecnologico e disoccupazione, sviluppo tecnologico ed ecosistema, meglio esprimibili in termini di conflitto (capitale-lavoro, capitale-ambiente, capitale-diritti) ma allo stesso tempo nella valorizzazione del capitale-universalizzazione delle relazioni sociali di produzione capitalista.
L’esistenza del monopolio non inibisce l’attuazione delle forze competitive che definiscono la logica profonda del conflitto sociale, in una riattivazione di una nuova dinamica del conflitto diretto capitale-nuovo mondo del lavoro e del lavoro negato.
Le maggiori cinquanta banche e multinazionali europee
EUROPA | ||||
Posizione in Europa | Posizione nel mondo | Nome | Nazione | Fatturato (milioni di dollari) |
1 | 3 | Royal Dutch Shell | Netherlands | 318.845 |
2 | 4 | BP | Britain | 274.316 |
3 | 8 | DaimlerChrysler | Germany | 190.191 |
4 | 10 | Total | France | 168.357 |
5 | 13 | ING Group | Netherlands | 158.274 |
6 | 15 | AXA | France | 139.738 |
7 | 16 | Volkswagen | Germany | 132.323 |
8 | 18 | Crédit Agricole | France | 128.481 |
9 | 19 | Allianz | Germany | 125.346 |
10 | 20 | Fortis | Belgium/Netherlands | 121.202 |
11 | 22 | HSBC Holdings | Britain | 115.361 |
12 | 25 | BNP Paribas | France | 109.214 |
13 | 26 | ENI | Italy | 109.014 |
14 | 27 | UBS | Switzerland | 107.835 |
15 | 28 | Siemens | Germany | 107.342 |
16 | 30 | Assicurazioni Generali | Italy | 101.811 |
17 | 32 | Carrefour | France | 99.015 |
18 | 35 | Deutsche Bank | Germany | 96.152 |
19 | 36 | Dexia Group | Belgium | 95.847 |
20 | 47 | Credit Suisse | Switzerland | 89.354 |
21 | 49 | Société Générale | France | 84.486 |
22 | 50 | Aviva | Britain | 83.487 |
23 | 52 | Gazprom | Russia | 81.115 |
24 | 53 | E,ON | Germany | 80.994 |
25 | 54 | Royal Bank of Scotland | Britain | 80.983 |
26 | 55 | Tesco | Britain | 79.979 |
27 | 56 | Nestlé | Switzerland | 79.872 |
28 | 57 | Deutsche Post | Germany | 79.502 |
29 | 58 | HBOS | Britain | 79.239 |
30 | 60 | Deutsche Telekom | Germany | 76.969 |
31 | 62 | Metro | Germany | 75.131 |
32 | 63 | Électricité de France | France | 73.939 |
33 | 67 | ABN AMRO Holding | Netherlands | 71.218 |
34 | 68 | Peugeot | France | 71.006 |
35 | 75 | Santander Central Hispano Group | Spain | 68.051 |
36 | 77 | Telefónica | Spain | 66.372 |
37 | 78 | Statoil | Norway | 66.280 |
38 | 79 | Prudential | Britain | 66.134 |
39 | 81 | BASF | Germany | 66.007 |
40 | 82 | France Télécom | France | 65.899 |
41 | 83 | Barclays | Britain | 65.609 |
42 | 84 | Fiat | Italy | 65.031 |
43 | 85 | Zurich Financial Services | Switzerland | 65.000 |
44 | 88 | BMW | Germany | 61.477 |
45 | 90 | Repsol YPF | Spain | 60.921 |
46 | 95 | Vodafone | Britain | 59.811 |
47 | 97 | UniCredit Group | Italy | 59.119 |
48 | 99 | Mittal Steel | Netherlands | 58.870 |
49 | 100 | Munich Re Group | Germany | 58.183 |
50 | 101 | ThyssenKrupp | Germany | 57.927 |
Le 10 banche più sicure al mondo secondo il Global Finance:
1 – KfW (Germania)
2 – Bank Nederlandse Gemeenten (BNG) (Olanda)
3 – Zürcher Kantonalbank (Svizzera)
4 – Landwirtschaftliche Rentenbank (Germania)
5 – Landeskreditbank Baden-Württemberg – Förderbank (L-Bank) (Germania)
6 – Caisse des Depots et Consignations (CDC) (Francia)
7 – Nederlandse Waterschapsbank (Olanda)
8 – NRW.BANK (Germania)
9 – Banque et Caisse d’Epargne de l’Etat (Lussemburgo)
10 – Rabobank Group (Olanda)
La composizione di classe in Europa
Alla fine degli anni Novanta un rapporto dell’Ocse indicava i bassi salari e la massima flessibilità del lavoro come orizzonte certo anche per il modello sociale europeo. I fatti ci dicono che il monte salari dei lavoratori si va abbassando, gli orari di lavoro si allungano, le filiere produttive continuano a distribuire la catena del valore in più aree.
