Domenico Vasapollo (in Contropiano anno 21 n°1 – maggio 2012)
Parlare oggi di pianificazione economica potrebbe sembrare lezioso, un mero esercizio teorico, sopratutto se si considera la storia internazionale di questi ultimi venti anni dove gli assetti economici e sociali si sono notevolmente modificati, dove la cosiddetta globalizzazione neoliberista ha di fatto egemonizzato la storia recente, anche attraverso le guerre imperialiste.
Dopo la fine delle esperienze sociali di pianificazione socialista del secolo scorso, sviluppatesi sopratutto nell’est Europa e in Asia, quelle attuali si riscontrano prevalentemente in alcuni paesi dell’America Latina, dove, oltre a quella storica di Cuba al suo 53° anno, si sta sviluppando, attraverso percorsi diversi ma estremamente significativi, in altri paesi di quel continente in questi ultimi anni.
Ma l’attualità di tale processo socio-economico non è dato solo da questo, ma anche da un movimento operaio ancora vivo che ne esprime, in modo teorico, intellettuale, e di pratica politica in vari luoghi del mondo, la sua necessità.
A mettere quest’ultima in evidenza, ancor prima che i suoi fautori, è l’attuale crisi stessa del capitalismo che mai come ora si manifesta in tutta la sua forza come crisi di sistema e non più come contingente o strutturale.
Infatti l’attuale crisi è una crisi economica che si può tranquillamente definire una delle peggiori, se non la peggiore, di questi ultimi cento anni. Una crisi sistemica, ancor più che contingente come qualcuno vuole farci credere, o strutturale. Una crisi che si vuole attribuire alla speculazione finanziaria che avrebbe drogato l’economia. La crisi è una crisi economica che ha il suo motivo nella crisi di accumulazione del sistema capitalistico. Una crisi sistemica quindi, che non ha via d’uscita, perché trova la sua ovvia difficoltà a riattivare un nuovo profittevole meccanismo di accumulazione, mettendo in seria discussione lo stesso modo di produzione capitalistico [1].
Una crisi che si è manifestata violentemente in questi ultimi 4/5 anni ma che viene da molto più lontano, attraversando varie fasi: a partire dagli anni 70 con la fine degli Accordi di Bretton Woods, negli anni 80 con i processi di privatizzazione in molti paesi, tra cui molto in Italia, negli anni 90 con la costituzione dell’Unione Europea e l’inizio della competizione globale e una nuova divisione internazionale del lavoro, sfociata poi negli anni 2000 nella crisi finanziaria, dove la finanza è stata usata come tentativo del capitalismo di risolvere quella economica, producendo la bolla finanziaria che poi è esplosa. La finanziarizzazione dell’economia va quindi interpretata come una scelta del capitale internazionale per tentare di uscire dalla crisi strutturale di accumulazione, o meglio nasconderla. La finanziarizzazione dell’economia non ha risparmiato neanche la natura. Infatti i meccanismi incentrati prevalentemente sull’economia finanziaria, e quindi non direttamente a caratterizzazione produttiva, si sono manifestati nello sfruttamento degli ambienti naturali come ad esempio nel perverso CDM (Clean Development Mechanism) e i suoi CER (Certified Emission Reductions).
Ora, negli anni 2010, stiamo assistendo anche ad una competizione interna all’Unione Europea, dove i paesi centrali della stessa UE stanno definendo le gerarchie, con la Francia, ma soprattutto la Germania, che impongono i loro parametri, e lo fanno attraverso ad esempio i diktat della BCE, e che vogliono imporre oltre ad una struttura sovrannazionale di tipo monetario, anche uno stato sovrannazionale di tipo politico, che vuole incidere sulle scelte di ogni singolo paese, svuotandoli quindi di ogni sovranità.
A questa crisi economica globale si accompagna una drammatica crisi ecologica, che insieme ad esempio a quella alimentare, ma anche a quella di democrazia, la rende imparagonabile a tutte le altre del passato, fino a poter essere tranquillamente definita una crisi di civiltà.
Una crisi ecologica dicevamo, che si manifesta violentemente, soprattutto a livello planetario con la crisi climatica, la crisi energetica, l’impoverimento massiccio della biodiversità, la distruzione degli ecosistemi, la deforestazione.
Ma anche a livello più locale, come in Italia, con il problema dei rifiuti, della mobilità, delle grandi opere come la TAV, solo per fare alcuni esempi, e che si somma a quella planetaria.
