Spunti per una analisi militante
a cura di NOI RESTIAMO
Di fronte alle trasformazioni che sta subendo l’università sul piano nazionale e visti gli eventi accaduti nell’ultimo anno all’università di Bologna, dall’installazione di meccanismi di controllo nella biblioteca di via Zamboni 36 fino all’intervento della celere all’interno dell’università e alla sempre maggiore chiusura degli spazi di dibattito e mediazione sia sul piano locale che nazionale, riteniamo doveroso porci alcune domande e individuare alcune linee di ragionamento. È a partire dagli anni Novanta che si assiste al progressivo snaturamento del ruolo dell’università pubblica in Italia, dando il via al processo di aziendalizzazione dell’istruzione accademica attraverso varie riforme (di cui il Bologna Process è l’architrave) che hanno sancito l’autonomia degli atenei dal controllo diretto del Miur e il principio di concorrenzialità tra di essi, la creazione di corsi di laurea a numero chiuso, la nascita della famosa struttura 3+2, il riordino dell’attività di ricerca (tra le altre cose spariscono i contratti a tempo indeterminato per i ricercatori), a cui si sommano i drastici tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO).
Alla luce di queste cambiamenti, che tipo di università sta diventando l’Unibo? Su cosa sta puntando nella sua offerta formativa?
Quali sono le conseguenze che si producono in questo scenario?
aggiornato novembre 2017
Nella nostra proposta di analisi abbiamo ritenuto fondamentale porre l’accento su alcuni filoni principali, ritenendoli le chiavi di volta del cambiamento in atto:
- L’Unibo può insegnare quali sono le fondamenta strutturali su cui costruire in questo settore una torre che punta al cielo
- L’offerta di altissima formazione, la narrazione battente sull’autoimprenditorialità e la collaborazione sempre più ampia con soggetti privati ai fini di emergere come polo di eccellenza: sono gli elementi concreti su cui si sta plasmando l’Unibo;
- Il restyling d’immagine, il nuovo volto dell’Alma Mater, che si presenta attraverso giornate di pubblicizzazione di se stessa (andremo poi a vedere di che si tratta), promuovendo al contempo una decisa normalizzazione (violenta) del dissenso interno: in questa cornice si inscrivono le scelte politiche degli ultimi rettorati.
Per tentare di rispondere a queste domande crediamo sia necessario mettere in luce alcune tendenze che abbiamo analizzato negli ultimi anni. Nel concreto e nella gestione politica.
1. Come si struttura un polo d’eccellenza?
In un contesto nazionale che vede un deciso calo di immatricolazioni su tutto il territorio (-20% negli ultimi dieci anni, al netto di un leggero rimbalzo negli ultimi due anni accademici) e un forte taglio dei fondi ministeriali a tutti i livelli dell’istruzione, l’Unibo sembra andare in controtendenza. L’ateneo bolognese registra infatti, al corrente anno, un budget ingente (che supera di molto gli 800 milioni di euro), in attivo e in crescita rispetto anno dopo anno (+20 milioni circa nell’ultimo A.A., provenienti in gran parte dalle attività di ricerca e dalle nuove immatricolazioni). La regione Emilia Romagna supporta questa crescita: 80 milioni e 800 mila euro sono arrivati nell’anno corrente all’Alma Mater, ai campus affiliati e all’ente Er.go. Si registra negli ultimi anni un aumento assoluto degli immatricolati (dal 2015-2016 al 2016- 2017 sono aumentati del 5%, e le previsioni sul corrente anno accademico confermano questo trend), e una maggiore attrattività del polo bolognese evidenziata dall’aumento degli iscritti da fuori regione (dal 36,7% del 2009- 2010 al 45% del 2014-2015), in particolare sono in aumento le iscrizioni all’Alma Mater dopo aver preso la laurea triennale in un altro Ateneo ( negli ultimi cinque anni si è passati dal 28,6% al 44,4% del 2016) e degli studenti iscritti aventi la cittadinanza estera (dal 5,9% del 2009-2010 al 7,2% del 2016) ). Inoltre è interessante notare che il 4,1% degli studenti laureati nel 2016 aveva ottenuto il diploma all’estero, una percentuale che arriva al 6,8% se si considerano i soli laureati in corsi magistrali, in ogni caso superiore alla media nazionale. Una vocazione internazionale confermata anche dai dati sulla mobilità Erasmus: nel 2014-2015 (ultimi dati disponibili) l’Unibo si posiziona al primo posto in Italia sia per numero di studenti in entrata sia per quelli in uscita.
Anche a questo fattore può essere ricondotto l’aumento dei corsi di laurea in lingua straniera. Tra i nuovi corsi internazionali proposti dall’Unibo il progetto “Motorvehicle University” merita una particolare attenzione: si tratta di un accordo tra gli atenei di Bologna, Ferrata, Modena e Reggio Emilia, e Parma e le aziende automotive più prestigiose a livello mondiale come Lamborghini, Dallara, Ducati, Ferrari, Haas, Magneti Marcili, Maserati e Toro Rosso. Una collaborazione che prevede l’attivazione dall’anno 2017/2018 di due corsi di laurea magistrale d’eccellenza (con un numero massimo di 150 studenti totali in un anno, selezionati con severi criteri di merito ): Advanced Automotive Engineering e Advanced Automotive Electronic Engineering, che mirano espressamente da un lato ad attrarre nella regione i migliori studenti universitari di tutto il mondo e dall’altro a formare e inserire nel mondo del lavoro gli ingegneri di domani, i professionisti che progetteranno veicoli stradali e da competizione, i sistemi di propulsione sostenibili e i sottosistemi per le funzionalità intelligenti e gli impianti di produzione all’insegna dell’industria 4.0. Un progetto che conferma sia una visione di un’università al servizio delle imprese sia la spinta all’internazionalizzazione dell’Alma Mater.
In questo senso è possibile rintracciare la provenienza degli studenti stranieri, che per l’ultimo anno accademico di cui sono disponibili i dati (2014/15) erano così ripartiti : Cina (787);Albania (683);San Marino (384);Camerun (302); Iran (230); Israele (121); Moldavia (159);Marocco (157);Ucraina (163); Grecia (160); Russia (115); Polonia (104); Bulgaria (75); Germania (72); Francia (62); Spagna (51); Turchia (51); Brasile (45); UK (24); USA (19).
