Giacomo Marchetti (in Il complesso militare industriale Europeo – Atti del convegno Eurostop, Napoli 25 gennaio 2020)
«La cosa che manca di più oggi all’Europa, a questa Europa della difesa, è una cultura strategica comune»
Emmanuele Macron, “Discorso alla Sorbona” 26/9/2017
«Abbiamo 16 missioni e operazioni che si stanno svolgendo sotto la bandiera della UE,
con più di 5.000 uomini e donne in uniforme che servono l’Unione Europea. (…)
Abbiamo deciso di aumentare la nostra presenza e di aumentare il nostro livello di sostegno
che stiamo dando ai nostri partner del sahel. (..) è un investimento nella sicurezza della UE,
sia in termini di lotta al terrorismo ma anche al crimine organizzato»
Federica Mogherini,13/ll/2019
«Credo che la nascita di un Fondo europeo per la Difesa sia stato un momento cruciale della Commissione Juncker.
In precedenza, prevaleva la visione nazionale. Ora sta mettendo radici una visione europea»
Thierry Breton, Commissario UE al mercato unico, difesa e spazio, 17/1/2020
L’elezione alla Presidenza di Emmanuelle Macron ha in parte cambiato il ruolo della Francia per ciò che concerne la sua strategia militare, facendola divenire il perno per lo sviluppo complessivo dell’Unione Europea sotto questo profilo.
D’altra parte ha affermato in parte la continuità nella politica effettuata dai suoi predecessori, Sarkozy ed Hollande, in termini di “interventismo” nelle aree che hanno caratterizzato la politica dell’Esagono in Africa ed in Medio Oriente, cercando tra l’altro di porre la diplomazia francese come agente principale in alcune aree di crisi, come quella ucraina o nella risoluzione della questione dell’accordo sul nucleare iraniano.
Partiamo dal primo punto.
“Dribblata” velocemente la prima e vera pietra d’inciampo della sua avventura continentale dopo pochi mesi dalla sua elezione – che ha portato alle dimissioni del generale de Villiers – con l’intervista a “Le Point” a fine Estate, ed in maniera più chiara ed esplicita con il discorso alla Sorbona a fine settembre dello stesso anno, appare chiaro il marchio che il Presidente vuole dare al suo quinquennio rispetto alla difesa.
Le spese militari – come poi articolato nella legge di programmazione militare del periodo 2019-25 – aumenteranno in tendenza fino ad arrivare al 2% nel 2025, e la cooperazione europea è uno dei 4 “grandi principi” che informano tale dispositivo legislativo.
«La Germania è per noi un partner fondamentale. E malgrado il contesto della Brexit, Il Regno Unito resterà un partner essenziale» viene dichiarato nel documento, senza far menzione di altri paesi europei, tantomeno di quelli latini. Segno inequivocabile del concepire l’integrazione della UE anche sul piano militare come una Europa Carolingia.
Nel discorso della Sorbone che è un manifesto del nuovo slancio che Macron vorrebbe dare all’UE la “sicurezza” è la prima delle sei chiavi della “sovranità europea da costruire”.
«In materia di difesa, il nostro obiettivo dev’essere la capacità di azione autonoma dell’Europa complementare alla Nato (…) lo scorso giugno abbiamo gettato le basi di questa Europa della Difesa; una cooperazione strutturata permanente che permette di prendersi maggiori impegni, di avanzare insieme e di coordinarci meglio; ma anche un fondo europeo di difesa alfine di finanziare le nostre capacità e la nostra ricerca (…) All’inizio del prossimo decennio l’Europa dovrà anche essere dotata di una Forza d’intervento comune, di un bilancio della difesa comune e di una dottrina dazione comune»
Un progetto a tutto tondo quindi che in questi anni anche se in maniera non del tutto lineare sta prendendo forma sia all’interno della cornice UE vera e propria, sia per “cooptazione interna” legando alla Francia tutti coloro che desiderano far avanzare questo orizzonte nella cooperazione militare, a cominciare dal terreno pratico della capacità d’intervento che è uno dei fiori all’occhiello della Francia e dalle priorità dell’Esagono.
Così è scritto nella legge di programmazione militare: «questa capacità d’intervento in autonomia o in coalizione, sarà mantenuta al livello più alto, cosa che già oggi ci conferisce una grande credibilità internazionale».
Dei più dei 30.000 militari impegnati nel mondo – tra cui la ragguardevole cifra di 13.000 nel territorio metropolitano – a parte le due operazioni condotte in Medio Oriente Chammal con 1.200 uomini in Siria ed Iraq nel marzo del 2018 e 900 nell’operazione Daman in Libano (e i 300 in Estonia) il maggior contingente è impegnato in Africa, come vedremo nel dettaglio.
E proprio in Africa nel Sahel che il livello di cooperazione militare a guida francese raggiunge i più alti livelli, e mostra allo stesso tempo i suoi limiti per il soddisfacimento dei requisiti dell’ipotizzata autonomia strategica – nei confronti in questo caso degli Stati Uniti prima in Libia e poi nel Mali – e di efficacia di contrasto di una minaccia “asimmetrica” come lo jihadismo, così come nel rapporto con la Germania.
Il Sahel rischia di diventare “L’Afghanistan francese”, soprattutto alla luce delle rivelazioni degli Afghan Papers negli Stati Uniti.
Mentre la minaccia jihadista non scema, monta l’ostilità delle popolazioni locali per la presenza straniera, e perdita di fiducia di coloro a cui si erano appoggiati i francesi (le popolazioni Tuareg del nord del Mali, o più correttamente “Azawidi”) in ciò che in un primo tempo sembrava essere un esito vittorioso del proprio intervento.
In questo contributo non potevamo che accennare brevemente a due aspetti strategici dello strumento militare francese che ne fanno il perno imprescindibile per lo sviluppo della cornice della Difesa Europea qualunque configurazione assuma: la dissuasione strategica nucleare e la marina militare.