Tutto questo prevalentemente per cause antropiche, dove la natura è stata completamente sussunta agli interessi del capitale, facendola diventare esclusivamente un mezzo di produzione, cioè inserendola in quello che, in termini marxiani viene definito il capitale costante, e quindi entrando pienamente nei processi di accumulazione.
Una crisi ecologica e una crisi economica che sono quindi due facce della stessa medaglia, anzi forse la stessa faccia della stessa medaglia, perché una dipendente dall’altra. Una crisi ecologica dalla quale lo stesso sistema capitalista non potrà uscire, perché i mezzi a sua disposizione non lo prevedono, anzi più tenterà di uscire dalla crisi economica e più dovrà necessariamente aggravare la crisi ecologica, rendendo irrisolvibile la stessa crisi economica.
Questa pone una necessità storica di superamento di tale sistema, che l’attuale elaborazione teorica più credibile, oltre all’orientamento politico espresso e che ad essa si accompagna, pone nella pianificazione socialista una realistica alternativa.
Questo è tanto più vero proprio nel momento in cui, come è necessario fare, si mette in relazione l’attuale crisi economica con quella ambientale.
Le risorse naturali e la guerra imperialista Come già detto, ad accompagnare e a rendere unica e globale l’attuale crisi del capitale, in questa e con questa agiscono altre crisi, prima fra tutte quella energetica. Siamo davanti ad una delle più acute crisi energetiche, dove l’estrazione del petrolio e nella sua fase di “picco”, l’aumento della sua produzione è sempre più complicata [2]. Le tecnologie attualmente sviluppate non permettono l’estrazione su giacimenti di difficile accesso. Lo abbiamo visto ad esempio con il disastro nel Golfo del Messico dell’aprile 2010, dove la BP ha tentato di estrarre petrolio a 1500 metri di profondità marina, che ha prodotto uno sversamento durato 106 giorni, con milioni di barili di petro- lio che ancora galleggiano sulle acque di fronte a Luisiana, Mississippi, Alabama e Florida. Da molti è stato considerato il disastro ambientale più grave della storia americana.
Per poter estrarre petrolio da luoghi così complessi e difficili in modo sicuro ci vorrebbero forti investimenti, che il capitale non è in grado di sostenere. La tecnologia del Modo di Produzione Capitalista non può permettersi di tenere conto della sicurezza sociale e ambientale, i costi che ne deriverebbero sarebbero incompatibili con i suoi interessi.
Oppure ridefinire una geografia politica che abbia come fine il controllo sui pozzi già esistenti. A questo abbiamo assistito in questi ultimi anni con i conflitti in Medio Oriente, e recentemente con la guerra in Libia che ha palesato, in tutta la sua chiara evidenza, lo scontro tra i poli imperialisti nordamericano e dell’Unione Europea e sopratutto all’interno della stessa Unione Europea.
Ma oltre alle guerre per il petrolio, anche se meno conosciute ed evidenziate, un’altra risorsa naturale è causa di guerre e conflitti: l’acqua. Nel mondo sono in corso oltre 50 conflitti armati, dal Medio Oriente al Nord Africa e Africa, in Asia come in America Latina, e molte di più saranno le guerre in futuro per questo motivo. Una fra queste, forse la più emblematica é quella tra israeliani e palestinesi, dove i primi impediscono ai secondi l’accesso alle risorse naturali, e in particolare e molto proprio l’accesso all’acqua. Israele infatti riceve ben 2/3 della sua quantità d’acqua, cioè quella che consuma nel proprio paesi, dai territori occupati con la Guerra dei Sei Giorni del ’67, privando così il popolo palestinese di questa importante risorsa.
Nel mondo si calcola che oltre un miliardo di persone non ha accesso all’acqua potabile, che il 40% della popolazione mondiale non può permettersi l’acqua dolce per uso igienico, questo solo per dare alcuni significativi dati.
L’UNESCO indica che nei prossimi 20 anni la quantità d’acqua disponibile per ogni persona potrà diminuire fino al 30%.
L’acqua è un elemento fondamentale per la produzione, circolazione e commercializzazione delle merci. Per questo l’acqua è una risorsa strategica per molti paesi, sopratutto nella competizione globale tra poli imperialisti. Solo per dare alcuni dati: per produrre un computer ci vogliono 20.000 litri d’acqua, per produrre un’automobile ne servono 450.000.
Dove non riesce a controllare l’acqua attraverso le guerre e il neocolonialismo, il Capitale tenta di farlo attraverso le privatizzazioni, come ad esempio stiamo assistendo in Italia.