Da notare l’avviamento dell’istituto Confucio nel 2008 che punta “dall’attrazione degli studenti cinesi a servizi e proposte di lingua e cultura cinese non solo rivolti agli studenti dell’università di Bologna che studiano la Cina sotto vari aspetti disciplinari, ma anche alle forze economiche, sociali, culturali e politiche della Regione che, sempre più spesso, interagiscono con la Cina”.
Si può quindi iniziare a evidenziare una maggiore attrattività per le economie emergenti e per quei paesi che fanno parte della periferia europea, rispetto a una emigrazione degli studenti italiani verso il centro produttivo europeo.
Per comprendere il ruolo di eccellenza che punta a ricoprire l’Unibo non è secondario il fatto che ormai da anni la Scuola di Scienze Politiche organizzi, in partnership con la NATO, il “NATO Model Event” arrivato alla sua undicesima edizione. Un evento che seleziona 35 studenti che, in veste di rappresentanti degli Stati che fanno parte del Consiglio Nord Atlantico, simuleranno la gestione di una grave crisi internazionale e alla fine conseguiranno un diploma congiunto UNIBO-NATO ACT. Il carattere fortemente ideologico di questa operazione si palesa negli obiettivi indicati nel bando di selezione al progetto tra i quali troviamo al primo posto: “Diffondere maggiori conoscenze sulla NATO, la sua missione, il ruolo attuale dell’Alleanza e il suo adattamento al cambiamento delle dinamiche di sicurezza sia a livello globale che regionale”. Non è questo il luogo per commentare approfonditamente la “missione” della NATO e le sue politiche di guerra ma certamente è emblematico (e dovrebbe far riflettere) che queste vengano promosse da un’università pubblica i cui rappresentanti passano molto del loro tempo a professarsi ambasciatori di pace, dove invece scavando appena sotto la superficie appare chiaro come l’insegnamento di professori guerrafondai à la Panebianco non è evidentemente un’eccezione, ma risulta inserito a pieno titolo nelle logiche dell’ateneo.
Altri dati significativi sono quelli relativi all’aumento degli studenti in corso (il 15% in più negli ultimi cinque anni) e il fatto che in Emilia Romagna il 25,1% dei giovani tra i 30 e i 34 anni possieda un titolo di laurea, percentuale ancora molto distante dalla media europea (37,9% nel 2014) ma comunque migliore rispetto alla media nazionale (23.9%).
Il quadro che emerge è quindi quello di una università virtuosa, “meritevole” e perciò destinata a soppiantare le altre. Indicativo in questo senso è il posizionamento dell’Alma Mater nell’edizione 2018 della classifica internazionale degli atenei prodotta da Quacquarelli Symonds che vede l’Unibo passare dalla posizione 208 alla 188 e guadagnare in questo modo un posto nel primo 20% del ranking. Considerando che nel mondo esistono circa 26 mila università L’Alma Mater rientra quindi ora nell’1% dei migliori atenei a livello globale. Si intuisce quindi la non neutralità di questa fotografia. Da un lato la maggior parte degli atenei italiani è caduto in un circolo vizioso in base alle politiche di redistribuzione dei fondi pubblici all’istruzione che, in accordo con il ciclo di riforme degli ultimi vent’anni, si basano infatti su presunti criteri di merito, che penalizzano gli atenei con meno risorse e che quindi non riescono a competere sul piano dell’attrattività. Dall’altro invece l’Unibo ha la volontà politico-amministrativa e soprattutto i fondi per garantire tutta una serie di misure di sostegno allo studente e di potenziamento e miglioramento del proprio operato, generando quindi un circolo virtuoso: migliori servizi e migliore ricerca richiamano, di conseguenza, più studenti e più investimenti, quindi più entrate. Tutto questo alimenta una deleteria competizione tra atenei a livello nazionale ed internazionale, contesto che è diretta conseguenza delle riforme in senso neoliberista dei sistemi universitari europei. Il “prosperare” dell’Alma Mater avviene dunque a discapito di altre università italiane, degradate a università inferiori, di serie B, a tutto svantaggio insomma dei giovani provenienti dai territori considerati periferici nel processo di sviluppo dell’unione Europea, ragazzi e ragazze che non possono disporre di una formazione accademica di qualità, in un contesto in cui l’accesso è già ostacolato dall’aumento dei corsi a numero chiuso, e anche l’Unibo non si sottrae a questa tendenza, dovuta a decisioni di politica economica mascherate con la retorica del merito.
1.1. Un confronto tra piani strategici: La continuità tra due amministrazioni
L’analisi dei dati conferma quelle che sono le indicazioni di carattere politico e operativo espresse nei piani strategici, redatti dall’Unibo ogni due anni.
Il confronto tra l’ultimo Piano Strategico dell’amministrazione Dionigi (2013/2015) e il primo di quella libertini (2016/2018) evidenzia una sostanziale continuità tra le due impostazioni.
Il piano strategico 2016/2018 segna un avanzamento operativo rispetto alle linee di indirizzo tracciate nel precedente corso 2013/2015. Nel momento in cui libertini e i suoi scrivono il nuovo piano (cioè nel 2016) i risultati auspicati nel triennio precedente sono stati raggiunti o quasi. Prosegue l’adeguamento alla fase, il cambio di pelle deU’Unibo al fine di partecipare sempre di più al “gioco” della competizione tra atenei a livello nazionale e internazionale.
Gli obiettivi primari esplicitati da entrambe le dirigenze consistono in:
- dotarsi di una strategia di internazionalizzazione di lungo periodo;
- mantenere o aumentare gli iscritti (soprattutto da fuori regione o internazionali);
- cercare di attrarre gli studenti meritevoli nazionali o stranieri (anche i meno facoltosi) e diminuire i fuori corso;
- migliorare l’impatto della ricerca e potenziare il trasferimento tecnologico sul piano regionale, nazionale e internazionale anche attraverso progetti di imprenditorialità e quindi concretamente aumentare: numero di brevetti, marchi e varietà vegetali con titolarità – cotitolarità depositati dall’ateneo nell’anno, numero di spin-off (accreditati e attivi) e start-up;
- incrementare il numero di progetti di ricerca applicata e il numero di pubblicazioni citate;
- garantire l’equilibrio finanziario dell’ateneo e assicurarsi fondi dai partner pubblici (Miur, Regione) e privati (soprattutto nell’ambito della ricerca, rispetto alla quale le entrate sono aumentate del 3% rispetto al triennio precedente e si auspica un aumento delle borse di dottorato finanziate dall’esterno).