Per ciò che riguarda il secondo punto dobbiamo ricordare una scelta precisa di “continuità” operata da Macron, ovvero la nomina a ministro degli Affari Esteri dell’ex-ministro della difesa Jean-Yves Le Drian.
Macron ha scelto una personalità a lui vicina che ha incarnato durante il quinquennio precedente un attivismo politico-militare centrato prioritariamente Sull’Africa e sul Medio-Oriente e affidandogli un dicastero dalla denominazione inequivocabile (Europa e Affari Esteri).
Macron ha assunto ed intensificato il piano d’intervento in Africa dei suoi predecessori (Libia 2011 con Sarzoky, Sahel 2013 con Hollande), ha voluto avere un maggior profilo diplomatico nella crisi Ucraina a cui la Francia era stata relegata a partner junior dalla Germania a cui si era dopo una iniziale titubanza (anche a causa di palesi conflitto d’interessi) “allineata” e continua in maniera rinvigorita il suo interventismo in Medio Oriente.
La Francia è stata una dei maggiori attori del tentativo di “destabilizzazione” del Libano prima della guerra con Israele nel 2006 a causa della sua pervicace volontà di far passare la risoluzione ONU per il disarmo delle milizie della Resistenza, operazione fortunatamente fallita, così come della Siria dove si dimostrerà ancora più aggressiva e risoluta degli Stati Uniti di Obama.
La Francia tende a “smarcarsi” dal ruolo di fedele alleata degli Stati Uniti, non riuscendo a incassare – soprattutto nei confronti della Germania – quel ruolo diplomatico che le spetterebbe, sebbene sa che sia ancora dipendente da questi come dimostra l’Africa, o vede i propri interessi minati dalle scelte di questa, come recentemente successo in Siria con l’annuncio del “ritiro” nord-americano dal Nord della Siria o con l’uscita unilaterale degli Stati Uniti nel Maggio del 2018 dall’accordo sul nucleare iraniano.
Nel nord della Siria ha dovuto “distruggere” la propria base, condivisa con la Germania, rispetto all’Iran ha rinunciato – a causa delle possibili sanzioni statunitensi – a importanti progetti economici con la Repubblica Islamica. Nell’ottica di questo “sganciamento” dovuto anche alla delega che Trump intende dare ai Paesi dell’Alleanza Atlantica nel compimento della politica statunitense che si deve interpretare la recente e famosa affermazione di Macron secondo cui la NATO sarebbe in stato di “morte cerebrale”.
L’interrogativo è ben formulato da Frédéric Bozzo nel suo saggio: “La Francia e il mondo da Hollande a Macron. Dalla resilienza alla riconquista” [1]: «può la Francia, sola o quasi in Europa, fare da partner degli Stati Uniti in materia di impegni militari nei differenti punti caldi dell’arco della crisi senza rischiare di logorarsi o di apparire come mera comparsa accanto all’attore protagonista?»
La force de frappe “europeizzata”
Con la Brexit, la Francia sarà l’unico Paese dell’UE a possedere una forza di dissuasione nucleare.
La Francia è stata uno dei Paesi che il 7 luglio del 2017 ha votato contro il Trattato per la proibizione delle armi nucleari all’ONU, approvato da 122 Paesi su 192. Come ha specificato in una nota il Ministero degli Esteri d’Oltralpe: «La Francia non ha partecipato ai negoziati per questo trattato e non intende aderirvi».
L’Esagono ha scelto di potenziare con il quinquennio Macron i due assi principali che compongono i punti di forza della dissuasione nucleare francese, come la forza oceanica e la componente aerea.
Bisogna ricordare che complessivamente lo strumento militare francese è modellato proprio sul profilo nucleare della sua capacità di dissuasione, con un riverbero preciso sull’articolazione di tutte le sue componenti, compreso il complesso militare-industriale.
Nel suo discorso di auguri pronunciato alle forze armate nel gennaio 2018 Macron ha precisato il suo pensiero: «Da oltre cinquanta anni è la chiave di volta della nostra strategia di difesa. So che su questo tema ci sono stati molti dibattiti. Tutti legittimi, ma ora sono chiusi. La dissuasione è parte della nostra storia (…) e tale resterà».
La legge di programmazione militare incarna perfettamente questa tendenza con il settore nucleare che beneficia di un’attenzione finanziaria particolare, con un aumento dei fondi da 3,9 miliardi di euro nel 2017 a 6 miliardi nel 2025.
Fra il 2019 e il 2025 alla dissuasione saranno dedicati 37 miliardi.
Se non vi è discussione sulla strategia francese di potenziamento di questo strumento in Francia, rimane ancora incerto come questo si configurerà all’interno del rapporto con la Germania nello sviluppo dell’Europa della Difesa, tenuto conto dell’uscita della Gran Bretagna, partner privilegiato in UE della Francia sul nucleare.
Se la Germania ha “seguito” la Francia, allestendo nel novembre del 2017 una cooperazione strutturata permanente in ambito UE, facendo fare un certo balzo in avanti al processo di avanzamento “in prospettiva” del profilo militare dell’Unione, si è allo stesso tempo aperta una discussione nella Germania stessa sul nucleare.
La necessità di aprire il dibattito su questo tema è partita nel novembre del 2016 con un articolo di Berthlod Kohler sulla “FAZ”.
Qualche mese dopo il politologo Maximilian Terhalle si è espresso con forza sullo “Tagessspiegel” sulla necessità di sviluppare una Bomba tedesca.
Si è aperta quindi una vera e propria Kulturkampf tesa a “resettare” l’opinione pubblica tedesca, allineandola agli imperativi di armamento anche nucleare della UE.
L’ipotesi che può connettere la capacità francese con le aspirazioni tedesche all’interno dell’architettura europea sembra essere quella espressa dall’allora portavoce in Parlamento della CDU Roderich Kiesewetter per una sorta di “europeizzazione” della force de frappe francese garantendo l’accesso per la Germania all’ombrello nucleare a lui più prossimo.
