Lezioni per un futuro socialista
Guglielmo Carchedi (Relazione al I° Forum promosso dalla Rete dei Comunisti – Roma 13-14 Maggio 2006)
Questa relazione verte sul ruolo fondamentale che lo sviluppo delle forze produttive ha per una futura società socialista. Tradizionalmente esse sono state considerate come neutrali, cioè senza un contenuto di classe, e quindi adatte sia ad una società capitalista che ad una socialista. Sarebbe la contraddizione tra forze di produzione neutre e relazioni di produzione capitaliste che causerebbe la caduta del capitalismo e l’avvento del socialismo. La tesi di questa relazione è che nella teoria di Marx le forze di produzione non sono per nulla neutre ma hanno un carattere di classe e che quindi la contraddizione di cui sopra non è tra forze di produzione neutrali e relazioni di produzione capitaliste ma tra forze e relazioni di produzione entrambe capitaliste. È solo in questo senso che è possibile sostenere che la contraddizione che produce le condizioni oggettive per il superamento del capitalismo è interna, inerente al capitalismo stesso. Ed è solo da questa prospettiva che bisogna pensare ad una futura società socialista. Questa è una delle più importanti lezioni che Marx ci ha lasciato. Dobbiamo recuperarla se non vogliamo ripetere i tragici errori che hanno condotto alle brucianti sconfitte del movimento comunista nel secolo ventesimo.
Mi scuso se incomincio con alcune definizioni. Esse ci servono per eliminare possibili confusioni e malintesi. Le forze produttive sono l’applicazione della scienza e della tecnica al processo lavorativo, che nel capitalismo assume la forma del processo di produzione capitalista. Lo sviluppo delle forze produttive è misurato quantitativamente dall’aumento della produttività, e cioè della maggiore quantità di valori d’uso prodotti con una data unità di capitale. L’economia ufficiale, ma anche molti economisti marxisti, confondono la produttività con lo sfruttamento. Data una certa produttività, lo sfruttamento aumenta se una parte maggiore del valore totale viene appropriata dal capitale. Dato un certo grado di sfruttamento, la produttività aumenta se si applicano innovazioni tecnologiche al processo produttivo.
Tali innovazioni comprendono non solo mezzi di produzione più efficienti ma anche una più efficienti organizzazioni del lavoro.
Le relazioni di produzione sono le relazioni in cui entrano coloro che partecipano al processo lavorativo e quindi al processo di produzione capitalista. Nel capitalismo esse sono le relazioni tra i produttori, che nei loro insieme formano il lavoratore collettivo e che non dispongono della proprietà dei mezzi di produzione, e i non-produttori, cioè tutti coloro che sono organizzati in un sistema gerarchico, che va dai proprietari dei mezzi dì produzione ai managers fino a i capetti di reparto, il cui compito, anche se essi non sono i proprietari dei mezzi di produzione, è quello di controllare e sorvegliare i produttori al fine di estrarre da loro il plusvalore. La contraddizione tra le forze produttive e le relazioni di produzione nel capitalismo è data, in essenza, dai fatto che l’applicazione della scienza e della tecnica al processo di produzione causa un doppio assoggettamento del Lavoro al Capitale: sia la sostituzione di lavoratori con i mezzi di produzione che un aumento della produttività in senso capitalista.
Il primo aspetto è importante per capire l’origine ultima delle crisi che spingono costantemente verso il superamento del capitalismo. Più mezzi di produzione e meno lavoro significa meno valore e plusvalore creato. In tal modo il plusvalore prodotto per unità di capitale (e quindi il tasso di profitto) cade mentre la quantità dei prodotti (valori d’uso) aumenta [1] . Questa è la causa ultima delle crisi economiche e quindi sociali. Per Marx, “queste catastrofi si ripetono regolarmente con ampiezza sempre maggiore e infine conducono al suo violento rovesciamento” (Grundrisse). Che tali catastrofi si ripetano regolarmente su scala sempre maggiore è sotto gli occhi di tutti ed è una ulteriore riprova empirica della correttezza della analisi di Marx. Che il violento rovesciamento non vi sia ancora stato deve essere visto nell’ottica dei tentativi rivoluzionari che dimostrano resistenza della tendenza verso il verificarsi di una realtà alternativa la cui concretizzazione è possibile ma non automaticamente certa. Anche in questo senso l’analisi di Marx si dimostra corretta.
