Sergio Cararo (in Contropiano anno 29 n° 1 – gennaio 2020 Lo stallo degli Imperialismi)
Era il 1996 quando Helmut Khol, in una conferenza all’università di Lovanio disse che “l’integrazione europea sarebbe stata una questione di pace o di guerra nel XXI Secolo”. Un concetto ribadito dallo stesso Khol dieci anni dopo in una intervista al Corriere della Sera. E ancora dieci anni dopo, il 22 febbraio del 2015, durante un colloquio in Vaticano, è stata Angela Merkel ad affermare che “La pace in Europa? Non è un fatto scontato”.
Ed era il 2001 quando in una intervista ad un settimanale italiano Henry Kissinger affermava testualmente: “Mi preoccupa il fatto che quando l’Unione Europea agisce come soggetto unico negli affari mondiali molto spesso, e sarei tentato di dire, sempre, agisce in opposizione agli Stati Uniti”. “Sarebbe un errore” ha proseguito “un errore capace di portare gradualmente a una frattura tra le due sponde dell’Atlantico in un mondo sempre pieno di problemi” (Panorama, giugno 2001).
La spinta al polo imperialista europeo
Per decenni siamo stati cullati da una narrazione che opponeva al liberismo brutale del modello anglostatunitense il modello “renano”. E possiamo dire che fino al 1989/91 – la dissoluzione del campo del socialismo reale – e fino a metà degli anni Novanta, la dimensione “progressiva” della Comunità Europea era in qualche modo rimasta coerente con questa narrazione.
Ma dalla seconda metà degli anni Novanta, l’egemonia ordoliberista di radice tedesca si è via via imposta sull’Unione Europea fino a un episodio ben sottolineato dal Premio Nobel Peter Handke quando ha affermato che con la guerra della Nato e la disgregazione della Jugoslavia è morta l’Europa ed è nata l’Unione Europea. Quella aggressione ha segnato uno spartiacque e un fattore di accelerazione delle ambizioni del costituendo polo imperialista europeo e della competizione con quello statunitense egemone dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Gli altri fattori di accelerazione, che hanno portato Mario Draghi nel 2012 a liquidare definitivamente il modello sociale europeo o modello renano come “diverso” dal liberismo brutale anglostatunitense, sono stati indubbiamente nel 2000 la nascita dell’Eurozona e l’avvento dell’Euro come moneta internazionale; la bocciatura del Trattato Costituzionale europeo nel 2005 che ha costretto a ristrutturare l’architettura istituzionale attraverso il Trattato di Lisbona nel dicembre 2007; la crisi finanziaria del 2007/2008 che ha dato un sprint impressionantealla ratifica di trattati sempre più stringenti in materia economica e di bilancio a livello di eurozona ed Unione Europea; il conflitto tra Georgia e Russia sull’Abkazia e l’Ossezia nel 2008 che ha palesato le divergenze all’interno della Nato tra Usa e Ue; infine la Brexit nel 2016 che ha tolto di mezzo l’ostruzionismo britannico ad ogni progetto di centralizzazione della politica militare a livello europeo.
Con la marginalizzazione e la fuoriuscita della Gran Bretagna dal consorzio europeo, lo strumento di interferenza degli Stati Uniti su questo terreno è venuto meno. Sono rimasti solo i paesi dell’Europa dell’Est a tenersi aggrappati alla Nato in funzione antirussa, ma sul piano economico la loro subalternità con la “kerner Europe” si va facendo più forte dei vincoli della Nato.
L’esempio di un paese non europeo ma molto vicino come la Turchia è lì a dimostrare come i legami con la Nato non siano più tali da impedire ambizioni, alleanze e soluzioni ben diverse e assai distanti da quelle tradizionali.
A che punto è arrivata quindi la competizione tra un imperialismo in declino come quello Usa ed uno in formazione come quello europeo?
Sul piano economico è impossibile sottovalutare il fallimento del TTIP (sul quale abbiamo fatto a sportellate con molti) tra Usa e Ue. Contestualmente e all’opposto è partita la guerra commerciale degli Usa contro la Ue.
Ed una guerra a tutto campo che sta investendo via via il vero oggetto della competizione: quello sulle tecnologie e le industrie avanzate. Altro che pecorino o vini francesi.
Il 1 ottobre l’Organizzazione Mondiale per il Commercio ha dato il suo accordo affinchè gli Stati Uniti tassino i prodotti europei fra cui i prodotti Airbus. Il motivo? La società avrebbe ottenuto aiuti di stato per un valore di almeno sette miliardi e mezzo di euro.