Il fallimento del Modo di Produzione Capitalista Il Modo di Produzione Capitalista sviluppa le forze produttive per finalizzarle essenzialmente al profitto e all’accumulazione. Per ottenere questo evidenzia i suoi effetti proprio negli elementi principali della produzione: il lavoro e la natura. Le tre forme di competizione che caratterizzano il sistema capitalistico, cioè quella tra capitali che tende a portare gli investimenti verso le attività ritenute più profittevoli, quella tra capitale e lavoro che determina la distribuzione del valore aggiunto tra reddito del capitale e salario, e quella tra lavoratori che permette al capitale di abbassare la relazione salari/produttività, hanno inciso fortemente sulle condizioni dei lavoratori [3].
Hanno prodotto infatti diminuzione dei diritti, flessibilità, precarizzazione, licenziamenti, delocalizzazione, emigrazione. Gli effetti della natura come fattore di produzione si manifestano nell’inquinamento, nella deforestazione, nel dissesto territoriale, nel cambiamento climatico, nella depauperazione, nella produzione eccessiva di rifiuti.
Il concetto di crescita quantitativa illimitata, imprescindibile per il capitalismo, è stato da sempre giustificato da una presunta e pretestuosa fiducia nell’illimitatezza, inconfutabilità e neutralità della scienza e della tecnologia.
Questo a partire soprattutto dalla metà del ‘800 con le teorie di J. S. Mill che si contrapponevano a quelle più attente e realiste di Ricardo, Smith e Malthus. Per Mill infatti il limite non esiste in quanto viene spostato in continuazione dal progresso. Ad esempio: una volta raggiunto il vincolo di scarsità (es. esaurimento delle terre fertili) si attiva spontaneamente la ricerca tecnologica per rimuoverlo o per spostarlo più in alto. La ricerca è sospinta dai maggiori ritorni dell’investimento in condizioni di scarsità, trovando soluzioni per aumentare la produttività delle terre esistenti e, spostando in alto la capacità quantitativa produttiva potenziale senza con questo mettere a coltura nuove terre. Concetti ripresi, sviluppati e enfatizzati dai neoclassici di fine ‘800 e del ‘900, fino ai contemporanei neoliberisti, che nelle loro teorie hanno dato totale fiducia al progresso tecnologico impedendo di considerare i limiti della natura come limite della crescita. Il mercato avrebbe sempre e comunque risolto le scarsità mediante le variazioni del prezzo, incentivando la ricerca, gli investimenti tecnologici e i prodotti sostitutivi.
Non vogliamo entrare nel merito della buona fede di tale teorie o se queste erano addotte, cosa per noi più probabile, per mistificare la necessità incontrastabile dello sfruttamento della natura “costi quel che costi”. Quel che è certo è la situazione insindacabile attuale di devastazione ambientale, prodotto di questo sistema.
La scienza e la tecnologia hanno assunto un ruolo centrale esclusivamente in quanto forza produttiva, diventano prevalentemente un fattore di produzione, quindi parte attiva dei processi di colonizzazione, delle determinazioni dell’ imperialismo.
In questo modo l’ideologia della classe dominante interviene anche nel lavoro teorico e nella finalità della scienza, togliendo a questa lo scopo di conoscenza come necessità del sapere umano e del suo uso controllato dalla politica, ma prima di tutto deve assumere la centralità delle determinanti dell’economia del profitto, quindi con un ruolo di sviluppo della tecnologia in quanto applicazione delle conoscenze scientifiche al modo di produzione capitalista.
Le leggi della massima produttività per l’accumulazione capitalista hanno annullato anche il motivo proprio della scienza e della tecnologia, eliminando lo stesso senso e significato universale della scienza, quindi indipendente dalla tecnologia, e la tecnologia come conseguenza possibile della scienza. Lo sviluppismo capitalista ha dato esclusivo compito universale alla tecnologia, creando in questo modo il concetto di tecno-scienza, impiegando esclusivamente in questo modo la scienza.
In tale meccanismo non c’è posto per i “principi di cautela” e le conseguenze sugli ambienti naturali, come anche sulla salute pubblica, così come sulle stesse ragioni e possibilità di vita delle persone, non possono né devono essere considerati.
La fiducia nel progresso tecnologico, è solo una presunzione che nessuno a priori può stabilire.
La crescita economica quantitativa ha significato ignorare i problemi sociali e la tutela degli ecosistemi.