Detto diversamente, le crisi creano le condizioni oggettive per il superamento del capitalismo. Esse sono necessarie ma non sufficienti. Ma, come è ben risaputo, tale superamento richiede anche un elemento soggettivo, la coscienza da parte del lavoratore collettivo della necessità di superare il capitalismo e un suo agire conforme a tale coscienza (Carchedi, 2005). Ma, posta in questi termini, la questione è incompleta. E qui veniamo al secondo aspetto dell’assoggettamento del Lavoro al Capitale: la natura capitalista dell’organizzazione del lavoro e più in generale delle forze produttive e la coscienza di ciò da parte del lavoratore collettivo.
La coscienza della necessità di superare il capitalismo è indissolubilmente legata alla prefigurazione della società che dovrà rimpiazzarlo e quindi di quali elementi della società odierna potranno essere utilizzati, previa opportuna modifica, per la costruzione di una nuova società. In questo senso, la lotta per il superamento del capitalismo pone allo stesso tempo le condizioni per la società che dovrà rimpiazzarlo. Le relazioni di produzione dovranno cambiare radicalmente. Ma le forze produttive? Potrà una società socialista essere costruita sulla base di queste forze produttive or non dovranno anche esse subire una trasformazione qualitativa? La prima ipotesi si basa sulla nozione della neutralità delle forze produttive nel senso che esse non hanno un contenuto di classe. La seconda ipotesi riconosce l’esistenza di tale contenuto e quindi della non-neutralità delle forze produttive. In quanto segue l’attenzione sarà posta su quell’aspetto delle forze produttive che è l’organizzazione del processo lavorativo capitalista. Tale organizzazione è neutra o no? È essa un metodo per aumentare la produttività applicabile anche ad una società socialista (o in transizione verso il socialismo) oppure deve essa essere scartata fin dall’inizio del periodo di transizione in favore di una organizzazione del lavoro radicalmente diversa?
Vediamo quale risposta possiamo estrarre dall’opera di Marx. Per Marx, il processo di produzione capitalista ha due facce: esso è il processo lavorativo, la trasformazione di valori d’uso, e allo stesso tempo il processo di estrazione di plusvalore. Quest’ultimo è il compito di tutto coloro, i non-produttori di cui sopra e che nella stragrande maggioranza non sono capitalisti, che hanno quella che Marx chiama la funzione del capitale, il cui compito è quello di controllare e sorvegliare sia i produttori che se stessi. Ora, la tesi della neutralità delle forze produttive, applicata all’organizzazione del lavoro, si basa in un modo o nell’altro sull’opinione che sia possibile abolire la funzione del capitale mantenendo immutata l’organizzazione del processo lavorativo. La sua efficienza e razionalità sarebbero quindi indipendenti dalla presenza dello sfruttamento capitalista. Il processo di produzione socialista sarebbe quindi uguale al processo di produzione capitalista meno la estrazione di plusvalore (funzione del capitale) cioè sarebbe uguale al processo lavorativo sviluppato dal e nel capitalismo.
Ma l’aspetto coercitivo e quindi capitalista oltre ad essere insito nella funzione del capitale (l’estrazione collettiva del plusvalore prodotto dal lavoratore collettivo) è anche una qualità intrinseca del processo lavorativo. Anche se la funzione del capitale fosse abolita, rimarrebbe un processo lavorativo in cui i lavoratori sono un’appendice delle macchine perché tale processo è basato su un costante e tendenziale frazionamento delle mansioni che dequalifica il lavoro necessario per tali mansioni (e quindi riduce il valore della loro forza lavoro e quindi i loro salari), che espropria i lavoratori della conoscenza necessaria per tali mansioni sia attraverso la separazione del lavoro materiale dal lavoro mentale sia attraverso la dequalificazione del lavoro mentale, che riduce il potere che i lavoratori hanno sul processo lavorativo e quindi sulla propria vita lavorativa, in breve che impedisce lo sviluppo della personalità di tutti e di ciascuno attraverso la propria vita lavorativa. È questo il messaggio di Marx che fu riscoperto negli anni 1970 e che è andato di nuovo perduto.