In generale tutta la strategia dell’Unibo è volta a risultare idonea agli indicatori statali ed europei alfine di ricevere il maggior numero di fondi possibile. Rispetto al Piano Strategico 2013/15, in quello del 2016/2018 si nota anche dal linguaggio utilizzato un aumento esponenziale della logica aziendalistica: si parla di partner e competitor, si fa riferimento a standard di produttività per il reclutamento dei professori e dei ricercatori, emerge la necessità di razionalizzare e organizzare gli spazi fisici dell’ateneo al fine di ottimizzare i costi, infine si predispongono sistemi di autovalutazione e monitoraggio periodico per capire cosa sta andando bene e cosa va corretto per mantenere l”’azienda Unibo” competitiva nel mercato internazionale.
2. I nuovi caratteri dell’UniBO: verso l’università d’élite e l’aziendalizzazione
2.1 Imprenditorialità e autoimprenditorialità
Come proveremo a indicare in questo paragrafo, il concetto di “imprenditorialità” sembra essere la colonna portante di alcuni dei progetti di alta formazione messi in campo dall’Unibo, quali la “Bologna Business School” (BBS) e il “Center of digitai business education”, in aggiunta a strutture di supporto di cui si sta dotando in stile “AlmaEclub” e “Almacube”.
Non è un caso che nell’introduzione al Piano Strategico per l’anno 2016- 2018 il rettore Francesco libertini dichiari che “l’Ateneo di Bologna deve diventare sempre più un grande laboratorio di idee da mettere a disposizione dei soggetti che agiscono sul territorio negli ambiti dell’industria, dell’impresa, dell’investimento culturale. Nuovi saperi, al confine tra cultura umanistica, scientifica e tecnologica, sono quanto l’Ateneo sta mettendo al centro della ricerca, mantenendo uno scambio fitto di idee con tutti i soggetti privati che si pongono gli stessi problemi e condividono, con l’Alma Mater, il carattere etico e indipendente della ricerca”. Uno scambio fitto di idee e di fondi con i soggetti privati per una ricerca indipendente, ma da chi?
Guardiamo nello specifico i progetti formativi sopracitati.
La BBS si presenta come “il punto di riferimento dell’Ateneo per l’Alta Formazione manageriale, unendo nella proprio offerta formativa strutture accademiche con il mondo imprenditoriale”. Nasce nel 2000 dalla collaborazione dell’Alma Mater con la Cassa del risparmio di Bologna e la fondazione Guglielmo Marconi, e successivamente assorbe anche la Profingest Management School; tra i “fondatori” della scuola (cioè coloro che si sono impegnati a versare almeno 500.000 euro alla Fondazione!) spiccano anche nientemeno che Unicredit e Unindustria Bologna.
L’obbiettivo principale della Bologna Business School è quello di creare i giovani manager del domani e di rispondere alle necessità delle imprese di una formazione manageriale più competitiva e ispirata a tre principi fondanti di “orientamento internazionale, interdisciplinarietà e integrazione con le realtà produttive”. Uno degli scopi dichiarati dalla fondazione, infatti, è quello di aiutare lo sviluppo delle piccole e medie imprese italiane, contribuendo a formare degli imprenditori all’avanguardia e in grado di competere con la scena internazionale.
Un progetto dal carattere chiaramente elitario visto che conta circa 600 studenti l’anno, con rette annuali a partire da 4.000 euro fino a 27.000 (per i global MBA, ovvero i master di più alto profilo).
In questo senso è ironico che lo statuto della fondazione riconosca il “valore del merito” come “criterio guida nell’applicazione del diritto universale di accesso agli studi superiori” e si vanti di “offrire ogni anno diverse borse di studio per ogni indirizzo formativo” per “incoraggiare il diritto allo studio “ visto che queste per la maggior parte sono solo di tipo parziale e sono assegnate in base a presunti criteri meritocratici e non di reddito, cioè vengono elargite solo ai primi classificati delle prove di selezione. Senza contare che l’altra alternativa proposta è l’indebitamento con dei prestiti studenteschi “ad honorem” in stile anglosassone: insomma il tipo di accessibilità che si può aspettare da un’università privata, peccato che si tratti deU’Università di Bologna.
Il Center of digitai business education è il primo in Europa nella formazione di competenze per il sostegno e la crescita delle imprese su scala internazionale, mettendo al centro le opportunità offerte dalle nuove tecnologie.
Nasce dalla collaborazione della BBS con players internazionali dell’innovazione digitale come Google o IBM, così come quella Yoox nota alle cronache per lo sfruttamento e il licenziamento politico delle sue lavoratrici, e mira a creare profili professionali altamente qualificati in un settore con un’offerta occupazionale in crescita.
Invece strutture come L’AlmaEclub vengono create a supporto “dello sviluppo della cultura imprenditoriale dentro l’Alma Mater. Emblematico in questo senso che nel sito web si dichiari esplicitamente il ruolo che deve avere l’AlmaEclub nel più complessivo obiettivo di sviluppare la così detta “Terza missione” presente nel Piano Strategico. Vale la pena di riportare questo passaggio per intero: “Con Terza missione si fa riferimento ad una serie di strumenti che vengono messi in campo per valorizzare le conoscenze accademiche all’interno della società, favorendo la creazione di nuove imprese, indirizzando in chiave commerciale i risultati delle ricerche (inclusi brevetti, licenze, contratti conto terzi) e favorendo collaborazioni di ricerca o consulenze con aziende. Ogni attività è finalizzata a migliorare la qualità dell’ecosistema, rafforzando il rapporto deU’Università con il proprio territorio e favorendone lo sviluppo economico. L’imprenditorialità accademica, all’interno deUa Terza Missione, ha grande rilevanza: si fa riferimento all’insieme di politiche e strategie che le università implementano per favorire la creazione di nuove imprese daUa ricerca (spin-off accademici) e daUa valorizzazione di idee e progetti degli studenti (start-up accademiche)”.
Coerentemente con questa premessa, l’Alma Mater ha sviluppato anche tramite l’AlmaEclub una propria strategia suU’imprenditorialità accademica, che si basa su alcuni principi: creare consapevolezza dell’imprenditorialità come un possibile percorso di azione per studenti, supportare lo scouting di nuove idee imprenditoriali lato studenti e lato docenti, favorire il supporto organizzativo interno, l’incubazione e l’accelerazione di impresa e, più in generale, creare condizioni per il successo di iniziative imprenditoriali”.