Per questo Washington potrà prendere misure compensative sotto forma di imposte doganali supplementari verso i prodotti importati. La cifra è minore rispetto agli 11,2 miliardi di dollari chiesti da Washington, ma è comunque un record nelle sentenze della OMC. A Gennaio di quest’anno, come noto, gli ordinativi dell’Airbus hanno superato quelli della Boeing a causa dei nuovi Boeing precipitati per guasti tecnici strutturali.
E’ stato un sorpasso storico e inseguito da anni. Occorre dire però che il contenzioso Boeing-Airbus non è ascrivibile a Trump perché risale all’epoca di George W. Bush. Fu infatti nel 2004 che l’allora amministratore delegato Boeing Harry Stonecipher iniziò a premere in modo forte sui finanziamenti statali concessi da Francia e Spagna per sviluppare la gamma Airbus. La questione fu formalizzata davanti al WTO nel 2005 e ci ha messo quattordici anni per giungere ad una conclusione.
Ma è ascrivibile invece a Trump la recente gaffe contro le decisioni della Bce sul mantenimento del quantitative easing, ritenuto dagli Usa concorrenza sleale sul cambio tra euro e dollaro.
Draghi con un pizzico di perfidia ha replicato a Trump precisando che tassi di interesse e tassi di cambio sono due cose ben diverse.
La competizione tra euro e dollaro sui mercati mondiali
Secondo la Commissione europea la quota dell’euro nelle riserve valutarie mondiali ammonta attualmente a circa il 20%. Quella del dollaro USA, a titolo di confronto, è superiore al 60%. Nessun’altra valuta supera il 5%.L’euro però è la seconda moneta più utilizzata in termini di quota dei pagamenti globali. Nel 2017 la sua quota ammontava a circa il 36%. A titolo di confronto, il dollaro USA rappresenta circa il 40% del totale dei pagamenti, la differenza quindi è assai diversa.
Oltre a quelli aderenti all’Eurozona, altri sessanta paesi e territori in tutto il mondo, hanno scelto l’euro come propria moneta o hanno deciso di ancorare all’euro la moneta nazionale.
E’ il caso dei paesi africani francofoni solo per dirne alcuni.
L’euro come moneta di riserva internazionale e nei pagamenti internazionali
L’Unione Europea è il maggiore importatore di energia al mondo (circa il 90% del fabbisogno di petrolio e circa il 70% di quello di gas). La fattura annua delle importazioni di energia dell’UE negli ultimi 5 anni ha ammontato, in media, a 300 miliardi di euro. Più del 93% dei volumi scambiati nel settore dell’energia è rappresentato dagli idrocarburi, per i quali attualmente tutti i contratti sono negoziati in dollari.
Nel caso dei mercati delle materie prime di base e dei prodotti alimentari, l’Europa consuma circa il 10% del totale delle materie prime ed è uno dei principali importatori. Tuttavia, la maggior parte degli scambi di materie prime a livello mondiale avviene in dollari USA.
Per quanto riguarda i costruttori di aeromobili, un recente studio sulle valute di fatturazione del settore conclude che quasi tutta la fatturazione è effettuata in dollari USA anche all’interno della zona euro: è il caso, ad esempio, di oltre la metà dei ricavi Airbus.
A settembre dello scorso anno c’è stata la famosa dichiarazione di Jean Claude Junker nella quale si criticava l’uso spropositato di dollari nelle transazioni energetiche che l’Europa ha con varie economie euroasiatiche e invitava a usare l’euro. Juncker ha definito “assurdo che l’Europa paghi l’80% della sua bolletta energetica – che è di 300 miliardi di euro – in dollari quando solo il 2% del suo import energetico arriva dagli Stati Uniti”.
Il ministro delle finanze russo, Anton Siluanov, dal canto suo aveva parlato di un piano per de-dollarizzare l’economia dal paese, “incoraggiando i partner della Russia a usare le loro valute nazionali”. Nel corso dell’International Forum di San Pietroburgo, Siluanov ha evocato che “La possibilità di passare dal dollaro all’euro nei regolamenti dipende dalla posizione dell’Europa nei confronti di Washington. Se i nostri partner europei dichiarassero la loro posizione inequivocabilmente, potremmo sicuramente trovare un modo per utilizzare la moneta comune europea per i regolamenti finanziari”.