Anche dei giganti del movimento comunista internazionale come Lenin e Gramsci non si sono sottratti a questa concezione erronea, il primo favorendo l’introduzione del Taylorismo e il secondo accettando che si mantenesse la coercizione, che per lui è sinonimo di coercizione capitalista, nella produzione [2] . È indubbio che l’opinione di Lenin sul Taylorismo fosse stata dettata dalle disastrose condizioni in cui si trovava il giovane stato Sovietico in un ostile mondo capitalista. Tuttavia, come messo in evidenza da Linhart (1976), se è vero che la cosiddetta ‘organizzazione scientifica’ poteva apparire a Lenin come un metodo per aumentare la produzione e la disciplina di una forza lavoro ancora prevalentemente di origine contadina, è anche vero che le ambiguità di Lenin sul Taylorismo risalgono a ben prima, al 1913 e 1914. In quegli anni, in due articoli pubblicati nella Pravda egli tentò di separare l’spetto ‘razionale’ del Taylorismo da dalla sua natura sfruttatrice e coercitiva. (Collected Works, No.18, pp. 594-595 e no.20, pp. 152-154). Queste ambiguità permangono negli anni tra il 1914 e il 1918, come si vede nei ‘quaderni suH’imperialismo’, allora ancora non pubblicati, e riappaiono nella primavera del 1918 quando Lenin perorò per l’introduzione del Taylorismo (Collected Works, no.27, pp. 235-277 e no. 42, pp. 6884). Si può quindi dire che questa fu una costante del pensiero di Lenin.
Questa costante è presente anche in quella breve concezione di Lenin che fu il ‘Taylorismo Sovietico’. Prima, il Taylorismo avrebbe dovuto essere una specie di appropriazione collettiva del sapere da parte di una classe lavoratrice composta in maggioranza da operai non qualificati e quindi non soggetti ad essere espropriati di particolari conoscenze. Poi, grazie al Taylorismo, gli incrementi di produttività avrebbero permesso la riduzione della giornata lavorativa e quindi una crescente e massiccia partecipazione della classe lavoratrice alla gestione dello stato (Linhart, 1976, pp. 110-114). Quello che manca in tale concezione è la percezione che il Taylorismo è una forma di esautorazione del lavoratore collettivo nel processo produttivo e che quindi è impossibile combatterete la esautorazione al livello politico mentre la si mantiene e aumenta al livello della gestione economica. Che un implacabile critico del capitalismo come Lenin potesse sperare di separare il nocciolo ‘razionale’ dagli aspetti ‘capitalistici’ del Taylorismo, rivela che egli pensasse che fosse possibile liberare forze produttive essenzialmente neutrali e usarle per la costruzione del socialismo. Questa spiega come la critica di Lenin al Taylorismo si concentri sul super-sfruttamento, la disoccupazione, la formazione della aristocrazia operaia ma non sulla impossibilità di riqualificare le mansioni attraverso il Taylorismo, non sull’assoggettamento e esautorazione dei lavoratori nella sfera economica e non sulla completa abolizione della loro iniziativa e attività intellettuale.