Questa tendenza è forte anche nei paesi dell’Unione Europea ma non è omogenea e varia a secondo della collocazione dei vari paesi e delle varie risorse (industria, risorse naturali, servizi) nella ridefinizione della divisione del lavoro in Europa e nelle sue aree di influenza.
L’accelerazione del processo costitutivo dell’Unione Europea come polo imperialista, sta infatti producendo inevitabilmente effetti anche sulla composizione di classe dei lavoratori europei.
Se nei paesi Pigs appare evidente il drastico abbassamento dei salari, l’aumento della giornata lavorativa sociale e dello sfruttamento del lavoro, la disoccupazione crescente, nei paesi dell’Europa dell’Est assistiamo ad un lieve ma tendenziale aumento degli standard sociali nei paesi già integrati rispetto al crollo dei primi anni Novanta (Polonia, Rep. Ceca, Slovacchia, Ungheria) e, contestualmente, ad un peggioramento di quelli di nuova adesione (Slovenia, Romania, Bulgaria, Serbia), tanto che in diversi di questi paesi si sta valutando la convenienza di aderire o meno all’Unione Europea.
Possiamo dire che nell’Unione Europea agisce una disuguaglianza nelle disuguaglianze sociali. Indicativo di questo processo parallelo di concentrazione capitalistica (a tutto campo) e aumento delle disuguaglianze, viene dal progetto Hartz sul capitale umano. L’ex dirigente della Volkswagen ed inventore dei mini Jobs in Germania ha dichiarato che: “la disoccupazione può essere ridotta riallocando temporaneamente i giovani senza lavoro in un altro paese europeo che li ospiti per l’addestramento e l’impiego”.
Lo stesso Hartz riconosce che il suo “piano” applicato in Germania ha potuto avere successo solo grazie alla compresenza di tre fattori decisivi:
- la “cogestione”, ovvero quel meccanismo – esistente solo in Germania – per cui i sindacati siedono nei consigli di amministrazione delle aziende principali e concorrono alla determinazione della scelte aziendali, accettando in cambio di “moderare” le richieste salariali;
- le “riforme” (mercato del lavoro, ammortizzatori sociali, ecc)
- una congiuntura economica favorevole.
A rafforzare questo processo di spoliazione del capitale umano migliore dai paesi Pigs (giovani e soprattutto giovani istruiti), è la quantità di fondi e concentrazione dei centri di ricerca e sviluppo in Germania rispetto agli altri paesi europei.
La Germania spende 73 miliardi, la Francia 44, la Gran Bretagna 30, il Benelux 20. Al contrario l’Italia investe 19 miliardi, la Spagna 14, il Portogallo 2,5, la Grecia non pervenuta.
Nell’Unione Europea da un lato agisce un fortissimo processo di polarizzazione sociale/proletarizzazione di lavoratori e ceti medi nei paesi Pigs, un dato questo ormai verificabile e – in Grecia, Spagna e Portogallo – ancora più pesante che in Italia. I settori popolari e le classi medie sono state trascinate verso il basso (non solo materialmente ma anche come percezione di sé, come risulta da recenti inchieste), mentre la borghesia più ricca è schizzata verso l’alto trascinando con sé qualche milionario in più.
Dall’altra nei paesi del nucleo centrale europeo (Germania, Olanda, etc.) l’esistenza di un surplus ha consentito di mantenere una struttura sociale più simile a quella tradizionale dei “due/terzi”, con un terzo della società (disoccupati, immigrati, fasce povere) in basso, un ampio ceto medio composto anche da lavoratori salariati, e una consistente borghesia.
La Germania ad esempio ha ridotto il suo tasso di disoccupazione introducendo la sottoccupazione (i famosi mini jobs). Ai 2.837mila disoccupati, si aggiungono 3.819mila sottoccupati. Entrambi presentano tassi quasi doppi nei lander della ex Germania Est rispetto a quelli della Germania ovest. Ma anche i bassi redditi derivati dai mini jobs, in presenza di un sistema di protezione sociale ancora solido (asili, scuole, sanità, etc.) permettono spesso di cumularli dentro il reddito familiare evitando l’infarto sociale ormai visibile – con maggiore o minore intensità – nei paesi Pigs dove dilaga invece la disoccupazione di massa e in alcuni casi una vera e propria pauperizzazione.