Secondo l’agenzia Reuters, il 1 ottobre scorso, la Rosneft, una delle principali compagnie petrolifere al mondo e primo esportatore russo, ha scelto l’euro come valuta di riferimento in tutti i nuovi contratti di esportazione, a partire da settembre.
La Russia ha compiuto così un altro importante passo sul fronte della de-dollarizzazione, prendendo le distanze dal dollaro per mettersi il più possibile al riparo dalle sanzioni imposte dagli Stati Uniti, presenti e future. E se finora lo ha fatto soprattutto per mano della Banca centrale russa, che nel 2018 ha ridotto le proprie riserve in dollari da circa la metà del totale al 22%, convertendole in yuan, euro o yen (oltre che in oro), il passaggio ad altre valute sta lentamente progredendo anche negli scambi commerciali. E anche sui mercati del petrolio, tradizionalmente radicati sull’uso del dollaro.
In parallelo, le banche russe si spostano su sistemi di pagamenti alternativi, e il governo incoraggia le aziende ad accettare pagamenti in altre valute. L’ultimo annuncio riguarda l’Iran: il 17 settembre scorso il governatore della Banca centrale iraniana ha dichiarato che per le transazioni interbancarie Mosca e Teheran inizieranno a utilizzare un sistema alternativo a Swift.
A settembre del 2018 c’è stata la prima consegna fisica di greggio basata su un future denominato in valuta cinese. All’inizio di quest’anno la Turchia ha annunciato che Ankara si sta preparando a condurre gli scambi commerciali attraverso valute nazionali con Cina, Russia e Ucraina. La Turchia ha anche discusso di una possibile sostituzione del dollaro USA con le monete nazionali nelle transazioni commerciali con l’Iran.Mosca è riuscita a eliminare gradualmente il biglietto verde dalle sue esportazioni, firmando accordi di cambio di valuta con un numero di paesi tra cui Cina, India e Iran e, come abbiamo visto, recentemente ha proposto di utilizzare l’euro anziché il dollaro USA negli scambi con l’Unione europea.
Nel mondo che non vuole più essere sotto il ricatto del dollaro, assume particolare rilevanza l’iniziativa del Venezuela che con il Petro può diventare lo strumento attraverso cui svincolarsi dagli strumenti di dominio imperiale. Proprio quando Caracas ha iniziato a lavorare per ancorare il Petro non solo al petrolio ma ad un paniere in cui abbia un ruolo fondamentale l’oro è scattato il tentativo di rovesciare il governo bolivariano. Ma gli Usa stanno verificando sulla loro pelle che non siamo più ai tempi di Mossadeq e del golpe in Iran né che i popoli dell’America Latina siano ancora disposti a sottomettersi al dominio degli Stati Uniti. La resistenza del Venezuela, le rivolte sociali in Ecuador, Cile, Argentina sono lì a dimostrarlo.
Quali forze prevalgono nella costruzione del polo imperialista europeo?
Dentro questo mondo in cui i rapporti di forza sono sensibilmente cambiate rispetto all’egemonia globale statunitense e al Washington consensus su organismi come il Fmi, la Bm, la Nato, che ruolo sta giocando e intenderà giocare l’Unione Europea? Per cercare di rispondere a questa domanda, pesante come un macigno, non possiamo che partire da due recenti passaggi importanti.
1) Il Rapporto Altmaier 2) Il Trattato di Acquisgrana tra Francia e Germania
Il documento presentato da Peter Altmaier, Ministro tedesco per l’Industria e l’Energia, dal titolo “Strategia industriale nazionale 2030”, si concentra tutto sulla analisi della situazione competitiva mondiale, in cui la Germania subisce una sorta di attacco concentrico da parte di Cina ed Usa sul piano della innovazione tecnologica, con la erosione dei vantaggi competitivi nei settori tradizionali, illustrando ciò che occorre fare per mantenere le posizione di forza.
Secondo Altmaier lo Stato e l’UE devono concertarsi con ‘gli attori dell’economia’ per elevare le loro competenze tecnologiche e la loro capacità competitiva, con l’obiettivo di innalzare la quota dell’industria al PIL, in Germania, dal 23% al 25%, nell’UE dal 16% al 20%.È quindi necessario l’intervento delle istituzioni pubbliche, tedesche, ed europee , perché gli USA perseguono la politica dell’America first con interventi di protezionismo e di contrasto della diffusione delle tecnologie innovative attraverso la guerra dei brevetti e del blocco delle acquisizioni da parte della Cina; a sua volta, la Cina punta con il programma di sviluppo traguardato al 2025 a un salto tecnologico delle proprie produzioni industriali attraverso lo sviluppo della conoscenza, jointventures e acquisizioni di imprese occidentali. La Germania e l’UE sono minacciate nei nuovi campi dell’economia delle piattaforme, dell’Intelligenza Artificiale, delle biotecnologie e della digitalizzazione, così come nei tradizionali settori dell’automotive, della farmaceutica (e chimica in generale), dell’elettronica, dell’industria elettrica e meccanica.