Ancora più esplicitamente che Lenin, anche Gramsci credeva che “l’organizzazione e la divisione capitalista del lavoro sono … forze produttive neutrali”, anzi che sono favorevoli perché esse abituano il lavoratore alla disciplina (Guastini, in Autori Vari, 1977, p.34). Qui considererò solo gli scritti del 19191920, il periodo dell’ “Ordine Nuovo” (1975a). Indubbiamente, abbiamo qui articoli, la maggior parte dei quali non più lunghi di un paio di pagine, scritte in uno stile giornalistico sotto l’impulso degli eventi incalzanti e influenzati dalle condizioni di emergenza in cui si trovava l’economia italiana subito dopo la Prima Guerra Mondiale. Da questo punto di vista, le similarità con le condizioni del giovane stato sovietico sono ovvie. Non è per nulla sorprendente quindi che anche Gramsci concentrasse la sua attenzione sul bisogno di aumentare la produttività fino al punto di trascurare la questione cruciale della natura di classe della organizzazione del lavoro, e cioè che nessun uso alternativo di tale organizzazione può servire alla costruzione del socialismo. Tuttavia, anche nel caso di Gramsci come in Lenin, ciò è dovuto sia a limiti teorici che alle necessità immediate. Così Gramsci sottolinea giustamente che il socialismo richiede l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione ma non si rende conto che l’abolizione dello sfruttamento e del soggiogamento capitalista richiede anche e soprattutto un altro sistema di produzione.
Non a caso il socialismo per Gramsci è l’universalizzazione del modo di esistenza del proletariato (1975a. p. 412) piuttosto che la sua abolizione. Per Gramsci il socialismo favorisce la crescita quantitativa delle forze di produzione ma non vi è menzione della necessità di trasformarle qualitativamente. Ciò porta a tre conclusioni errate. Primo, la divisione capitalista del lavoro favorisce la solidarietà di classe (1975a. pp. 325-326). Questo è così distante da Marx come è vicino a Durkheim nella sua opera “La divisione del lavoro nella società” (1964, p.389). Secondo, come Lenin, Gramsci è acriticamente positivo nei confronti dei “Sabati Comunisti” la cui organizzazione non differiva dalla tradizionale organizzazione del processo di produzione capitalista. Egli non solo non nota che manca nei Sabati Comunisti qualsiasi tentativo di stimolare la creatività delle masse ma addirittura ne elogia la disciplina da esercito. La natura di tale disciplina non è per lui capitalista: oggi è imposta sui lavoratori dai capitalisti, domani sarà accettata spontaneamente dai lavoratori stessi. Come dice Gramsci: “li principio della coercizione, sia diretta che indiretta, nell’organizzare la produzione e il lavoro, è corretto” (197i, p. 301).
Lenin e Gramsci, dunque, commisero un errore nel ritenere che il processo lavorativo, e più in generale le forze produttive, fossero neutrali? Penso di si. Fu questo un errore obbligato nella congiuntura economica e politica di allora (la necessità di aumentare la produttività, l’aggressione imperialista, ecc.)? Anche in questo caso penso di si, anche se un ruolo importante fu giocato dalla loro inadeguatezza teorica [3] . Comunque sia, oggigiorno le condizioni del lavoratore collettivo non solo nel centro imperialista ma praticamente in tutto il globo sono del tutto diverse. 11 livello di conoscenza della classe operaia e la sua possibilità di gestione della società in tutti i suoi aspetti sono tali da rendere del tutto ovvia l’incongruenza tra qualsiasi forma di organizzazione del lavoro capitalista (e non solo del tipo Tayloristico) e la costruzione di una società alternativa. Ma ad una condizione.
A differenza delle condizioni in cui si trovarono ad agire i movimenti comunisti nei primi decenni del secolo scorso, oggigiorno il lavoratore collettivo è oggettivamente capace di creare una società socialista sulla base di una struttura produttiva radicalmente alternativa a quella capitalista. Non sappiamo quale forma concreta assumerà tale struttura. Ma sia l’opera di Marx che la storia del movimento operaio che i vari movimenti di liberazione e sociali indicano che le sue caratteristiche essenziali saranno non la separazione del lavoro materiale da quello mentale ma la loro unificazione in nuove mansioni che incorporeranno entrambi i tipi di lavoro, non la tendenziale de-qualificazione di tali mansioni ma la loro tendenziale riqualificazione, non la mutilazione della personalità umana e non la repressione delle possibilità di ciascuno insita nelle mansioni pensate dal capitale ma una divisione tecnica del lavoro che sviluppi tutti gli aspetti della personalità umana, non una supervisione e un controllo autoritari (che essi siano il compito dei capitalisti o, come credeva Gramsci, dei lavoratori stessi) ma una disciplina che scaturisce da una cooperazione in cui ciascuno si sviluppa assieme a tutti gli altri piuttosto che a scapito degli altri. È solo sulla base di questa nuova divisione tecnica del lavoro che ciascun componente del lavoratore collettivo può liberare il proprio potenziale creativo e creare una nuova società.