I cantieri sono la principale attrazione del club e consistono in gruppi di lavoro che hanno come obiettivo quello di sviluppare dei progetti (sotto forma di dossier e report) che vengono poi sottoposti alla governance dell’Ateneo e al rettore, per poi diventare “parte integrante della strategia dell’Unibo”.
Un laboratorio tra ricercatori volenterosi e professori volontari per discutere di quel che si addice al Club a supporto dell’imprenditorialità, favorendo l’indirizzo in chiave commerciale dei risultati delle ricerche e creando condizioni per il successo delle nuove start-up: ci si forma all’imprenditorialità e si valorizzano i progetti meritevoli, in una sorta di piccola Silicon Valley emiliana.
A proposito di start-up pensiamo sia necessario aprire una parentesi apposita, vista la grande attenzione che sta venendo riservata dall’Unibo a questo settore. La fitta collaborazione con l’Opificio Golinelli procede nell’ottica sopra descritta, ma con un elemento decisamente importante in più: la volontà di allargare il concetto di imprenditorialità a quello di autoimprenditorialità, espresso da manifestazioni emblematiche come gli Start-Up Day.
Ricordiamo che con il termine start-up si individua una società in fase di avviamento e con un relativamente basso capitale iniziale, il cui oggetto sociale esclusivo o prevalente siano lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico, e che sono solitamente operanti presso cosiddetti incubatoti o acceleratori.
Dopo la Lombardia, l’Emilia Romagna è in Italia la regione che dà i natali al maggior numero di start-up.
Non stupisce quindi che Unibo e Confindustria Emilia abbiano fondato nel 2013 AlmaCube S.r.l. con lo scopo di generare start-up innovative e di probabile successo. E la prima volta in Italia in cui l’Università e l’Associazione di imprenditori costituiscono una società incubatrice di start-up, fornendo da un lato strutture logistiche attrezzate, servizi di supporto e consulenza e ricerca di investimenti privati, dall’altro lato talvolta anche partecipando direttamente alla stessa compagine societaria e condividendone quindi il rischio.
Inoltre è da sottolineare che l’Ateneo di Bologna si è impegnato, con l’introduzione nel novembre 2013 delle “Linee guida strategiche in tema di nuova imprenditorialità”, a supportare la creazione di spin off innovative utilizzando proprio lo strumento della società Almacube. Le spin off ideate devono “valorizzare i risultati di ricerca d’Ateneo” e possono addirittura configurarsi come partecipate, ovvero parte del loro capitale sociale può provenire direttamente dall’Alma Mater o da un altro soggetto, come Almacube, individuato dall’Alma Mater.
Infine, Almacube è anche ente intermediario del programma Erasmus per Giovani Imprenditori, un programma di scambio che prevede per gli aspiranti imprenditori un periodo di lavoro presso un imprenditore esperto, al fine di acquisire le competenze imprenditoriali necessarie. Un mezzo potente di propaganda europeista che si propone “l’obiettivo di informare i partecipanti circa le molteplici opportunità offerte dal mercato unico” e dalla libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali garantita dall’Ue.
Proviamo a tirare le somme. Un’ipotesi plausibile è che l’Unibo predisponga da un lato dei percorsi selettivi e qualificati (per chi per esempio si può permettere 27.000 euro di tasse all’anno alla BBS) per formare realmente gli “imprenditori di domani” e poi dall’altro metta a disposizione di tutti gli studenti l’illusione che con la buona volontà si possa diventare imprenditori di se stessi e arrivare ad essere quell’uno su mille che ce la fa. L’inconsistenza di questa proposta emerge dalle più recenti statistiche sul settore delle start-up elaborate a livello nazionale: la performance generale delle start-up, nell’anno della loro maturità, rimane notevolmente peggiore di quella delle PMI. Mostrano dimensioni di scala molto esigue, e performance economiche non competitive. Pochissimi dipendenti (quando ci sono) e un tasso di ritorno sul capitale iniziale e sugli investimenti estremamente basso. Solo 1’1,5% circa di esse raggiunge l’agognata “exit”, ovvero la fusione o acquisizione da parte di una grande società già operante sul mercato, solitamente un monopolista che ha così esternalizzato i costi di avviamento e il rischio di impresa per lo sviluppo di un nuovo prodotto.
2.2 Connessioni con il mondo del lavoro di massa
In un paese con la disoccupazione giovanile al 40% emerge la necessità di mettere in contatto i laureandi con il mondo del lavoro. L’Unibo se ne occupa promuovendo e organizzando manifestazioni come il Career Day, il Recruiting Day o il Job Meeting (oggi gestito da altri enti), eventi nei quali le maggiori aziende (maggiori anche per numero di sfruttati, precari e sottopagati nel loro organico) vanno a incontrare gli studenti dell’UniBo, mostrando il loro lato amichevole e sperando di trovare qualche giovane promessa a cui vendere un sogno.
Interessante in questo senso il fatto che a questi eventi la maggior parte delle aziende partecipanti (tra cui Lidi, Coop e Ikea) proponga solo contratti a tempo determinato o tirocini. Come se non bastasse sono recentemente apparsi sulla stampa locale i dati che riguardano il Career Day del 2016, il quale ha visto 30 inserimenti lavorativi a fronte dei più di 4.000 laureandi iscritti.
Qui la tesi secondo cui uno dei massimi problemi del mercato del lavoro in Italia sia il mismatch tra domanda e offerta si scioglie come neve al sole, quando è invece evidente che la domanda delle imprese è assolutamente insufficiente.
Di fatto le prospettive per la maggior parte dei laureati sono effettivamente queste (mentre per chi frequenta la BBS può contare su un 85+% placement a 6 mesi), eppure è emblematico che l’Unibo valorizzi questo modello di precarietà e anzi si vanti dei risultati raggiunti in comunicati e interviste ufficiali.
Il carattere ideologico di questa operazione è evidente: abituare e legittimare fin da subito i giovani a quello che sarà, nella maggior parte dei casi, un futuro di precarietà e sfruttamento.