Come rispondere alla sfida dei grandi gruppi industriali e tecnologici USA e cinesi? Sviluppando i campioni europei, perché la dimensione conta – e nel documento lo si scrive oltre che in tedesco in inglese, a sottolinearne l’importanza.
Nel rapporto si menziona il fatto che sulle prime 40 aziende mondiali solo 5 siano europee. Per questo bisogna creare colossi europei che competano sul mercato mondiale, anche modificando le norme sull’Antitrust europeo e i vincoli sugli aiuti di stato.
Obiettivo è raggiungere la leadership mondiale sull’intelligenza artificiale, sulle batterie elettriche, sulla digitalizzazione applicata alla sanità, all’ambiente e al manifatturiero e sull’aerospazio.
L’accordo prevede il finanziamento pubblico di grandi progetti europei con il Piano Juncker e il “temporaneo” ingresso degli Stati francesi e tedeschi nelle imprese europee. Inoltresidanno misure per bloccare acquisizioni di aziende tech europee da parte dei cinesi così come vietare l’ingresso di paesi non europei, chiaro il riferimento alla Cina, sui porti.
Quest’ultima misura fu già discussa in sede comunitaria ma l’Italia la bloccò. Adesso occorre verificare se il nuovo governo “europeista” e quindi subalterno, si adeguerà, punterà i piedi, o mirerà alla consueta mediazione tra interessi divergenti.
Una mediazione che diventa sempre piùdifficile nell’epoca della competizione globale che ha sostituito quella della concertazione.
L’obiettivo di Altmaier e del ministro francese Le Maire è infatti quello di bloccare l’ingresso nei porti italiani da parte dei cinesi. L’intento è preservare la “nuova Lega Anseatica”, costituita dai porti di Amburgo, Rotterdam, Bremerhaven e quelli del mar Baltico, per avere l’esclusiva dei traffici con l’Asia e che comporta anche massicce ridislocazioni manifatturiere.
E’evidente come nel Piano Altmaier ci sia poco o nessuno spazio per l’eventuale integrazione dell’Italia nel progetto della Via della Seta cinese nel Mediterraneo.
E’unprogetto teso ad accentuare la spaccatura traquella parte del grande capitalismo italiano già integrato o integrabile nei “campioni europei” (vedi Leonardo, Eni, Enel, Ferrovie dello Stato) e quello che invece avrebbe molto da guadagnare nella connessione con I crescenti investimenti cinesi nell’area euromediterranea come ponte tra Europa e Africa.
I cinesi sono già presenti in Marocco a Tanger Med, un mega polo industriale marocchino che dà lavoro a 60 mila persone. Ad est stanno infrastrutturando un parco industriale tra Alessandria d’Egitto, Port Said e Suez, con il canale raddoppiato.
L’industrializzazione di quest’area è resa possibile dalla scoperta tre anni fa di Zhor, mega giacimento di gas al largo di Alessandria, una scoperta italiana – grazie all’Eni – che garantirà all’Egitto energia a basso costo da impiegare per l’industrializzazione del paese. I cinesi sono poi presenti nel porto di Haifa in Israele, in Turchia e nel Pireo e progettano di ricostruire sia la Siria sia la Libia. Il cerchio si chiuderebbe, la sponda sud del Mediterraneo sarebbe protagonista di una storica industrializzazione alternativa alla “nuova Lega Anseatica”.
Per l’Italia il processo di concentrazione in grandi gruppi europei industriali, tecnologici, finanziari o nei servizi strategici, significa un ulteriore deindustrializzazione con la cannibalizzazione delle proprie quote di mercato interno da parte delle multinazionali straniere, chiusure di fabbriche, delocalizzazioni, perdita di occupazione sia quantitativamente che qualitativamente. Il destino di aziende come Ilva o Alitalia, in questo scenario, appare segnato.