Ciò significa che non sarà l’applicazione delle forze produttive capitaliste ma lo sviluppo di forze produttive alternative a dirigere la costruzione di una società socialista. Ma, a più breve periodo, significa anche che l’unico modo per combattere il capitalismo è la rivalutazione o addirittura la riscoperta nella congiuntura attuale di una politica basata sulla cooperazione, sulla solidarietà e sull’egualitarismo. Significa cioè combattere per riforme, anche le più piccole, con questo carattere di classe alternativo. Questa è la lezione insita nell’opera di Marx. Il fatto che i pur gloriosi movimenti comunisti del 20mo secolo siano sfociati in tragiche parodie del comunismo deriva anche non dal loro aver seguito Marx ma dall’averlo ignorato.
Cosa significa ciò nella attuale congiuntura politica dominata dal pensiero neo-liberista? È ovvio che i lavoratori devono lottare contro le politiche neo-liberiste. Ma dovrebbero combattere per politiche Keynesiane intese non tanto come politiche redistributive quanto come l’appropriazione da parte dello stato di capitale e/o risparmi inutilizzati per fini produttivi e il loro impiego attraverso commesse in attività produttive (gestite sia dallo stato che dai privati)? Un’analisi Marxista di tali politiche rivela tre punti (si veda Carchedi, 2006). Primo, esse possono solo ritardare le crisi che però, quando si avvereranno, saranno ancora più violente di quanto non sarebbero state se non vi fossero state tali politiche. Secondo, i miglioramenti che la classe lavoratrice ottiene dalle politiche Keynesiane sono per lo più pagate dai lavoratori stessi soprattutto in termini di maggiori tassi di sfruttamento [4] . Terzo, questo vale anche per le politiche redistributive che, se a favore del Lavoro, diminuiscono il tasso di sfruttamento ex-post. Quindi, tanto maggiore è tale redistribuzione, tanto maggiore deve essere il tasso di sfruttamento durante il processo di produzione se una crescita del PIL e una maggiore occupazione e salari devono essere conseguiti. La tesi che il Lavoro deve cogliere qualunque vantaggio a breve termine perché come ebbe a dire Keynes “nel lungo periodo siamo tutti morti”, ignora lo scambio tra crisi più leggere ora e crisi più violente nel futuro e tra maggiori salari e occupazione da una parte e maggiore sfruttamento dall’altra.
Tutto ciò significa che il Lavoro dovrebbe rinunciare per attività produttive indotte o attuate dallo stato a favore del Lavoro o a lottare per maggiori salari e occupazione attraverso una migliore redistribuzione del reddito? Ovviamente, no. Significa che il Lavoro non dovrebbe avere illusioni, come gran parte della sinistra Italiana purtroppo ha, circa il potenziale delle politiche Keynesiane per un cambiamento radicale e che quindi dovrebbe lottare per le stesse riforme e miglioramenti ma da una prospettiva differente cioè non sulla base di una analisi Keynesiana e in una ottica Keynesiana (riformista). Da tale prospettiva i miglioramenti per la classe lavoratrice devono essere pagati dalla classe lavoratrice stessa piuttosto che dal Capitale e ciò è giustificato (nella versione più radicale del Keynesianismo) dal fatto che tali miglioramenti sono funzionali al superamento del capitalismo. È a causa di tale analisi e prospettiva che le politiche Keynesiane facilitano la riproduzione del sistema capitalista (sia nel suo meccanismo concreto che come ideologia). È questa dunque la loro natura di classe.