In questo senso non stupisce affatto che al Senato Accademico sia stato approvato un progetto integrato tra le strutture di Ateneo, le scuole medie superiori e l’Ufficio Alternanza dell’Alma Mater per inserire progetti di Alternanza Scuola-Lavoro all’interno dell’Unibo, presso le strutture di Ateneo coinvolte (Dipartimenti, Scuole, servizi dell’Amministrazione generale e di Campus, Musei e Collegio Superiore). Un progetto che, a detta loro, “si inserisce nell’ambito delle attività di Orientamento dell’Ateneo con l’obiettivo di rispondere ad una richiesta crescente da parte delle scuole medie superiori e, al contempo, avviare un processo che favorisca da parte dello studente una migliore individuazione delle proprie competenze e aspirazioni. “ Un progetto che in realtà evidenzia la totale internità dell’Alma Mater alla riforma cosiddetta Buona Scuola, che giustifica la logica alla base dei progetti di ASL, che altro non sono che una fucina di lavoro minorile sfruttato e non pagato. Un progetto in continuità con l’importanza data alla Terza Missione e che sancisce definitivamente che il ruolo della formazione non debba essere di emancipazione ma funzionale al tessuto produttivo e agli interessi delle imprese.
2.3 Valutazione di didattica e ricerca
Uno dei fattori che influisce maggiormente nella divisione tra atenei di serie A e di serie B a livello nazionale riguarda la distribuzione dei fondi destinati alla ricerca, che avviene in base al giudizio dato dall’ANVUR tramite le VQR (Valutazione Qualità della Ricerca): un sistema che, in nome di una presunta oggettività, utilizza criteri quantitativi ampiamente criticati dalla comunità accademica con l’unico risultato di mettere in competizione i ricercatori e le strutture accademiche per la distribuzione delle risorse. Una competizione che da un lato fa sì che la ricerca, da ruolo centrale nella missione sociale degli atenei, venga relegata a mero mezzo per ottenere una valutazione positiva, e dall’altro alimenta il divario nel territorio tra strutture che hanno più strumenti a disposizione per essere finanziati e strutture inserite in un tessuto sociale ed economico svantaggiato. Infatti per la Valutazione della Qualità della Ricerca relativa al 2011-2014 l’Unibo si è classificata al secondo posto a livello nazionale per quanto riguarda il corpo docente.
Con queste premesse si capisce perché nell’elenco nazionale dei dipartimenti di eccellenza 14 provengano dall’Unibo: architettura; chimica; filologia classica e italianistica; ingegneria civile, chimica, ambientale e dei materiali; lingue, letterature e culture moderne; psicologia; scienze aziendali; scienze biomediche neuromotorie; scienze e tecnologie agro-alimentari; scienze economiche; scienze giuridiche; scienze mediche e chirurgiche; scienze mediche veterinarie; scienze politiche e sociali.
Una selezione nazionale basata sulla valutazione fatta da un’apposita commissione rispetto alle domande presentate dagli stessi dipartimenti. Valutazione che è avvenuta tenendo conto per il 70% della valutazione data dall’ANVUR, tramite i pessimi strumenti valutativi già citati, e per il 30% considerando la presentazione di progetti specifici. Tra i dipartimenti ammessi alla selezione nazionale (180 in totale, con un massimo di 15 per ateneo), le posizioni dalla 4 alla 17 sono occupate da dipartimenti bolognesi, tutti con punteggio massimo (ISPD 100). E’ interessante notare il fatto che la presidente della commissione appositamente istituita sia la rettrice della LUISS.
L’importo totale dei finanziamenti sul territorio nazionale è pari a 271 milioni di euro annui, per un totale di 1,3 miliardi nel quinquennio 2018-2022, che andranno riversati nell’apposita sezione del FFO chiamata “Fondo per il finanziamento dei Dipartimenti universitari di eccellenza”. È importante sottolineare che i soldi messi a disposizione consistono in una redistribuzione all’interno dello stesso fondo di finanziamento ordinario, perché nella legge di stabilità non è previsto uno specifico capitolo di spesa a ciò destinato. Questo comporterà un aggravarsi del divario territoriale in quanto 1’87 % dei finanziamenti andrà a dipartimenti del Centro-Nord.
Un altro momento importante per l’Università di Bologna sarà l’esame dell’ANVUR di fine novembre 2017 per l’accreditamento e la valutazione dei corsi di studio e della ricerca.
Per questo esame di valutazione periodica corsi e dipartimenti sono individuati “in modo da ottenere la maggiore rappresentatività possibile dal punto di vista delle aree disciplinari, della tipologia dei corsi, della performance misurata dagli indicatori sulle carriere degli studenti (per i corsi di studio) e da quella relativa all’ultima VQR per i dipartimenti”. La commissione di esperti, dopo una valutazione a distanza dei documenti che corsi e dipartimento produrranno, verrà a Bologna per una serie di audizioni, a cominciare da quella con il rettore e gli organi di governo. L’obiettivo sarà la verifica della corrispondenza dei vari criteri e indicatori che hanno portato alcuni anni fa a una valutazione positiva, che se non dovesse essere confermata caso per caso potrebbe vedere ad esempio la soppressione di alcuni corsi di studio. Quali sono questi criteri? Alcuni di questi sono la regolarità delle carriere e la durata degli studi, l’attrattività e l’internazionalizzazione dei corsi, l’opinione degli studenti, l’occupabilità e l’accompagnamento dei laureati nel mondo del lavoro.
Alla fine dell’esame corrisponde un voto, e un giudizio insoddisfacente equivale alla soppressione del corso o del dipartimento. Una tappa importante per migliorare la “produttività” dell’Unibo.
2.4 Riforma universitaria di domani e diritto allo studio
Per comprendere la direzione politica che sta assumendo l’Alma Mater Studiorum è importante notare che, nonostante i rallentamenti dovuti agli assestamenti nella politica istituzionale nazionale, procede, seppur in sordina, il progetto di riforma dell’università annunciato a ottobre del 2015 con la Carta di Udine, promossa dal PD renziano ma assolutamente riconducibile a tutte le rappresentazioni del centrosinistra, qualsiasi formula esso trovi per manifestarsi e per costruire le sue Uste elettorali.
In questo percorso si inserisce la seconda conferenza nazionale del PD dedicata ai temi dell’università, della ricerca e dell’alta formazione artistica e musicale dal titolo “Più valore al capitale umano” organizzata a Bologna all’Opifìcio Golinelli nel novembre del 2016. Conferenza in cui erano presenti, oltre ai rettori di Bologna, Padova, Udine e Lecce, il presidente dell’Anvur, il direttore della fondazione Agnelli, il vice presidente di Confindustria Education e nientemeno che il (ormai ex) ministro dell’istruzione Giannini.