Sullo sfondo del disimpegno statunitense, nel gennaio del 2018, il politico tedesco ha sostenuto: «se gli Stati Uniti non vogliono più fornire questa garanzia, l’Europa ha ancora bisogno della protezione nucleare a scopo di deterrenza».
Se l’UE vuole acquisire un’organica autonomia strategica, l’acquisizione della deterrenza nucleare ne è una sua premessa.
Tenendo conto del fatto che nel bilanciamento di potenza dei global player planetari questa rimane uno strumento principe anche per il raffreddamento dei possibili conflitti bellici: la cosiddetta “escalation per la de-escalation”.
Lo strumento militare marittimo, asse della “Francia Mondiale” e della futura potenza europea sui mari
Potenza d’equilibrio a vocazione mondiale. La Francia è l’unico Paese dell’Unione Europea ad avere una estensione territoriale in tutti gli Oceani, attraverso i Territori dOltre Mare e la sua zona economica esclusiva.
Parigi può vantare circa 11 milioni di chilometri quadrati di dominio marittimo, ovvero la seconda zona economica esclusiva al mondo dietro a quella degli Stati Uniti, pari a 21 volte il territorio metropolitano e al 2,3% della superficie globale.
La Marina è il perno della sua proiezione strategica ed è asse portante della strategia di dissuasione nucleare, in grado di intervenire in 72H nei mari di mezzo mondo, opera in 5 missioni che per importanza sono equiparabili a quella principale di protezione del territorio metropolitano.
La sua forza d’attacco – allo stesso tempo anima della deterrenza nucleare francese – è costituita dal sottomarino che dopo la Brexit sarà l’unico a propulsione nucleare della UE e dalle portaerei a propulsione nucleare, di cui è la Francia l’unica al mondo insieme alla US Navy ad averne in dotazione.
Rispetto alla Royal Navy britannica ha un chiaro vantaggio in termini di proiezione anfibia e aereo mobile.
Le 17 fregate di primo rango di cui dispone sono la spina dorsale della sua flotta. Il Canale di Suez costituisce all’oggi il collo di bottiglia su cui poggia buona parte della postura geostrategica della Marina francese nel Mediterraneo.
Il canale è il portale obbligato per accedere alla smisurata regione Indo-pacifica, teatro degli scontri in prospettiva tra gli attori globali dove si concentrano i territori oltremare francesi (e relativi punti strategici della sua Marina), insieme al grosso del dominio marittimo transalpino.
«E mentre nella regione monta la competizione, non è difficile scorgere su chi puntino a Parigi e la sua flotta: accordi con Nuova Dehli per la cooperazione militare in campo logistico nell’Oceano Indiano, esercitazioni navali con la marina di Tokio in Asia orientale e commesse multimiliardarie con Canberra per il rinnovo della flotta sottomarina della Marina Australiana. Cè da prepararsi a difendere lo status di potenza dei mari della Francia» [2], cioè in nuce dell’Unione Europea.
La “guerra sui mari” nel quadrante asiatico riguarda da vicino l’UE. Un altro aspetto non trascurabile, sia per ciò che concerne la creazione di futuri “campioni europei” nel settore marittimo che del controllo delle rotte – oltre in quello aereo-spaziale – nel civile/ militare è il settore dello shipping dell’Esagono. «La marina da guerra francese è moderna e ampliamente dispiegata nel mondo, così come si registrano compagnie di navigazione di peso come la Cma-Cgm e una tradizione cantieristica d’avanguardia (soprattutto nelle unità più complesse come sottomarini, portaerei nucleari, o navi posacavi)» [3].
I droni armati “francesi” in Africa oggi, made in UE domani?
Insieme a USA, Gran Bretagna, Israele, la Francia è uno dei Paesi che utilizza dei droni armati, utilizzandoli nel teatro operativo africano nell’operazione Barkhane., che vedremo in seguito nel dettaglio. La decisione di “armare” i droni era stata presa nel 2017.
Dal 2016 la Francia dispone permanentemente di un sistema di tre droni MQ-9 Reaper, fabbricati dalla statunitense General Atomics, altri sei apparecchi in grado di volare fino a 12 mila metri saranno dispiegati all’inizio di quest’anno, equipaggiati con quattro bombe a guida laser GBU-12 da 250kg ciascuna, con cui sono già equipaggiati i Mirage 2000 dispiegati in Sahel, poi, verso la fine del 2020, dei missili terra-aria Hellfire.
Florence Perly ha specificato nel comunicato del 19 dicembre dell’anno scorso – in cui si dava notizia del dispiegamento avvenuto dei droni armati – che: «Le loro principali missioni rimangono la sorveglianza, l’intelligence, vocazione principale dei droni, ma potranno essere anche estese all’attacco».
È dal 2014 che la Francia utilizza i droni per la sorveglianza dei gruppi jihadisti in Sahel.
Il parco dei droni francesi aumenterà a 12 nel 2025, e successivamente a 24 nel 2030
Un contributo essenziale alle missione Barkhne per ciò che riguarda il potenziale bellico dei droni è stato fornito fino ad ora dagli Stati Uniti che hanno ad Agadez in Niger una base che ospita 600 militari americani e che funziona da piattaforma di sorveglianza nel Sahel. Nell’ultimo pesantissimo attacco jihadista ad una base dell’esercito nigeriano a Chinagoder a 10 km dal confine con il Mali, costato la vita il 9 gennaio a 89 persone, tra cui 71 soldati, l’intervento dei Reaper Usa “armati” e dei Mirage 2000 è stato fondamentale.
Gli Stati Uniti stanno pensando ad un ridispiegamento complessivo delle proprie truppe, come ha confermato Mark Milley, Capo di Stato Maggiore, a margine di una riunione della NATO a Bruxelles svoltasi nella seconda settimana di gennaio.