L’imperialismo e il neocolonialismo hanno evidenziato lo sfruttamento monopolistico ed oligopolistico delle risorse naturali mondiali e come necessità per il tentativo di determinare un nuovo modello internazionale di accumulazione in una nuova divisione internazionale del lavoro, in cui la mondializzazione dei capitali deve essere sempre più funzionale agli interessi delle oligarchie finanziarie.
In questa chiave si deve leggere la distruzione della natura su scala mondiale, lo sfruttamento senza limiti delle risorse energetiche, l’emigrazione, lo sfruttamento globale della forza-lavoro.
E’ così che i cosiddetti Paesi in Via di Sviluppo definiscono lo stesso inquinamento atmosferico come colonizzazione dell’atmosfera.
Basti pensare al disastro legato allo sfruttamento e neo-colonizzazione del Terzo Mondo, in cui non esiste alcun tipo di protezione del lavoro e dell’ambiente, per comprendere quale sia l’effettiva portata del problema.
Come anticipato da Marx e Engels, la competizione globale capitalista ha prodotto problemi drammatici per l’umanità con la continua rincorsa agli investimenti distruttivi della natura: “Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per tutti i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. […] Ai vecchi bisogni […] subentrano nuovi bisogni, che per essere soddisfatti esigono prodotti dei paesi e dei climi più lontani” [4].
Ma anche analizzando alcuni semplici dati: la temperatura media del pianete è cresciuta di circa un grado negli ultimi 50 anni e si prevede che salirà ancora di 1/3 gradi nei prossimi 50, le emissioni di CO2 mondiale è passata da circa 3 tonnellate pro capite a circa 5 tonnellate negli ultimi 50 anni (dati ONU: 20 tonnellate pro capite all’anno negli USA e nell’Australia, 19 tonnellate pro capite all’anno in Canada, 9 tonnellate pro capite all’anno la media europea, 8,7 tonnellate pro capite all’anno in Italia, 5 tonnellate pro capite all’anno in Cina), il consumo di energia procapite a livello mondiale è passato da poco più di 1 tonnellata di petrolio equivalente a 2 tonnellate in 40 anni (dati ONU: 7, 5 tonnellate pro capite all’anno in Canada, 7 tonnellate procapite all’anno negli USA, 6 tonnellate procapite all’anno in Australia, 4 tonnellate procapite all’anno la media europea, 3 tonnellate procapite all’anno in Italia, 1,7 tonnellate procapite all’anno in Cina), c’è stata una perdita di superficie forestale negli ultimi 20 anni di circa 130 milioni di ettari, siamo nella fase di picco dell’estrazione del petrolio, nel mondo vengono prodotti 4 miliardi di tonnellate di rifiuti all’anno (0,73 tonnellate pro capite all’anno negli USA, 0,45 tonnellate pro capite all’anno la media europea, 0,50 tonnellate pro capite all’anno in Italia, 0,11 tonnellate pro capite all’anno in Cina), secondo la IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura-ONU) il 70% delle specie vegetali e il 30% delle specie animali sono a rischio.
L’attuale crisi economica è l’esatta cartina di tornasole del fallimento del sistema capitalista, e la sua irreversibilità lo evidenzia in modo lampante. Come dicevamo, la crisi economica e la crisi ecologica sono due facce della stessa medaglia, anzi forse la stessa faccia della stessa medaglia, perché vicendevolmente una dipendente dall’altra. La scarsa attenzione ai problemi ambientali e alla loro soluzione non è, come qualcuno vuole farci credere, un derivato dell’attuale situazione di crisi per cui non è possibile destinare risorse economiche a questo, ma una condizione necessaria al capitalismo. Il tentativo di uscire dall’attuale crisi richiede l’annullamento di qualunque limite: quello derivante dai diritti, quello derivante dalla democrazia, quello derivante, e molto, dai vincoli di tipo ambientale.
Un fallimento dunque del modo di produzione capitalista anche per se stesso, sia in campo sociale che in quello ambientale. In quello sociale perché non è riuscito a realizzare ciò che le stesse teorie del capitalismo auspicavano, né in termini di accumulazione e quindi di valorizzazione del fattore capitale, né in quelle di benessere diffuso; in quello ambientale con la progressiva distruzione del pianeta e quindi di eliminazione irreversibile di risorse anche a se stesso necessarie.
Il cambiamento radicale diventa improcrastinabile e non puramente ideologico. Un cambiamento che presuppone una transizione ad un modello sociale che abbia come base presupposti nuovi e che sia regolato necessariamente da un sistema di pianificazione economica, dove però necessita un cambio di paradigma che sta nell’anteporre la macroeconomia alla microeconomia, il benessere sociale al mercato, e quindi considerare la natura come patrimonio dell’Umanità (o, se ci piace di più, come bene comune) e per il suo valore in se.