A meno che un governo non scelga una strada completamente diversa come quella delle nazionalizzazioni (che noi auspichiamo) e del rifiuto della tagliola del divieto europeo agli aiuti di Stato alle imprese in crisi. L’attuale governo europeista, e quindi subalterno, vorrebbe praticare ancora una volta della mediazione, del compromessotra esigenze che spingono in direzioni diverse ed opposte. Ma la fase della concertazione appare ormai alle spalle, adesso siamo nella fase della competizione globale e spazi per compromessi ce ne sono pochi, anzi pochissimi.
Contestuale al Piano Altamaier, è stato il Trattato di Aquisgrana firmato il 22 gennaio scorso da Francia e Germania.
Francia e Germania, già da sole, rappresentano il 50% dell’intero Pil dell’Eurozona a 19 e sono “il cuore” produttivo, tecnologico e militare della UE.
I due paesi hanno rapporti economici strettissimi e fortemente integrati tra loro: la Germania è il primo partner commerciale della Francia e il secondo più grande investitore estero del paese, oltre 4.000 imprese tedesche sono presenti in Francia con una forza lavoro di 310.000 unità e un giro d’affari di 140 miliardi.
D’altro canto la Francia è, dopo gli Stati Uniti, il secondo partner commerciale della Germania per esportazioni (106 miliardi di euro nel 2017) e il terzo per importazioni, dopo la Cina e l’Olanda.
Secondo lNSEE (Istituto nazionale di statistica francese), 2.700 aziende francesi sono presenti in Germania, dando lavoro a 363mila addetti.
Ma nei rapporti tra le due potenze strategiche dell’Unione Europea pesa ancora un rapporto asimmetrico – non del tutto risolto – tra un gigante economico “in declino” ma nano a livello di strategia geo-politica – come la Germania, e l’aspirante grande potenza tout-court, ossia la Francia della Force de Frappe dotata di armi nucleari e con una consolidata proiezione internazionale (vedi gli interventi militari in Africa e il protagonismo nella destabilizzazione della Libia e della Siria).
Negli ultimi anni, utilizzando il meccanismo delle cooperazioni rafforzate (cioè la convergenza solo di alcuni stati della Ue su un progetto specifico, così come è stato fatto per l’Eurozona), le maggiori potenze hanno avviato un processo di definizione e strutturazione di una politica e di un complesso militare industriale europeo e di una conseguente politica militare.
Questo processo ha subito una accelerazione esplicita con il recente Trattato di Aquisgrana tra Francia e Germania, con il Fondo Europeo per la Difesa e con il varo dell’Iniziativa di Intervento Europeo voluta da Macron e sottoscritta a settembre anche dall’Italia.
L’obiettivo dichiarato è quello della indipendenza tecnologica dal monopolio statunitense in materia tecnologica e militare. Il crescente ricorso a tecnologie dual use (civile e militare) ha permesso di raggiungere risultati ed ha definito progetti inimmaginabili fino ad un ventennio fa. Ad esempio il sistema satellitare europeo Galileo comprende anche i Public Regulated Services (Prs), servizi riservati alle autorità governative per un utilizzo destinato alla difesa e sicurezza nazionale.
In questo caso il segnale è criptato e protetto da interferenze ostili (jamming e spoofing).
Sganciarsi o limitare al minimo il monopolio tecnologico e militare degli Stati Uniti sull’Europa, si va definendo via via come priorità per i gruppi capitalisti dominanti in Europa. La Nato, in tal senso, è diventata una camera di compensazione troppo stretta. L’Unione Europea vorrebbe che gli Usa comprendano e decidano di non essere più i primus inter pares dell’alleanza ma tale decisione, seppur inevitabile, non appare all’ordine delle priorità strategiche degli Stati Uniti.
Quando negli anni scorsi abbiamo ragionato e messo in campo la proposta della rottura dell’Unione Europea e la costruzione di una Area Alternativa Euromediterranea, siamo partito dal presupposto che il nostro primo dovere è quello di combattere e indebolire il “nostro imperialismo”, di spezzare gli anelli deboli della nascente catena imperialista europea.
E sosteniamo questa proposta con spirito e visione internazionalista e di classe, di alleanza tra i lavoratori e i movimenti popolari nei paesi europei ma anche in quelli della sponda sud del Mediterraneo.
CREDITS
Immagine in evidenza: Euro banknotes
Autore: Ibrahim Boran, 26 maggio 2021
Licenza: Unsplash License;
Immagine originale ridimensionata e ritagliata