E interessante osservare come l’Unibo sia inserita a pieno titolo nelle cerchie dirigenti dell’Accademia italiana, non solo un soggetto in campo ma molto di più, e si può ben ipotizzare il ruolo che l’Alma Mater si assegna nella definizione delle linee guida della prossima riforma universitaria, una “buona università” che completi lo sfascio dell’istruzione italiana.
Questo sembra essere una delle prerogative che i poli di serie A hanno tra le loro competenze: influenzare e orientare secondo le proprie esigenze le politiche nazionali.
Un altro aspetto con cui è necessario confrontarsi è la gestione degli ultimi anni dei finanziamenti statali, erogati tramite il Fondo Di Finanziamento Ordinario. La su riduzione è stata scaricata sulla forza lavoro (con blocco delle assunzioni e degli stipendi) e sugli studenti, aumentando progressivamente le tasse universitarie. Il risultato è che ad oggi l’Italia è al terzo posto in Europa per il costo della contribuzione universitaria, preceduta solo dal Regno Unito e dall’Olanda, come conferma il rapporto Eurydice prodotto dalla Commissione Europea. Dal 2005 al 2015 le tasse universitarie sono aumentate in media del 61 per cento, facendo aumentare il gettito prodotto dalla contribuzione universitaria complessivamente di 400 milioni di euro. Se l’aumento si è verificato soprattutto negli atenei del Sud (che partivano da tasse mediamente più basse), anche nel caso di UNIBO l’aumento è stato consistente: la contribuzione media è passata da 1.116 a 1.448 euro, un aumento del 33 per cento. Oltre ai tagli di Tremonti e Gelmini e l’abolizione dei vincoli sulle tasse ai fuoricorso a cura del governo Monti, un ulteriore colpo alle tasche degli studenti viene dalla riforma dell’ISEE del 2015, che ha ridotto il numero dei beneficiari di borse di studio. All’interno di una cornice comunicativa con cui le elites governative cercano di far fronte allo stato disastrato del sistema universitario italiano (che oltre ad essere fra i più cari d’Europa “produce” anche il minor numero di laureati fra i paesi OCSE), la Ministra Fedeli ha annunciato l’erogazione di finanziamenti per introdurre una “no tax area” (ossia tasse universitarie uguali a zero) per studenti con ISEE inferiore a 13.000 euro, e una riduzione per quelli con ISEE fra i 13.000 e i 30.000 euro, la cui contribuzione per legge non potrà superare il 7 per cento della differenza fra il proprio ISEE e la soglia dei 13.000 euro. Per capire l’effetto reale che questo avrà sulla contribuzione media bisognerà aspettare il prossimo anno, soprattutto per comprendere se i finanziamenti stanziati (55 milioni per il 2017) saranno sufficienti a coprire il fabbisogno degli atenei. Di certo, come notava perfino il Corriere della Sera in un articolo di commento alla misura, la platea di coloro che hanno un ISEE inferiore ai 13.000 euro è comunque assai ridotta. Il rischio è che a fare le spese di questa diminuzione delle tasse siano gli studenti fuoricorso e inattivi, che potrebbero vedersi aumentate le tasse da atenei bisognosi di finanziamenti per coprire la no tax area. La cosa interessante da notare inoltre è che gli atenei hanno ampia autonomia in materia, perché possono decidere di innalzare la soglia per coprire un numero maggiore di studenti. E cosi’ ad esempio l’UNIBO ha deciso che tutti gli studenti con ISEE inferiore ai 23.000 euro dovrebbero usufruire della no tax area, confermando la posizione privilegiata degli atenei emiliano-romagnoli per quanto riguarda la situazione del diritto allo studio. Se il dato è certamente positivo per gli studenti coinvolti, non si può non segnalare come anche questo faccia parte della differenziazione fra atenei di serie A, che potranno permettersi una no tax area più alta, e atenei di serie B che non potranno.
L’Alma Mater dunque presenta una situazione in controtendenza rispetto a quella nazionale anche per il diritto allo studio, e non solo per la ragioni suddette.
In Italia infatti la percentuale di studenti in difficoltà economica per effetto della crisi è alta soprattutto nelle università meridionali e fra le donne over 25. In tema di mobilità internazionale, si registra una crescita quantitativa e un ampliamento delle opportunità offerte a livello nazionale ed europeo, anche se le possibilità di accesso da parte degli studenti in condizioni socio-economiche svantaggiate sono dimezzate rispetto agli altri studenti. Infine, tra il 2006 e il 2014 si è registrato un calo del 10% della quota dei laureati occupati provenienti da famiglie con un grado di istruzione inferiore alla laurea, mentre il calo è stato del 3 % per i figli di laureati.
Resta poi la conferma del drammatico divario territoriale nelle scelte degli studenti. Mentre al Nord e al Centro quasi tutti restano nel bacino territoriale di riferimento, al Sud il 19% si trasferisce al Nord e al Centro. Se si considera anche chi lascia il Sud dopo aver conseguito la laurea, il Meridione perde ogni anno il 40% dei suoi giovani, che soprattutto appartengono alle famiglie più agiate.
Veniamo invece a una fotografia del diritto allo studio nell’Unibo. Nel Piano regionale 2016-2017, si legge a grandi lettere che la Regione Emilia Romagna ha sempre investito sulla conoscenza come “leva per la crescita e la competitività del sistema economico produttivo”. Dal confronto con le Regioni che hanno il maggior numero di studenti universitari iscritti, l’Emilia Romagna, tramite l’Azienda Regionale per il Diritto allo studio (Er.Go) registra infatti la maggior spesa per borse di studio e il maggior numero di studenti idonei in Italia (73 milioni di euro netti per l’anno 2014/2015, a fronte dei 58 milioni di Toscana e Lombardia e dei circa 49 milioni del Lazio), nonostante rimanga pur sempre molto al di sotto della media europea. Infatti a fronte di un 8% di studenti italiani beneficiari di borse di studio, la media europea si attesta intorno al 20%, dimostrando come comunque gli investimenti in materia siano insufficienti Bisogna poi aggiungere che i finanziamenti destinati al diritto allo studio in Italia sono rappresentati dal gettito della tassa regionale, dal finanziamento integrativo statale e da risorse proprie regionali, fatto che alimenta le disuguaglianze tra le regioni economicamente più o meno svantaggiante, contribuendo alla polarizzazione tra atenei di serie A e di serie B anche in materia di diritto allo studio.