Va detto che anche nell’economia capitalista sono esistite, ed esistono, forme di pianificazione economica a carattere statale, che però si limitano alle decisioni di investimento nei servizi sociali e nelle infrastrutture. Rimangono però immutati i rapporti tra microeconomia e macroeconomia, dove è la prima comunque a prevalere sulla seconda e a condizionarla. Raramente la pianificazione statale nel sistema capitalista ha determinato le forme di investimento in campo mercantile o ha condizionato le decisioni di impresa. L’asse è stato sempre sbilanciato verso una decisiva importanza dell’economia di mercato, dove le imprese hanno imposto le decisioni di investimento nel campo della produzione mercantile. Il mercato è rimasto sempre e comunque il meccanismo di base per l’assegnazione delle risorse economiche e materiali, comprese quindi anche quelle derivanti dagli ambienti naturali.
Quest’asse si è invece in parte sbilanciato in modo opposto, non determinando comunque mai una condizione sfavorevole alla microeconomia, soltanto quando il protagonismo del movimento operaio è stato in grado di determinarlo, come ad esempio è avvenuto in Italia negli anni ’50, ’60, ’70. Va detto però che anche in quest’ultimo caso, e per questo bisogna essere capaci di fare autocritica, l’attenzione ai limiti della natura è stato comunque scarso, sopratutto per l’incapacità delle forze marxiste di saper cogliere la contraddizione capitale-natura all’interno del conflitto capitale-lavoro.
Questo grazie al alcuni errori di interpretazione teorica. Un primo è stato quello di intendere il materialismo storico meramente come rapporto tra uomo e uomo. Un secondo è stato nella lettura di Marx ed Engels, quando parlano della potenzialità della scienza e della tecnica, come fautori dello sviluppo illimitato delle forze produttive, interpretandoli in senso esclusivamente quantitativo. Su questo non si è avuta invece una lettura del significato qualitativo di tali teorie, come sviluppo delle conoscenze in quanto patrimonio e ricchezza dell’Umanità, come liberazione sociale, come strumento nella capacità di adattare i propri comportamenti sociali alla natura, come miglioramento delle qualità fondamentali della vita [5]. Questi errori hanno determinato una scarsa attenzione ai problemi ambientali, o comunque il loro sacrificio, sia nei rapporti di forza all’interno dei paesi capitalisti, anche quando questi erano più favorevolmente sbilanciati verso una pianificazione statale, sia in molte delle esperienze realizzate di pianificazione socialista.
Natura e pianificazione socialista In un processo di transizione al socialismo, dove si rende necessaria una pianificazione economica e sociale come strumento di uguaglianza e di giustizia, sarà possibile uno sviluppo socio-eco sostenibile che potrà essere orientato a nuovi rapporti tra uomo e uomo e tra uomo e natura, quindi alla ridefinizione delle finalità delle forze produttive e dei rapporti di produzione.
Nell’economia socialista il postulato primario sta nella proprietà collettiva dei mezzi di produzione fondamentali, accompagnata dalla proprietà collettiva dei settori produttivi strategici, a partire da quello del credito. Assumere questo concetto è fondamentale anche nel rapporto con la natura. Infatti è un concetto filosofico che incide inevitabilmente nelle conseguenze materiali. Se la natura oltre ad avere un valore di per se (concetto filosofico altrettanto necessario) è anche un bene collettivo, questa conseguentemente sarà vista anche come una necessità per l’Umanità e che va quindi oltre la stessa necessità produttiva: Se a questo si accompagna anche la proprietà collettiva del credito, gli investimenti saranno orientati alla sua salvaguardia, perché non dovranno giustificare nessuna valorizzazione di capitale né produttivo né finanziario. Anche gli investimenti ad esempio nel campo delle energie rinnovabili, che attualmente nel sistema capitalistico sono ritenuti non profittevoli e quindi estremamente limitati, potranno essere possibili, così come quelli in campo scientifico e tecnologico che le accompagnano. La stessa scienza e la tecnologia potranno assumere il loro valore intrinsecamente sociale, come “semplice” crescita delle conoscenze umane, come miglioramento della qualità della vita, come strumento per adattare i comportamenti sociali alla natura, e anche quando assumeranno il valore di mezzi di produzione, essendo di proprietà collettiva, non saranno subordinate all’ottenimento del profitto e quindi si potrà effettivamente applicare anche il principio di precauzione, l’ippocratiano primum non nocere [6].