Se nessuna ipotesi trapela delle opzioni che verranno sottoposte al Ministro degli esteri nord-americano M. Esper, non è da escludere un disimpegno dal teatro africano, tra cui il Sahel.
Gli Usa hanno 7000 soldati delle truppe speciali “a rotazione” in africa, ed in una quarantina di Paesi del continente contribuiscono alla formazione di personale militare o sono attivi in cooperazioni militari con le forze locali come in Somalia. Per Barkhane svolgono soprattutto un ruolo logistico.
Come ha dichiarato Milley le forze USA: «potranno essere ridotte e ridirette, sia per migliorarne la preparazione delle capacità negli Stati Uniti, sia verso il Pacifico».
Nel recente incontro di Pau il 13 gennaio che ha ri definito e rilanciato l’impegno francese – allargandolo ad altri Paesi europei non ancora coinvolti – insieme ai Paesi del G5 del Sahel, le capacità statunitensi sono state considerate da Parigi “non sostituibili” e non rintracciabili nei partner europei di cui dispone. Questo possibile “vuoto” potrebbe essere colmato in un prossimo futuro dal complesso-militare europeo.
Tenendo conto dei vari progetti dell’industria spaziale europea per lo sviluppo dei droni a fini militari, in grado di dotare di questo strumento militare la UE, e della sempre maggiore “europeizzazione” della presenza militare in Sahel sia attraverso “l’internazionalizzazione” della missione Barkhane, sia con l’implemento delle missioni della UE – in termini di amplificazione, estensione e finanziamento – non è peregrino pensare che sarà proprio l’Africa uno dei primi teatri della sperimentazione pratica sul campo di battaglia dei nuovi prodotti della difesa europea che ha nell’industria aereo-spaziale una delle sue punte di lancia.
Il Sahel tra jihadismo, occupazione militare occidentale e nuove avventure dell’UE
La presenza militare francese in Sahel data dal 11 gennaio 2013, con il lancio dell’operazione «Servai» con 1700 soldati, aerei ed elicotteri nel Mali, nel periodo di massima espansione della minaccia jihadista nel Paese, con Timbuktu in mano agli jihadisti e la capitale stessa minacciata.
Bisogna ricordare che oltre ad un dispiegamento della Marina Militare del tutto significativo su un ampio tratto di mare dell’Africa centrooccidentale nel Golfo di Guinea con la missione carymbe, oltre al Sahel la Francia ha 350 militari in Senegai, 950 in Costa d’Avorio, 350 in Gabon, 1,450 a Gibuti in Africa.
La missione della UE EUTM viene lanciata nel febbraio 2013, riunisce 620 militari di 28 Paesi europei, con una missione di formazione dei militari del Mali senza partecipare ai combattimenti, la sua sede è il Campo di Koulikoro, 60 km a nord-est della capitale del Mali Bamako. Nel maggio 2018 tale missione è prorogata di due anni dall’UE, con un budget di 59,7 milioni di euro, con una mission estesa alla formazione della forza del G5 del Sahel, e quindi non solo del Mali. EUTM fa parte dell’approccio globale dell’Ue verso la sicurezza e allo sviluppo nel Sahel, insieme ad altre due missioni nella regione: la Eu Capacity Building Mission (Eucap) Mali, che sostiene gli sforzi dello stato maliano per garantire l’ordine costituzionale e democratico e Eucap Sahel Niger, che ha come obiettivo la lotta al crimine organizzato e il terrorismo nel bacino del Niger.
Il 1 luglio 2013, avviene il dispiegamento di Minusma, la Missione dell’ONU in Mali successiva alla Missione Misma, con la presenza di circa 13.000 caschi blu delle Nazione Unite, provenienti da 50 Paesi. Il 1 agosto del 2014 inizia «Barkhane», estesa al Sahel-Sahara, una zona vasta come l’Europa, comprendente Mali, Mauritania, Niger, Burkina Faso, e Ciad.
Barkhane è la missione con il più ampio contingente francese all’estero con 4.500 uomini impiegati, 7 caccia, una ventina d’elicotteri, una decina d’aerei da trasporto e 500 veicoli blindati, oltre ai droni che abbiamo ricordato.
Si appoggia su 4 basi principali: N’djamena (Ciad), Niamey (Niger), Gao (Mali) e Ougadougou (Burkina Faso) e un’altra decine di basi avanzate.
Gao, dove sono presenti 50 militari estoni che saranno presto raddoppiati, sarà la base della task-force composta da truppe speciali europee che a regime dall’estate di quest’anno conterà militari provenienti da 12 Paesi e di cui i primi ad arrivare saranno estoni, cechi, belgi, norvegesi.
Nel novembre 2015 viene presa dai paesi del G5 del Sahel la decisione di creare una forza congiunta, scelta riattivata nel 2017, ma che all’oggi per una serie di difficoltà di vario genere non ha prodotto i risultati sperati.
Questo è il bilancio dell’impegno europeo in Sahel che fa il Ministro degli Esteri francese J-Y Le Diran in un intervista a “Le Monde” di metà dicembre:
«Nella missione di formazione della UE nel Mali, tutti sono là. È uno strumento importante, che avevo messo sulla tavola prima della stessa operazione Servai. Ha formato 10.000 soldati del Mali. Ha al suo interno quasi 700 militari europei, di cui 12 francesi. All’interno di Minusma, sono presenti i tedeschi in modo significativo. Gli Olandesi sono là. Per Barkhane ci sono i britannici, gli estoni, i danesi con noi nelle forze di combattimento. »
Bisogna ricordare che l’Italia è presente in Niger nella missione Eucap Sahel Niger con due unità. Una missione approvata dal parlamento il 17/1/2018 fino a 470 unità.
La Germania è presente in Sahel con 1000 effettivi, ed ha inviato 350 soldati a Gao, dovè presente una base militare francese permanente, nel Mali.
