Capitolo V° del Quaderno di Contropiano
pubblicato in TARGET. Iraq, competizione globale e autodeterminazione
Definito un impianto analitico in cui si è cercato di evidenziare sia gli elementi dell’analisi di Lenin che ancora hanno una validità che quelli che sono stati modificati dallo sviluppo storico si tratta ora di entrare nel merito delle questioni politiche attuali ovvero di come oggi si affronta sia la ripresa piena dell’imperialismo e del conflitto interimperialista sia la questione della autodeterminazione così come concretamente si presenta oggi.
Il lavoro che abbiamo sviluppato intende cominciare ad affrontare questi nodi anche se siamo coscienti che c’è bisogno di ulteriori approfondimenti e verifiche, oltre che di un ampio dibattito, per definire con chiarezza una posizione che comunque deve fare i conti con una crisi non risolta del movimento operaio, dei comunisti e del fronte antimperialista.
L’affermazione a livello mondiale del modo di produzione capitalistico, dopo una fase di apparente ripresa dello sviluppo generale avuta durante il decennio passato, sta generando di nuovo le contraddizioni insite in questo sistema che partendo dal dato economico strutturale si stanno riproducendo anche sul piano politico e culturale.
La necessità della reazione politica nasce da un accentuato livello di sviluppo delle contraddizioni e segnerà il prossimo periodo storico; naturalmente quello di cui parliamo è un processo e dunque ha tempi e modi determinati rispetto ai quali sarebbe superficiale fare previsioni, pensare di conoscere i tempi di espressione e dare per scontato dittature e riduzioni radicali alle libertà immediate.
Se partiamo da quest’approccio gli effetti concreti di un tale processo possono essere osservati già a partire dai paesi imperialisti e da alcuni anni. Il radicale ridimensionamento del conflitto di classe nazionale ed internazionale ha fatto emergere, con evidenza, i segni della reazione politica di fronte a quello che è stato lo scampato pericolo per il sistema capitalistico.
La “restaurazione” oggi caratterizza tutti gli aspetti della vita sociale nei paesi più avanzati, dalla drastica riduzione dello stato sociale in tutte le sue funzioni alla fine delle tutele per il lavoro dipendente e subordinato più in generale fino all’impoverimento diffuso che si registra a livello mondiale; ma quello che è più significativo è la continua restrizione degli spazi democratici con la riesumazione di sistemi elettorali e politici elitari ed escludenti che marciano di pari passo a politiche sempre più palesemente militariste sostenute da un potente sistema ideologico gestito dai mezzi di comunicazione di massa.
Se questa condizione si è affermata già nei paesi principali è evidente che un tale processo restaurativo sarà ancora più potente ed irrefrenabile nei paesi che subiscono l’influenza economica e politica dei centri esteri. La forma della restaurazione in atto nei paesi subordinati è quella della rimessa in discussione dell’autodeterminazione politica laddove viene reputato necessario.
Dire che già questo avviene da qualche anno è poco meno che ovvio; la destrutturazione della Jugoslavia con la nascita di stati insignificanti e, addirittura, con una loro successiva scomposizione interna, come è avvenuto per la Serbia con il Kossovo e come è avvenuto per la Bosnia in tre sotto-stati, non è stato altro che un passaggio verso l’annessione da parte della UE nei confronti dei semi-stati nati da quella pianificata dissoluzione.
La trasformazione delle formazioni statuali nate nel ‘900, grazie anche alla lotta per l’autodeterminazione dei popoli, in stati estremamente deboli e subordinati ed in semi-stati, rispetto alle funzioni complessive che uno stato generalmente ricopriva, è un passaggio verso la definizione di relazioni internazionali adeguate alla situazione attuale. Infatti, i semi-stati mantengono alcune funzioni sociali e politiche, ma sono del tutto impotenti nelle relazioni internazionali a tutti i livelli.
Questa è ormai una condizione generalizzata sia in Africa che in Asia dove guerre civili, crisi finanziarie pilotate dal FMI, competizione tra grandi potenze attuata tramite guerre per interposta persona hanno contribuito alla disgregazione formale o di fatto anche di grandi paesi; ci riferiamo alla disgregazione in atto in Indonesia, a quello che è accaduto nei paesi dell’Africa centrale ed occidentale, ed anche la vicenda dell’Argentina dimostra che l’obiettivo del FMI, pilotato dagli Stati Uniti, era quello della disgregazione delle funzioni statuali di quel paese e della crisi del Mercosur, fastidioso intralcio alla costruzione dell’ALCA nella America Latina.
Un’altra facile verifica dell’operare dell’imperialismo di questo nuovo, vecEntrare nel merito delle lotte per l’autodeterminazione chio, secolo è quello che sta accadendo negli stati dell’ex Unione Sovietica ed il conflitto latente con la “nuova” Russia di Putin, come non può certo sfuggire che la sensibilità sui diritti umani in Tibet, non è certo dovuta a ragioni etiche, ma al tentativo di “smontare” un pericoloso competitore internazionale come la Cina, per gli USA in particolare.