In totale, nell’anno 2015, TERGO di Bologna ha dichiarato di aver avuto entrate per 130 milioni di euro: 86 milioni provenivano da Amministrazioni pubbliche (tassa regionale, fondo integrativo statale, fondo regionale), mentre poco più di 23 milioni sono entrate extratributarie (proventi da gestione e vendita di beni e servizi, proventi dell’attività di controllo e repressione delle irregolarità, rimborsi e interessi attivi). A questi fondi vanno aggiunti poi le entrate in conto terzi e per partite di giro e il fondo cassa già esistente.
Infine, non è secondario che l’azienda ERGO abbia posto tra gli obiettivi principali quello di “promuovere e valorizzare la dimensione dell’internazionalizzazione”, nella consapevolezza che la dimensione internazionale possa avere una duplice valenza: “da un lato rappresenta un fattore di attrattività di giovani talenti e dall’altro costituisce una componente ormai essenziale della formazione universitaria affinché i giovani si presentino preparati nella competitività globale del mercato del lavoro”. Per questo motivo, un quinto dei destinatari del diritto allo studio (circa 3.700 studenti) ha nazionalità estera. Assolutamente in linea con le “necessità” di attrazione di un polo d’eccellenza descritte in queste poche pagine.
3. Che abito indossa un polo d’eccellenza?
Abbiamo assistito in questi anni a un ruolo attivo dell’Unibo nella costruzione di quell’immaginario necessario a farci digerire lo stato di precarietà e di totale assenza di prospettive lavorative dignitose, in un contesto assiologico produttivista, elitario ed escludente. Un’università asettica e funzionale alle esigenze delle imprese, del tutto chiusa rispetto al contesto sociale circostante, estranea alle dinamiche dei territori. O meglio, estranea alle dinamiche reali che riguardano il tessuto di una maggioranza di sfruttati sfilacciata e irriconoscibile a se stessa, una università lontana anni luce da quei conflitti che quando si producono, facendo sussultare il tessuto sociale, ne dimostrano tutta la sua consistenza e squarciano l’apatia entro cui vorrebbero alienarlo.
Sarebbe però necessario prendere in considerazione la posizione che la formazione universitaria di più alto livello occupa nel nostro presente. Da quando lo Stato ha smesso di essere l’elemento di compensazione del sistema produttivo per diventarne l’appendice infrastrutturale volto a garantire la competizione nell’arena globale, anche la funzione della formazione universitaria ha cambiato il proprio senso e la propria destinazione. La Formazione Superiore da un lato si sostanzia in una educazione dell’individuo privato, soggetto eteronomo che agisce come capitale umano piuttosto che come soggetto politico membro di una comunità, ma dall’altro è essa stessa un soggetto per almeno due ragioni.
Innanzitutto perché contribuisce a plasmare e funzionalizzare lo studente rispetto alla razionalità neoliberale, abituato a pensare nei termini imprenditoriali di costi e benefici, mosso dal criterio valutativo dell’utile, e in secondo luogo perché in secondo luogo mostra di essere investita sempre più di un ruolo attivo nella progettualità politica complessiva delle classi dirigenti.
A questa seconda sfera vanno a sua volta ascritti due fenomeni recentemente osservati all’Unibo.
Facciamo riferimento in prima battuta al contributo diretto nella «definizione dello spazio urbano in una città sempre più rivolta ai servizi e al turismo, e quindi alla messa in discussione del territorio della cittadella universitaria nel bel mezzo del centro-vetrina, (qui la parentesi su piazza Verdi, via Zamboni, caro affitti, cicchetti a 1 euro, ordinanze anti degrado, vigilantes e tornelli potrebbe essere potenzialmente molto estesa), a progetti come il campus alla ex-Staveco (per quanto ormai decaduto) e alla timida volontà di inserirsi nella gentrificazione di alcuni quartieri. Emblematica in questo senso è l’operazione da parte dell’università in sinergia con ERGO, Teatro Comunale e altre associazioni che in pochi mesi ha visto la zona universitaria vittima di una pesantissima opera di restyling con la creazione del Guasto Village e con la riapertura delle Scuderie nella nuova veste di “Future Food Urban CoolLab”. Il primo è un progetto che con i suoi container colorati di fatto blocca l’accesso a una via intera fino alle 18, per poi essere sorvegliato da vigilantes; un progetto che doveva essere temporaneo e che invece è stato prorogato per un anno intero. Il secondo invece spaccia tramite parole “smart” e “green” un modello imprenditoriale che rimanda esplicitamente a quello di FICO e di EXPO. Uno spazio dato in gestione dall’azienda regionale per il diritto allo studio che aspira candidamente a “servizi di ristorazione di alta qualità e non certo cicchetti a 1 euro che possano attrarre non solo studenti ma anche “cittadini e turisti”. Un progetto che rimanda sfacciatamente alla cultura dell’autoimprenditorialità anche grazie al “PoP-Up Restaurant”, spazio dedicato a nuove idee nel campo della ristorazione che saranno incubate in Scuderia per un periodo di test, validazione e mentoring prima di presentarsi autonomamente sul mercato”.
Ma in seconda battuta non possiamo trascurare il ruolo attivo svolto dall’Alma Mater nel fornire supporto ideologico ai temi più caldi dell’agenda politica nazionale, come ben evidente ogni dodici mesi in occasione delle inaugurazioni dell’anno accademico: eclatante fu il sostegno velato ma sostanziale alle politiche militari e di contenimento dei flussi migratori messo in scena a febbraio 2016 con l’inaugurazione dell’Anno Accademico nell’aula magna di Santa Lucia, nei giorni in cui Gentiloni, allora ministro della Difesa, dava il via libera alla partenza di droni dalle basi NATO italiane.