Ad un’opinione pubblica distratta e indotta a volgere il suo sguardo “altrove”, è sfuggita la recrudescenza del fenomeno jihadista nell’Africa Sub-sahariana di questi mesi e i possibili sviluppi della riconfigurazione della presenza militare della Francia nel suo tradizionale “cortile di casa” con un maggiore impegno di differenti Stati della UE.
Solo considerando il Niger, nel giro di un mese due attacchi jihadisti a dicembre e a gennaio sono costati la vita a 167 persone in due basi prima a Inat (71 morti) e poi a Chinagoder (96 morti).
Della presenza militare francese si è tornato a parlare a fine novembre a causa della morte il 25 di quel mese di 13 militari dell’Esagono rimasti uccisi in una collisione tra due elicotteri.
Da lì a poco Macron ha chiamato i Paesi del 5G ad una chiarificazione del loro impegno e della richiesta fatte alla Francia convocando d’urgenza un vertice – rimandato di circa un mese a causa del lutto per la prima strage di soldati del Niger di Inat – che si è svolto poi a Pau in territorio francese, città dove aveva sede la base da cui proveniva una parte dei miliari morti il 25 novembre.
Si tratta della possibile applicazione pratica della ricetta francese per far fare un balzo in avanti nella costruzione della potenza militare dell’Unione Europea che si faccia le ossa sul campo. Si sta parlando di un’area geografica grande quanto il continente europeo.
Da Servai a Tacouba…
Il Ministro della Difesa francese Florence Parly, di ritorno da recente un tour nella regione, aveva annunciato prima della morte dei 13 militari francesi dei rinforzi composti da truppe speciali europee per una nuova operazione che dovrebbe prendere l’avvio il prossimo anno, ribattezzata: Tacouba da integrare alle Forze del G5 del Sahel.
Le trattative sono awenenute non direttamente in ambito Ue ma con i singoli Stati membri, non conferendo probabilmente – così come per l’Operazione Barkhane – il profilo di una missione UE strictu sensu.
Barkhane è di fatto un’operazione internazionale che impiega soldati estoni, elicotteri britannici, beneficia del sostegno logistico tedesco (e Nord-Americano) dell’arrivo imminente di militari danesi ed in cui è evocata una partecipazione spagnola, tutto naturalmente sotto comando francese.
L’ Operazione Barkhane, iniziata l’agosto di 5 anni fa, conta 4.500 militari francesi dispiegati in 5 Paesi: Mali, Mauritania, Burkina Faso, il Niger e il Ciad per un costo di 700 miliardi l’anno.
Venuta un anno e mezzo dopo la missione Servai in Mali – iniziata nel gennaio 2013 quando circa la metà del territorio del Mali era sotto il controllo degli jihadisti e delle milizie Azawad (Touareg), quest’operazione di “stabilizzazione” non sembra aver raggiunto gli obiettivi formalmente dichiarati.
Le parole trionfali del Generale francese Patrick Bréthous del 2016 alle antenne di RFI: noi abbiamo impedito la creazione di quello che chiamiamo un Sahelistan, appaiono oggi eccessivamente ottimiste.
Barkhane avrebbe dovuto accompagnare lo sviluppo la formazione di singoli eserciti nazionali dei Paesi del Sahel e della loro affermazione. Un orientamento politico culminato con il lancio nel luglio del 2017 della forza congiunta del “G5 del Sahel”, di fatto braccio armato di una entità politica creata qualche anno prima, e che ha ufficialmente iniziato ad operare a fine ottobre di due anni fa – con circa 5000 uomini di 5 Paesi: Mali, Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Niger – nella zona delle “tre frontiere” lì dove Mali, Niger e Burkina Faso s’incontrano – per rendere sicuri i confini, epicentro della minaccia jihadista.
Un progetto ambizioso sotto il profilo militare quello del “G5” – a cui l’UE ha inizialmente contribuito con 50 milioni di Euro (un quinto delle spese totali allora stimate) in grado di mettere in comune uomini e mezzi sotto lo stesso comando, per lottare contro il terrorismo dentro i perimetri dei cinque Stati.
Un conflitto, quello contro la minaccia jihadista, che ha assunto una maggiore dimensione internazionale da quando il 4 ottobre del 2017 quattro soldati americani – insieme a tre soldati nigeriani – sono stati uccisi in Niger in prossimità della frontiera con il Mali ed altri due sono stati feriti ed evacuati in un ospedale militare tedesco grazie all’intervento di elicotteri francesi presenti nella missione Barkhane. Gli Stati Uniti disponevano di circa 800 soldati in Niger, gestivano una base aerea di droni nella capitale del Paese, Niamey, mentre una seconda base all’epoca dell’attacco era in costruzione a Agadez, nel nord del Paese, ufficialmente per delle missioni di consulenza e addestramento.
La Francia ha stimolato da tempo l’amministrazione Trump per un maggiore contributo alla “lotta al terrorismo” nella regione trans-Sahariana.
In realtà i successi della missione Servai, si sono risolti in una mutazione delle strategie jihadiste da una guerra di posizione ad una guerra di movimento, passando ad azioni “mordi e fuggi” ormai assai complesse e piuttosto micidiali dal punto di vista militare, in grado di colpire sia militari che civili, e che fanno uso di EID (cioè dispositivi esplosivi auto-costruiti), moto e Pick-Up per gli assalti, taglio della comunicazione digitale, oltre ad una estensione territoriale della minaccia.
Inoltre gli Jihadisti si integrano alla popolazione delle zone più periferiche assumendone l’amministrazione dove l’autorità dello Stato vacilla o è del tutto assente, soprattutto nei confronti dei conflitti tra comunità.
Gli esempi più eclatanti dell’escalation di questi conflitti tra comunità sono il massacro nel villaggio del Mali di Oussagou nel marzo dello scorso anno con 160 morti circa e quello di Arbinda in Burkina che ha mietuto più di 60 vittime, dove i cosiddetti “gruppi di autodifesa” comunitari sono divenute milizie della guerra etnica.