Gli strumenti di mantenimento della coesione sociale nel nucleo duro dell’Unione Europea, sono diversi.
Alla BMW di Leipzig, ad esempio, un terzo dei lavoratori sono direttamente assunti dalla BMW, un terzo sono contratti a tempo determinato, un terzo lavorano per oltre venti ditte di subcontractors. Quanto questa situazione impatti il doppio livello della contrattazione dei salari e della condizione di lavoro lo dimostra la difficoltà di tradurre in termini di piattaforme e di mobilitazioni unitarie le differenze che attraversano la composizione di classe. Ma se la quota di subcontractors venisse sostituita dalle imprese italiane, questo consentirebbe margini per negoziare il consenso interno dei lavoratori.
Quindi una nuova divisione internazionale del lavoro che integri il “lavoro debole” della filiera tedesca in Europa (e nei Pigs saccheggiati e a bassi salari sopratutto) può rivelarsi un fattore di stabilizzazione sociale interna in Germania.
Non solo. Secondo i dati elaborati dal ministero del Lavoro tedesco, a partire dal 2030 più di un terzo dei pensionati tedeschi dovranno cavarsela con 688 euro lordi al mese, una cifra costringerebbe i lavoratori pensionati “a chiedere ilsussidio statale di povertà“. E, paradossalmente, questo non riguarderebbe solo i lavoratori che hanno svolto un part time o lavorato con discontinuità, ma anche lavoratori a tempo pieno che per 35 anni hanno percepito un salario lordo di 2.500 euro. La colpa è della riduzione della percentuale di calcolo della pensione rispetto allo stipendio, che nel 2030 sarà del 43% del salario netto, contro l’attuale 51%. Secondo l’Ufficio statistico federale, più di un terzo degli occupati tedeschi a tempo pieno guadagna meno di 2.500 euro lordi al mese. Nel sistema previdenziale tedesco esistono per questo anche un secondo e un terzo pilastro rispetto alla previdenza pubblica, rispettivamente i fondi aziendali e i fondi pensionistici volontari. I fondi aziendali sono molto diffusi e danno un contributo decisivo al totale della pensione dei lavoratori.
L’abbattimento della previdenza pubblica, sta costringendo i lavoratori a sottoscrivere una pensione aggiuntiva privata finanziata totalmente da loro stessi attraverso i fondi pensioni che fanno crescere la rendita investendo sui “mercati finanziari” e i titoli di stato di vari paesi.
Una struttura sociale di questo tipo non solo riduce al minimo i fattori di conflitto sociale ma crea anche consenso intorno alle scelte della borghesia dominante nella spoliazione dei paesi europei più deboli.
La concentrazione economica, industriale, tecnologica e finanziaria in Europa, sta ridisegnando completamente la divisione del lavoro tra i paesi aderenti all’Unione Europea e in modo particolare quelli aderenti all’Eurozona.
Nei paesi Pigs più deboli come Grecia e Portogallo abbiamo assistito ad una vera e propria spoliazione quasi di tipo coloniale, mentre in Spagna e in Italia dove c’era una struttura industriale e finanziaria più solida il processo si sta dando attraverso una selezione e integrazione parziale delle imprese con possibilità competitive, una crescente deindustrializzazione e la “cannibalizzazione” dei gioielli produttivi. In Italia questo processo è molto più evidente.
Le produzioni di nicchia che nei decenni scorsi hanno reso noto competitivo il made in Italy, vengono acquisite da investitori stranieri, alcuni con vocazioni cannibalesche sui marchi, le loro quote di mercato o la qualità della subfornitura; altri – come gli sceicchi del Golfo o i fondi pensione – con vocazioni più meramente speculative.
In pratica i paesi Pigs si stanno trasformando in un vasto esercito e mercato industriale di riserva in funzione dell’export tedesco e della sua competizione nel mercato globale. Le privatizzazioni realizzate o in cantiere renderanno questa situazione ancora più pesante perché consegneranno ai gruppi capitalisti privati – soprattutto i monopoli e le multinazionali europee – anche le rimanenti industrie e i servizi pubblici (da Finmeccanica alle Poste alle municipalizzate).
NOTE
[1] ↑ Cfr. Rapporto “I processi di concentrazione delle imprese”, dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato in www.agcm.it/trasp-statistiche/doc_download/1479-cap-a1.html
[2] ↑ Cfr. Statistiche report ISTAT sulle multinazionali italiane, 16 dicembre 2013