Oltre a questo postulato primario, nella pianificata socialista vige anche il principio che le scelte politiche e conseguentemente quelle economiche, e quindi i rapporti sociali che ne derivano, saranno orientati verso la massimizzazione del benessere sociale della popolazione. Questo dà una visione completamente diversa alla concezione della natura. Infatti quest’ultima se è, come è, un elemento fondamentale per la vita dell’uomo, dovrà essere necessariamente concepita come necessaria al suo benessere e quindi salvaguardata.
Da questi due principi ne deriva che il livello ottimo nel socialismo coincide con quello massimo e quindi con la minimizzazione di eccedenze. Lo spreco di risorse materiali in produzioni non utili socialmente non ha motivo di esistere, il sovrappiù e lo spreco, utile al sistema capitalistico per ottimizzare la voluta valorizzazione del processo economico-produttivo e il miglioramento dei risultati contabili delle imprese, è eliminato da una organizzazione del sistema di produzione e distribuzione tipico della pianificazione a prevalenza macroeconomica. Questo riduce notevolmente l’impatto ambientale del sistema di produzione in tutte le sue fasi, estremamente alto invece nel sistema capitalistico di eccedenza e consumismo.
Nell’immaginare il futuro verso questa direzione dovremo però anche saper riconoscere gli errori del passato come avvenuto in alcune esperienze di pianificazione realizzata. In URSS ad esempio lo sviluppo delle forze produttive, seppur di proprietà sociale e non finalizzati all’accumulazione capitalista, sono spesso avvenute con gli stessi meccanismi del modo di produzione capitalista, anche se destinate alla liberazione dal bisogno e per la soppressione dello sfruttamento. Questo ha significato soprattutto lo sviluppo, e a tappe forzate, dell’industria pesante, che ha prodotto lo sfruttamento eccessivo della natura per l’approvvigionamento delle materie prime e delle risorse energetiche, inquinamento, sviluppo tecnologico pericoloso per la natura come ad esempio l’energia nucleare. Anche se non direttamente orientato dai meccanismi di accumulazione come quelli capitalistici, lo sviluppo in Unione Sovietica ha spesso assunto un carattere quantitativo e di alto impatto ambientale negativo.
Il tentativo dovrà quindi essere quello di prendere dalle esperienze realizzate la sue parti migliori, sapendole attualizzare, ed essere capaci anche di contaminarle con “nuovi” paradigmi socio-ecologico politici anticapitalisti [7].
Una pianificazione socialista, quindi basata su una democrazia partecipativa, che abbia come fine la soluzione dei problemi sociali, il progresso e lo sviluppo collettivo, e quindi anche la salvaguardia della natura. Un processo di rinnovamento culturale che torni a dare importanza ai valori d’uso, al benessere collettivo, ai diritti dell’umanità, alla solidarietà, all’equità, alla condivisione, alla reciprocità, alla compartecipazione.
Una società che sarà capace anche di superare il semplice rapporto opportunistico con la natura, dove non si tratta di preservarla per sfruttarla meglio e di più, ma vivere in armonia con essa e utilizzarla quando è necessario.
Una pianificazione anche non del tutto centralizzata, accompagnata quindi da forme di decentralizzazione, che possa trovare delle possibili relazioni miste tra centralizzazione e autogestione, pur rimanendo di proprietà collettiva i mezzi di produzione e le decisioni produttive come tipo di prodotti, quantità, prezzi oltre al tipo di servizi pubblici da erogare.
Quindi capace anche di prevedere le risorse da impiegare in base alle disponibilità e alla razionalizzazione in termini economici, scientifici ed ecologici.
Dove, nelle sue varie fasi transitorie, possano essere anche i lavoratori delle singole unità produttive a determinare gli obiettivi, le decisioni ordinarie e quelle esecutive, quindi la gestione. Nella quale i lavoratori possono fruire dei risultati positivi e sopportarne in parte i rischi.
Questo nell’ambito di piani nazionali ma anche locali e settoriali.
Le risorse, anche di tipo naturale ed energetico, possono essere oltreché quelle nazionali e internazionali, soprattutto quelle locali, così come i destinatari delle merci e dei servizi prodotti.
Questo può significare un approccio diverso con la natura, grazie ad un maggior coinvolgimento con il proprio territorio, alle conoscenze approfondite che si ha di questo, alla percezione esatta dei bisogni e delle risorse territoriali disponibili, ad una visione di valorizzazione e di valenza della cultura locale, ma anche ad una visione cosmo centrica della natura stessa.