Inoltre gli eserciti dei Paesi del Sahel coinvolti si sono visti discreditati agli occhi della popolazione civile a causa delle angherie – tra cui esecuzioni sommarie – commesse da queste truppe, come stato il caso degli avvenimenti di Boulikessi nel maggio di due anni fa.
Una sempre maggiore ostilità è stata riservata alla presenza militare straniera, sia quella delle forze francesi sia di quelle sotto l’egida ONU, la Minusma, che opera con 13 mila uomini e di cui il Ciad fornisce uno dei maggiori contingenti.
Come ha ammesso Patrick Youssef, responsabile regionale in Africa per la Croce Rossa internazionale in un intervista a “Le Monde”: “Il Burkina Faso è divenuto parte integrante della crisi al Sahel”.
Le stime degli esperti francesi parlano di circa 2000 jihadisti, di cui tra i 1000/1400 nel solo Mali.
Roland Marchal, studioso citato da “Mediapart” afferma esplicita mente: «questi gruppi jihadisti non si sviluppano per delle ragioni ideologiche. Propongono delle risposte a delle situazioni locali di dominazione e di spoliazione». In un contesto di rifiuto del potere centrale e di marginalità economica, dove il potere corrotto è collegato a doppio filo alla Francia, «gli europei devono accettare che il centro della crisi non è lo jihadismo ma il funzionamento degli Sati nel Sahel».
Mali, Burkina Faso, Niger
In generale i recenti attacchi in Mali ed in Burkina Faso, Niger mettono in evidenza l’incapacità di stabilizzare la situazione da un lato e dall’altro le capacità offensive della “guerriglia” jihadista.
Il 1 novembre, l’organizzazione dello Stato Islamico del Gran Sahara (EIGS l’acronimo francese) ha attaccato la base militare del Mali di Indelimane, uccidendo ben 49 soldati dello Stato africano: si tratta di uno dei più micidiali attacchi degli ultimi anni.
Secondo una fonte di “Le Monde” tre gruppi composti da un centinaio di assalitori in moto e in pick-up hanno preso d’assalto all’ora di pranzo la postazione dei soldati del Mali dopo avere sequestrato un mortaio e si sono dissolti poi verso il Niger.
L’EIGS aveva rivendicato l’attacco mortale con un IED ad un blindato leggero francese che era costato la vita a Ronan Pointeau, che faceva parte della scorta di un convoglio di approvvigionamento per la base di Gao e per i punti d’appoggio dell’esercito francese nel Nord del Mali.
Il campo di Indelimane è uno delle tre punti installati nella regione del Liptako-Gourma nel 2018 con l’aiuto delle forze della missione ONU Minusma e di Barkhane, espressione della volontà di riprendere il controllo della zona.
Un mese prima di quest’attacco l’esercito del Mali aveva conosciuto due altri pesanti perdite, di circa 40 soldati in circostanze simili, nelle basi di Mondoro e Boulkessi, vicine alla frontiera con il Burkina Faso. Le principali coalizioni jihadiste presenti in Mali sono affiliate une ad Al-Qeida e l’altra allo “Stato Islamico”, affiancate nel centro del Paese a dei gruppi di “autodifesa” responsabili di attacchi contro altre comunità. Il GSIM è stato creato ufficialmente nel marzo del 2017, un alleanza responsabile dei maggiori attacchi nel Sahel, guidata dal touareg del Mali Lyad Ag Ghaly, capo di Ansar Dine. Questa alleanza è stata messa nel settembre del 2018 sulla “lista nera” americana delle “organizzazioni terroriste” e comprende oltre ad Ansar Dine, F’Emirato del Sahara” d’Aqmi, il gruppo dell’algerino Mokhtar Belmokhtar – precedentemente legato ad Al Qeida. E “Katiba del Macina” del predicatore radicale Peul Amadou Koufa, attivo nel centro del Paese.
Appare evidente che l’attuale dispiegamento dei militari del Mali coadiuvato dalle forze internazionali invece di essere un “punto di forza” nel tentativo di ripenetrare con una presenza stabile si sta trasformando in un “nervo scoperto”.
In Burkina Faso, 38 persone sono state uccise mercoledì 6 novembre, in un attacco ad un convoglio che trasportava i lavoratori impiegati nella miniera d’oro di Semafo di proprietà canadese, si tratta del più micidiale attacco dall’inizio delle violenze jihadiste da cinque anni a questa parte.
Il convoglio colpito dall’imboscata era composto da 5 autobus scortati militarmente di personale vario che lavora al sito di Boungou, di proprietà della società canadese, posto a circa una quarantina di km da dovè avvenuto l’attacco.
Si tratta del terzo attacco in due anni che colpisce i lavoratori di questo sito e le loro scorte, dopo quello dell’agosto e del dicembre di due anni fa che hanno ucciso 11 persone.
Nonostante gli appelli dell’autorità la compagnia che possiede una dozzina di miniere nello stato africano, non è riuscita a mettere in sicurezza il personale in questo caso soggetto ad un attacco “complesso” che è riuscito ad invalidare il dispositivo di scorta composto da militari e da mercenari.
Sono circa 700 le vittime della violenza jihadista dal 2015 ad oggi in BF che non sembra fermarsi.
La capitale è stata già colpita tre volte da attacchi di una certa rilevanza, con i media occidentali che sono stati costretti ad interessarsi del fenomeno quando il 15 gennaio del 2016 un attacco ad un hotel ed ad un ristorante del centro città ha ucciso 30 persone, per la maggior parte turisti occidentali.
Più recentemente, il 19 agosto scorso, l’esercito del Burkina ha subito il suo più micidiale attacco con almeno 24 morti in un assalto contro la base militare di Koutougou, nel Nord del Paese.
Il Niger è per le sue importanti miniere di uranio nel centro del Paese e per i giacimenti di petrolio e gas nella parte orientale, un terreno di contesa tra differenti attori geo-politici ed in cui sono presenti differenti investitori esteri.