Piuttosto, il Lavoro dovrebbe lottare per politiche di re-direzione degli investimenti (per esempio, la riconversione della industria bellica) e per misure redistributive favorevoli ai lavoratori e quindi per il miglioramento delle loro condizioni di lavoro e di vita domandando non solo che questi miglioramenti siano pagati dal capitale (piuttosto che dal Lavoro) ma anche sviluppando allo stesso tempo politiche economiche e sociali con un contenuto di classe differente e cioè rivolte ad un modo di produzione, distribuzione e consumo basati sulla solidarietà (invece dell’egoismo), sull’uguaglianza (invece della disuguaglianza) e sulla cooperazione (invece della competizione) e quindi anticipando forze produttive (e relazioni di produzione) con un contenuto di classe alternativo. Una utopia? Certamente. Ma anche una utopia concreta, cioè realizzabile perché insita nella realtà e concretezza delle contraddizioni capitaliste.
È questa la prospettiva che, mentre domanda riforme e migliori condizioni di vita e di lavoro per i lavoratori, sviluppa non solo una coscienza diversa ma anche alternative concrete di produzione, distribuzione e consumo anche se in congiunture sfavorevoli solo negli interstizi della società e che quindi è consonante con il superamento del sistema capitalista. Anche dal punto di vista dello sviluppo delle forze produttive e della costruzione di una società socialista, in ultima istanza la questione è: o Marx o Keynes.
NOTE
[1] ↑ Per Marx il tasso medio di profitto cade non perché la produttività cade ma perché aumenta (1967, p.240).
[2] ↑ La discussione che segue di Lenin e Gramsci è presa da Carchedi, 1983, pp. 23-26.
[3] ↑ Per quanto riguarda la superimposizione di elementi congiunturali sulla inadeguatezza teorica non solo di Lenin ma di tutto il partito Bolscevico, si veda Marxistiche Aufbauorganisation, 1973, p.29).
[4] ↑ Per esempio, nella Svezia, lo ‘stato del benessere’ è stato pagato dal Lavoro. Le alte tasse necessarie per il Welfare State furono applicate solo alla classe lavoratrice mentre le tasse sui profitti erano tra le più basse del mondo. 0, per fare un’altro esempio, più della metà delle case fu rimpiazzata dal 1965 al 1975. Tuttavia i fondi vennero dai fondi pensione dei lavoratori piuttosto che da quelli dei capitalisti.
BIBLIOGRAFIA
- Carchedi. G. (1983). Problema in Class Analysis, Routledge
- Carchedi. G. Tra soggettività e oggettività: l’aristocrazia operaia, in Egemonia e politica nell’epoca del confuto di classe globale. Quaderni di Contropiano, Roma, Novembre 2005, pp.37-43
- Carchedi. G. (2006), The fallacies of Keynesian policies, RethinkingMarxism, Voi. 18, No.l, pp. 63-81
- Durkheim. E. (1964). The division of labour in society, Macmillan, London
- Gramsci. A. (1971). Selections from the prison notebooks, redatto e tradotto da Q.Hoare e G.Nowel Smith, New York
- Gramsci, (1975). L’ordine nuovo. Einaudi, Torino.
- Autori Vari. 1977, Gramsci: un’eredità contrastata, Milano, Edizioni Ottaviano
- Lenin. V.l,.’4 scientifìc System of sweating, Collected Works, No.18,
- Lenin, V.L The Taylorsystem-man’s enslavement by the machine, Collected Works, No.20,
- Lenin, V.L The immediate tasks of thè Soviet govemment, Collected Works, No.27,
- Lenin. V.L, Originai version of the article “the immediate tasks of the Soviet govemment”, Collected Works, No.42
- Linhart, R. (1976), Lenine, lespaysans, Taylor, Seuil, Paris
- Marx, K. (1967), Capital, Vol.l, International Publishers, New York
- Marx, K. (1973), Grundrisse, Penguin, Harmonsworth
- Marxistiche Aufbauorganisation, 1973, Die krise der kommunistiche parteien, Munich and Erlagen, Trikont-Verlag