Un approccio completamente diverso alla produzione, alla circolazione delle merci e delle persone, ai consumi, ai servizi, con l’ottimizzazione dei bisogni materiali e culturali, oltre quelli primari, che quindi non può che avere effetti positivi anche sulla risorse naturali, perche fuori dalla logica del profitto e dell’accumulazione capitalista, e da quella conseguente della sua fase imperialista, che sussume la natura [8].
Tale processo però non può essere interpretato in modo univoco, ma avrà bisogno, come è stato anche nelle esperienze realizzate e in quelle che si stanno realizzando, di un approccio soggettivo di ogni singola esperienza.
“Il socialismo non è uno stato che deve istaurarsi, è un ideale che deve sottomettersi alla realtà. Noi chiamiamo comunismo il movimento reale che annulla e supera lo stato attuale delle cose. Le condizioni di questo movimento emergono dalla premessa ora esistente” [9].
Intanto bisogna avere ben chiaro che è un processo e come tale si realizza nel tempo. Ad esempio non è pensabile l’eliminazione del mercato, almeno in tempi brevi. Anche se non sarà una economia di mercato, almeno inizialmente dovrà essere con mercato, ma questo comunque non determinerà le scelte e gli investimenti di produzione. Come non si possono eliminare in tempi brevi i rapporti monetario-mercantili.
Lo stesso vale per le strade che si possono intraprendere per la sua realizzazione, che devono essere necessariamente connessi alle situazioni particolari di ogni singolo paese. Le specificità del luogo dal punto di vista del suo trascorso storico e dell’attuale economico, come quelle relative alla cultura, alle tradizioni, ai costumi, ma come anche quelle geografiche, geomorfologiche, della disponibilità delle risorse naturali, ne determinano i percorsi. Pertanto anche il rapporto tra pianificazione e salvaguardia degli ambienti naturali può prendere strade diverse, senza però mai negare i valori universali che li legano, cioè la necessità nella società socialista dell’eliminazione progressiva di qualunque contraddizione con la natura.
La contraddizione capitale-natura in una fase tattica di controtendenza La sfida, pertanto, è quella di perseguire una società che vada oltre il capitale, ma, nello stesso tempo, anche quella di dare risposte immediate alla barbarie attuale.
E’ necessario fin da subito sviluppare battaglie di controtendenza, con un programma di fase ben definito a carattere politico sulle compatibilità socio-ambientale, capace di influenzare le scelte economiche.
Su questo si può sviluppare un’alternativa mondiale di lotta che si opponga alla competizione globale e alla mondializzazione del capitale, cioè un progetto con significato popolare transnazionale anticapitalista attraversato dalla democrazia partecipata per la globalizzazione della solidarietà fra i popoli.
Questo è possibile realizzarlo attraverso lo sviluppo di un movimento internazionale dei lavoratori, inteso come movimento degli occupati, dei disoccupati, dei precari, dei popoli originari, dei migranti che sappia costruire una strategia comune di lotta contro le leggi del modo di produzione capitalista.
Cioè mettere in relazione, all’interno di un nuovo processo internazionalista, i movimenti sociali e politici dei paesi a capitalismo maturo che agiscono all’interno della contraddizione capitale-natura, con quelli che lo fanno nella periferia produttiva, in una visione inscindibile delle loro rispettive istanze all’interno del conflitto capitale-lavoro.
I limiti della natura vanno considerati anche rispetto ai reali bisogni e al diritto di autoderminazione dei cosiddetti paesi in Via di Sviluppo, come anche quelli delle nuove periferie produttive, a percorrere le loro strade di emancipazione sociale ed economica.
E’ evidente quindi che necessita una redistribuzione della ricchezza naturale attraverso la sovranità giuridica ed economica di ogni Stato sulle proprie risorse naturali e una nuova geopolitica ambientale basata sulla decolonizzazione del suolo e dell’atmosfera da parte dei paesi cosiddetti sviluppati, a capitalismo maturo.
E’ necessario porre anche le questioni legate alle migrazioni altresì su scala ambientale.
Sono sempre di più i migranti ambientali, cioè persone che non possono più sperare di sopravvivere nelle loro terre di origine principalmente a causa di fattori legati alla distruzione della natura, come quelli della siccità, desertificazione, deforestazione, erosione, mancanza di risorse come, ad esempio, quelle idriche, o a causa di problemi emergenti quali il cambiamento climatico, o in conseguenza di disastri naturali quali cicloni, tempeste e alluvioni.