A sud al confine con la Nigeria è stata costruita grazie ad investimenti cinesi la raffineria di Zinder, alla Cnodc cinese è stato concesso un permesso di sfruttamento nel sud-est sopra l’ex area del lago di Ciad nella regione di Diffa, mentre a nord-est sempre la Repubblica Popolare ha investimenti commerciali e nel settore energetico.
La Francia che con la sua multinazionale Areva sfrutta le miniere d’uranio ha 4 basi militari temporanee dislocate in Niger ed una permanente a Niamey, dovè presente la prima base statunitense dopo quella costruita recentemente nel centro del Paese ad Agadez.
Le pressioni dei gruppi islamici si concentrano nella zona dei “tre confini” dove tra l’altro il 4 ottobre 2017 sono morti 4 soldati statunitensi e 4 nigeriani, e che ha conosciuto le più micidiale conseguenze dell’offensiva islamica negli ultimi mesi.
Il presidente del Niger, tra coloro che aveva ribadito la necessità della missione francese con più forza tra i leader della “Francia Africana” propendeva per una coalizione internazionale anti-jihadista sul modello di quelle formatisi in Siria ed in Iraq.
La fine della Jamahiriya libica e l’estendersi del cancro jihadista
La guerra della NATO in Libia del 2011, fortemente voluta dalla Francia e Gran Bretagna, le cui conseguenze per il possibile sviluppo in tutta l’area dello Jihadismo erano ben presenti non solo alle cancellerie di questi due Paesi ma anche ha Washington – come dimostrano una serie di mail “declassificate” inviate a Hillary Clinton -, è stata di fatto l’incubatore (dopo il conflitto iracheno) del terrorismo islamico in tutta la regione.
Sarebbero almeno 14 i Paesi che hanno visto svilupparsi lo “jihadismo” come prodotto diretto di questa guerra e che ha avuto un micidiale effetto boomerang anche nella cittadella europea, con numerosi attentati nel Vecchio Continente.
Il primo Paese a farne le spese è stata la Siria che ha visto affluire da quello che è diventato uno dei centri di addestramento e armamento della jihad globale almeno 3000 uomini – funzionali alla defenestrazione di Bashar Al-Assad – che per la maggior parte avevano raggiunto Jabhat al-Nusra, legata ad Al-Qeida e le Katibat al-battar al Libi (KBL) una entità legata all’ISIS, fondata da militanti libici.
Usati per porre fine alla Libia di Gheddafi ed al suo progetto di sviluppo pan-africanista – tra cui la creazione di una valuta africana che avrebbe rivaleggiato con il Franco CFA – , gli jihadisti hanno trovato un centro in cui affluire – si calcola che circa 1’80% dei combattenti della costola locale dello Stato Islamico non siano libici ma provengano da altri Stati africani – e un retroterra attraverso cui espandersi nelle regioni limitrofe del Maghreb e del Sahel.
Concentrandosi sul Sahel nella zona compresa tra il deserto del Sahara al Nord e la Savana sudanese al Sud, il conflitto libico ha aperto un flusso darmi e di uomini nel Nord del Mali, contribuendo ad esacerbare un conflitto etnico tribale che covava dalla fine degli anni ’60 prevalentemente tra coloro che erano tradizionalmente dediti alla pastorizia, i coltivatori e i cacciatori, rompendo quel difficile equilibrio riconquistato negli anni successivi all’indipendenza anche a causa degli effetti del cambiamento climatico che ha ulteriormente impoverito la regione.
Nel 2012, gli alleati locali d’Al-Qeida del Maghreb Islamico prendono il controllo di alcune città strategiche del Nord del Mali: Gao, Kidal, Timbuctu…
Sono i primi segnali tangibili di come la “guerra in Libia” abbia scoperchiato il vaso di Pandora tuttora non richiuso e non richiudibile nelle forme neo-coloniali fino ad ora decise dall’occidente e dai suo alleati autoctoni nell’area.
Dalla strage di militari francesi all’incontro di Peu
L’incontro a Peu ha rivisto il quadro della missione, e solo i fatti ci diranno se questo sarà un vero punto di svolta come annunciato da Macron.
Prima di tutto verrà concentrata l’azione militare in ciò che sembra essere l’epicentro dello Jihadismo in Sahel, cioè la zona delle “tre frontiere”, lì dove L’Esercito Islamico ha ucciso più di 300 soldati da settembre.
Secondariamente verrà dato vita ad un “comando congiunto” tra la missione francese Barkhane e il 5G del Sahel, con una vera e propria “coalizione per il Sahel”, composta oltre che dagli stati già citati anche da tutti i « Paesi e le organizzazioni che vorranno contribuire» come viene detto nella dichiarazione congiunta finale.
Gli eserciti nazionali e la ricostruzione dell’autorità dello Stato avranno maggiore peso, oltre alla «messa in atto di progetti di sviluppo», approntando così una strategia sia militare che civile.
Le autorità francesi invieranno altri 220 soldati oltre a quelli già dispiegati ed a Giugno sarà convocato un incontro per fare il punto sugli avanzamenti della situazione.
L’UE complice di Al-Bashir in Sudan
Una delle pagine più nere dell’attuale neo-colonialismo della UE in Africa del Sahara-Sahel è stato l’appoggio ai “cani da guardia” del regime del despota Al-Bashir, essendo il Sudan una dei perni dell’Unione nella strategia di contenimento dell’immigrazione, a cominciare dalle RSA, ex “janjaweed”, usate anche dall’Arabia Saudita nella guerra in Yemen ed ora presenti anche in Libia.