Sotto questa prospettiva diventa chiaro il senso da attribuire all’attenzione che l’Unibo riserva alla tutela della propria immagine. Da un lato manifestazioni auto celebrative sempre più frequenti come il Reunion con cui Dionigi chiudeva il settennato, o le Giornate dell’identità e l’operazione di maquillage attorno alla revisione dello Statuto d’Ateneo (nuovo ma confermatosi pienamente in linea con i dettami della legge 240/2010-Gelmini) con cui Libertini ha presentato il suo mandato tra l’estate e l’autunno. Dall’altro le norme del nuovo Codice Etico e i manganelli della Questura a difesa di ogni anelito di dissenso che possa increspare questa narrazione febee: la chiusura del laboratorio politico e culturale autogestito Bartleby (e le botte ai suoi attivisti), la Polizia in Rettorato, lo sgombero dopo 25 anni dell’Aula C occupata a Scienze Politiche, la violenta repressione delle proteste contro il caro mensa, così seguendo fino al recente emblematico episodio degli studenti caricati dentro la Biblioteca di Discipline Umanistiche, in piena coerenza con il clima che si respira in tutta la città.
Si delinea quindi uno scenario in cui la possibilità di muoversi autonomamente dentro l’università è sempre più regimentata secondo canoni estranei a quella che dovrebbe essere la logica dell’apprendimento, dello studio e dell’insegnamento liberi. La messa a lucido di piazza Verdi e dintorni è solo una cartina di tornasole dei meccanismi in atto: alla sconfitta politica dei contraddittori movimenti studenteschi che si sono susseguiti in tutta Italia per più di vent’anni è seguita una lunga fase in cui dietro le poche isole felici, fisicamente e politicamente intese, sottoposte in passato all’autogestione della componente studentesca è rimasto un vuoto che, come il mare che si ritira, ha lasciato scoperta una melma fatta di apatia quando non anche di nichilismo autodistruttivo. Come da manuale, a questo vuoto le autorità hanno a lungo concesso di esalare fino in fondo i suoi fumi tossici, finché una platea molto più estesa dei soliti lettori del Carlino non ha iniziato a invocare un intervento risanatore, di qualunque segno fosse, purché si facesse qualcosa. A questo punto l’intervento dall’alto era pienamente legittimato dal senso comune. Così ecco che d’un tratto si sono sommate la nuova regolarizzazione dell’accesso agli spazi universitari, l’enorme stretta sull’utilizzo delle aule e delle biblioteche, alla sempre più massiccia gestione privata di quegli spazi stessi funzionalizzati al profitto, dove l’immagine molto “cool” è solo il mezzo e l’abito più adeguato ai tempi correnti con cui veicolare questa intromissione. Un’intromissione che interroga tutti coloro che osservano il presente per modificarlo, perché di fronte all’evidente inadeguatezza dei modelli alternativi proposti in passato dalle soggettività antagoniste, essa è oggi largamente apprezzata dalla comunità cittadina, e prima ancora da quella universitaria, come ultima possibilità a cui aggrapparsi, comunque valida purché scalzi quanto emerso nel vuoto. Se consideriamo che questo processo si è innestato in un momento in cui avvenivano l’espulsione sempre più forte della componente proletaria dagli atenei italiani, contemporaneamente alla più generale e definitiva sconfitta politica delle esperienze organizzate che si erano assegnate il ruolo di rappresentare quella componente in tutta la società (con il conseguente azzeramento del suo portato conflittuale), non è difficile distinguere la quasi banalità della ricetta che ci è stata servita, senza dover far ricorso a chissà quale analisi conturbante e fantasiosa. Una ricetta condita dalla volontà di agire una politica di repressione preventiva da parte delle classi dirigenti, tanto quelle nazionali, come esplicitato dai decreti Minniti, quanto quelle locali, come evidenziato dall’aumento spropositato di ordinanze antidegrado e antimovida: nella perdita di legittimazione popolare del pilota automatico incarnato dai vari governi che si succedono, ogni luogo pubblico, ogni assembramento, ogni momento di condivisione e sia mai di discussione realmente estese devono essere neutralizzati il prima possibile, tanto più se non vi sono soggettività organizzate pronte volta per volta a opporsi a questo tentativo.
4. Conclusioni: l’analisi per l’azione, un passo avanti
In questo quadro generale possiamo leggere la volontà dell’Unibo di classificarsi come polo di serie A all’interno di una concorrenza a livello europeo tra atenei. Il che comporta ai fini di una maggiore competitività: l’adeguamento della sua offerta formativa e dell’attività di ricerca agli standard comunitari, un processo di elitarizzazione dell’istruzione accademica, l’esclusione di un sapere non direttamente funzionale alle logiche di mercato, l’espulsione di tutti quei soggetti che rifiutano questo modello. Un modello sulle cui basi materiali si potrebbe approfondire una vera e propria inchiesta, l’unica in grado di dirci su cosa sarebbe necessario muoversi oggi per organizzare un’inversione di rotta ancorata alla situazione del paese, del capitalismo nostrano e non solo, aldilà del modello di università dei sogni che noi vorremmo proporre per assecondare le nostre attese più oniriche.
Queste sono le linee guida che siamo riusciti a tracciare in queste poche pagine. Crediamo che l’azione e l’intelligenza collettive che si sono manifestate dentro l’ateneo bolognese all’alba della scorsa primavera mettano in luce l’urgenza di rispondere più compiutamente alle domande qui sottese, e che un lavoro più approfondito sia necessario. Siamo una generazione a cui la negazione del futuro viene impartita con la sottrazione del presente e abbiamo bisogno di saperci dotare di strumenti per orientarci tra i dispositivi di dominio e di controllo entro cui ci vogliono inscrivere. Tornare ad affrontare il nodo della formazione significa saper capire qual è la differenza tra ciò che noi vogliamo e quello che invece ci vuole riservare il potere ordoliberale che tenta di funzionalizzare le nostre vite, un potere organizzato nelle cabine di comando che vanno dai vertici di Bruxelles fino ai piccoli sindaci del PD, un potere unito nel disegnare i contorni di un polo continentale che possa reggere una competizione globale sempre più acuta. Non c’è spazio per tutti, solo per pochi eletti: questo è quello che ci stanno dicendo. Come comunisti crediamo che un primo passaggio per comprendere quel che sta accadendo al mondo della formazione stia nell’avviare in tutti i principali atenei d’Italia una fase di studio ed elaborazione. E’ per questo che abbiamo deciso di lanciare un primo appuntamento di confronto 1’1 dicembre a Bologna con studenti politicamente attivi in differenti città italiane.
Per costruire opposizione serve un’azione collettiva.
Per costruire il futuro serve l’intelligenza collettiva. Un passo avanti.