Effetti sull’ambiente determinati dai paesi industrializzati, considerati sviluppati e avanzati, ma di fatto portatori degli effetti devastanti del loro modo di produzione, dell’attuale modo di essere del colonialismo e dell’imperialismo.
E’ il modo di produzione capitalista quindi il vero e concreto responsabile anche delle centinaia di milioni di persone che emigrano per motivi ambientali da loro provocati. Sono quindi i paesi a capitalismo maturo che anche di queste disperate migrazioni dovranno farsene carico, eliminando le proprie politiche restrittive su questo tema, offrendo ai migranti una vita dignitosa e con tutti i diritti nei loro paesi, garantendo la piena e libera circolazione degli esseri umani.
Va riconosciuto ai paesi della periferia produttiva un danno subito per la perdita di opportunità di sviluppo derivante dalla colonizzazione, dall’imperialismo, dall’imposizione a vivere in uno spazio atmosferico ristretto, dal saccheggio delle proprie risorse naturali. In quest’ottica va ripresa decisamente anche la proposta di azzeramento del debito dei Paesi in Via di Sviluppo, l’assunzione dei costi di trasferimento tecnologico a questi paesi da parte di quelli industrializzati, la costituzione di un Fondo di Adattamento a disposizione dei Paesi in Via di Sviluppo per affrontare i gravi problemi derivanti dal cambiamento climatico, come parte di un meccanismo finanziario di risarcimento amministrato da loro stessi e gestito in maniera sovrana, trasparente ed imparziale.
Non è più accettabile un commercio che, oltre a determinare la compravendita delle natura, permette di vendere o di acquistare monetariamente il diritto alla sua distruzione, arrivando perfino a mercificarlo. E’ importante quindi determinare l’eliminazione di tutti i meccanismi di commercio sui cambiamenti climatici e quelli del mercato del carbonio, come i crediti di emissione (CER) e i crediti forestali (REDD).
È chiaro che solo con una guida e una soggettività politica organizzata i movimenti di massa possono puntare al rafforzamento del percorso di trasformazione realmente in senso alternativo, ponendosi, quindi, immediatamente sul terreno del superamento del capitalismo, anche nel nostro paese. Solo così si potrà dare un senso tutto politico e reale anche a ciò che apparentemente potrebbero sembrare semplici slogan. Essere in grado quindi di costruire (ricostruire) lotte sociali e politiche, nuovi rapporti di forza che siano capaci, già nell’immediato, di imporre la redistribuzione del reddito e della ricchezza a favore dei lavoratori, dei disoccupati, della salvaguardia dell’ambiente, della salute, per sviluppare istruzione, formazione, cultura del sociale e saperi sociali, a partire da una rinnovata critica dell’economia applicata che si configuri come economia socio-ecologica politica dello sviluppo fuori mercato e alternativo al capitalismo. In grado di superare lo sfruttamento sull’uomo e sulla natura, dove la contraddizione capitale-natura è assunta tutta dentro le dinamiche del conflitto capitale-lavoro, voluta e imposta dalle lotte del movimento di classe, per un profondo cambiamento da subito, per il superamento del modo di produzione capitalista nella costruzione concreta dei percorsi del socialismo del e nel XXI secolo.
NOTE
[1] ↑ L.Vasapollo, La crisi del capitale. Compendio di Economia Applicata: la mondializzazione capitalista, Jaca Book, Milano, 2009
[2] ↑ Associazione Marxista Politica e Classe, Pianeta Merce, Roma, 2008
[3] ↑ L. Vasapollo, Il tocororo e l’uragano – La pianificazione socio-economica come risposta alla crisi globale, Zambon, Milano 2011
[4] ↑ K. Marx e F. Engels, Manifesto del Partito Comunista
[5] ↑ G. Nebbia, Ma davvero Marx ed Engels non avevavo capito niente di ecologia?, Liberazione 24 aprile 2011
[6] ↑ C. Modenesi e G. Tamino (a cura di), Fast science, Jaca Book, Milano 2008
[7] ↑ L. Vasapollo e Y. Farah, Pachamama – L’educazione universale al Vivir Bien vol. 1 e vol. 2, Natura Avventura Edizioni, Roma 2010 e 2011
[8] ↑ Rete dei Comunisti, Capitale e Natura, Roma, 2011
[9] ↑ K. Marx e F. Engels, L’Ideologia tedesca
CREDITS
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Autore: Ella Ivanescu, 9 gennaio 2020
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