Questa “milizia”, cioè le RSA – i cui membri sono originari di tribù arabe delle regioni rurali talvolta provenienti da fuori il Sudan – ha avuto un ruolo particolarmente importante nella storia del Sudan contemporaneo, perché è stata usata come “forza contro-insurrezionale” durante la crisi in Darfur dal decennio
scorso ed ha esercitato il terrore sulla popolazione locale. È poi stata utilizzata come una sorta di polizia di frontiera per il controllo dei flussi migratori, con il benestare e l’appoggio economico della UE che ha fatto del paese africano durante l’era Al-Bashir, uno dei pivot del contenimento dell’immigrazione fuori dai confini continentali con il cosiddetto “processo di Khartoum” e il progetto “ROCK” (Regional Operational Centre in Khartoum).
Vediamo nel dettaglio.
L’Action Pian stabilito a Vailetta nel novembre del 2015 durante l’incontro euro-africano mette nero su bianco tale strategia, ed è attuato attraverso la “UE-Horn of Africa Migration Initiative”, meglio conosciuta come “il processo di Khartoum”, lanciato nell’ottobre del 2014 come forum per il dialogo politico e la cooperazione tra gli stati membri della UE e alcuni stati africani del “Corno d’Africa” e dell’oriente africano: una iniziativa di una Commissione Europea che si occupa di immigrazione (DG HOME) e dell’Italia.
In effetti si è trattato della cooptazione di alcuni paesi africani nella propria strategia neo-coloniale dei propri fini.
I finanziamenti, ammontano a 215 milioni di Euro per il Sudan nellAprile 2017.
È stato il numero 2 di ciò che è stata l’autorità militare transitoria del Sudan dopo-Bashir, il leader della RSF Mohamed Hamdan, conosciuto anche come “Hemetti” che dichiarò ad Al Jazeera: «Una volta che abbiamo concluso di occuparci della ribellione nel Kordofan del Sud e nel Nilo Blu e nel Darfur, ci siamo rivolti immediatamente al deserto del Sahara, in special modo dopo le direttive impartite dal presidente della repubblica per combattere l’immigrazione illegale».
Da forza “contro-insurrezionale” a gestrice dei flussi migratori quindi grazie alla UE, utilizzando i metodi mutuati dalla precedente esperienza maturata sul campo.
Sebbene puntuali denunce hanno costretto a far negare alla UE che finanziasse direttamente o indirettamente le RSF, l’evidenza dovuta alla loro incorporazione nei propri corpi di sicurezza e le parole sempre di “Hemmeti” smentiscono di tali affermazioni.
Nell’aprile del 2018, poco più di un anno fa quindi, “Hemmeti” dichiarava candidamente: «facciamo il lavoro al posto della UE», e minacciava costantemente di “togliere il tappo” qualora i soldi non fossero continuati ad affluire nelle loro tasche.
Bisogna ricordare che la pratica “predatoria” nelle popolazioni che doveva reprimere, e il business aurifero sono altre fonti di finanziamento di queste “milizie”, divenute un esercito di mercenari che si prestano al miglior offerente.
Nell’opacità e impossibile check della destinazione finale dei fondi, oltre che allo strapotere di cui godevano, è facile ipotizzare che ne fossero i principali beneficiari.
Il ROCK prevedeva la cooperazione delle polizie di differenti paesi della UE (tra cui UK, Francia e Italia), mentre gli ufficiali sudanesi prendevano le proprie informazioni proprio dai temuti e famigerati “servizi di sicurezza”: i NISS, così come dagli RSF stessi.
Un progetto di cooperazione di intelligence di scambio e condivisione di informazioni su temi legati al traffico di persone e la criminalità internazionale comprendeva apparati di potere usati come cani da guardia del regime, conosciuti per l’uso sistematico della tortura e la carcerazione dei dissidenti.
La polizia tedesca in particolare era incaricata di fornire materiale ed addestramento a chi di fatto rappresentava l’assicurazione sulla vita, nonché la maggiore fonte di spesa, del regime, tra l’altro condividendo le informazioni del FRONTEX e dell’interpol.
Grazie Yup grade fornito della polizia tedesca, il braccio armato del regime poteva fare meglio il suo lavoro sporco.
Possiamo condividere il giudizio del giornalista Martin Plaut contenuto in “The European Union’S role in Sudanese repression” da cui abbiamo attinto e a cui rimandiamo per le fonti:
“Che la UE abbia, o non abbia, finanziato gli RSF non significa che il sostegno della UE non abbia avuto un impatto diretto sul campo. È servito per rafforzare agenti della sicurezza, ed è stata la causa dell’avere adottato nuovi obbiettivi che hanno molto poco a che fare con la protezione di coloro che emigrano attraversando i territori in questione. Questi sviluppi si sono sommati all’abilità del governo sudanese di controllo della propria popolazione, fornendo intelligence e informazione al regime”.
Tradotto: dietro la retorica dell’aiuto ai migranti durante il loro percorso migratorio, che è la versione propagandistica con cui sono stati dipinti tali progetti all’opinione pubblica occidentale vi era l’aiuto ad uno dei più liberticidi e sanguinari regimi della regione…
Il Sudan quindi, del dittatore deposto lo scorso 11 aprile svolgeva la stessa funzione, mutatis mutandis, che l’Unione Europea fa svolgere tra l’altro al Marocco, alla Turchia, al Libano e ai propri “alleati libici” rispetto ai flussi migratori, di fatto normalizzando dei regimi che sono agli antipodi di quelli che sarebbero i valori democratici propugnati ad ogni piè sospinto dagli ideologi dell’Unione, con una pratica che rispolvera le mai accantonate vestigia coloniali.
NOTE
[1] ↑ In La Francia di Macron, AA.VV, Il Mulino, novembre 2017
[2] ↑ “La Marina non vince quasi mai ma proietta la potenza francese”, Alberto De Sanctis,
[3] ↑“La Francia alla ricerca della Grandeur sui mari”, Jean Dufourcq, «Limes» n.7/2019
CREDITS
Immagine in evidenza: Bastille Day Parade
Autore: Chairman of the Joint Chiefs of Staff, 14 luglio 2017;
Licenza: CC BY 2.0
Immagine originale ridimensionata e ritagliata