Costituzione di grandi blocchi economici funzionali allo sviluppo delle forze produttive e formazione di stati deboli e subordinati, di semi-stati e di stati etnici pronti ad essere condizionati dalle necessità economiche, politiche e militari dei centri imperialisti è la forma che sta assumendo l’assetto internazionale che marcia di pari passo con la regressione economica, sociale, culturale, politica, istituzionale che coinvolge direttamente le classi subalterne degli stessi paesi imperialisti.
È proprio dentro questo contesto di resistenza alla restaurazione reazionaria in atto a livello mondiale che lottare per la difesa dello stato sociale, per la difesa del lavoro dipendente, contro la guerra significa anche dare appoggio alle lotte che i popoli oppongono alle aggressioni imperialistiche ed agli interventi armati dall’esterno. Dunque questa lotta di resistenza non vede una separazione tra il fronte interno e quello esterno ma una continuità che va spiegata e dimostrata, e che è anche un’indicazione di lotta internazionale.
La definizione di un quadro analitico come quello che abbiamo qui esposto non è sufficiente a definire una linea politica rispetto alla ripresa dell’aggressività imperialista; infatti il giudizio sulle lotte per l’autodeterminazione non è appeso ne ad una descrizione della situazione ne a principi generali, spesso spacciati per “sacri”, ma deve fare i conti con le situazioni concrete che volta per volta vengono a determinarsi.
Come dice Lenin le lotte dei popoli per l’autodeterminazione non avvengono fuori dal tempo e dallo spazio ma dentro un contesto reale in cui agiscono le contraddizioni ma anche le soggettività, ed è rispetto a questa condizione che bisogna prendere posizione politica e la responsabilità di dare giudizi e di operare sapendo che non c’è schema che ci aiuti a risolvere le difficoltà nell’orientamento ed i problemi da affrontare.
Questo aspetto apparentemente “metodologico” va compreso molto bene in quanto nell’ultimo ventennio le lotte per l’autodeterminazione hanno assunto un segno politico opposto a quello avuto precedentemente poiché hanno prodotto una condizione di regressione generale dei popoli che hanno “lottato”; questo è avvenuto sia sul piano economico-sociale che su quello politicoculturale.
La definizione di “autodeterminazione”, che nasce dal potente processo di decolonizzazione, è stata data anche ai conflitti avuti nell’area degli ex paesi socialisti, che va dall’Europa dell’est fino agli stati dell’Asia centrale ex sovietica, ed a lotte tribali ed etniche che si sono sviluppate in varie parti del mondo.
Nonostante l’apparente somiglianza delle lotte antimperialiste del ‘900 con quelle raccontate dai mezzi di comunicazione di massa contro l’“Impero” sovietico e verso gli stati nazionali nati dalla decolonizzazione, c’è una profonda differenza di contenuti che va chiarita bene visto che, anche tra le forze democratiche e di sinistra del nostro paese e dell’occidente più in generale, si preferisce frequentemente fare appello a principi tanto generali quanto astratti piuttosto che entrare nel merito delle questioni e prendersi le responsabilità politiche che ne conseguono.
Se passiamo dai principi alla pratica balza immediatamente agli occhi la differenza tra le lotte per l’autodeterminazione e quelle “lotte” eterodirette che, invece, vengono rappresentate dalla ideologia dominante attualmente come autodeterminazione; le lotte che hanno portato al processo di decolonizzazione hanno prodotto indipendenza politica con la costituzione di Stati in possesso di tutte le loro prerogative, da quella della forma politica più o meno democratica, intesa nei termini della democrazia borghese, a quella della difesa militare, dalla funzione di stato sociale a quella di stato imprenditore con l’obiettivo di sostenere la crescita economica del paese relativo.
Naturalmente qui è solo descritta la tendenza manifestatasi nel corso del ‘900, mentre nella realtà i processi sono stati molto più complessi, contraddittori e con effetti spesso negativi relativi alla gestione che veniva fatta della libertà acquisita. Comunque al di là delle specifiche differenze sia in senso negativo che positivo, sia che sia stata fatta una scelta di tipo socialista oppure di rimanere legati al mercato capitalistico l’obiettivo era quello di costruire stati indipendenti con tutte le loro prerogative che non portavano spontaneamente verso una rappresentanza democratica del popolo ma ne erano una condizione ineludibile, e questo è quello che è realmente accaduto.
Se analizziamo gli effetti delle autodeterminazioni “rappresentate” e non reali, le differenze appaiono immediatamente sostanziali; infatti gli effetti di quelle “lotte” hanno prodotto non degli stati compiuti ma dei semi-stati costituzionalmente predisposti alla penetrazione imperialista in cui ad un debole potere politico ha corrisposto una mancanza di forza militare, una corruzione strutturale ed una subordinazione totale ai poteri economici internazionali siano questi degli USA, dell’Europa o di altri. Questa è stata, peraltro, la condizione migliore perché nei casi peggiori il risultato è stato quello di secessioni multiple, protettorati variamente denominati, occupazioni militari dirette dei paesi imperialisti, in accordo od in competizione tra di loro a seconda delle situazioni.
Con questa chiave di lettura non è difficile “catalogare” i vari esempi concreti che si sono manifestati in quest’ultimo decennio. Paesi come la Polonia, la ex Cecoslovacchia e l’Ungheria possono dirsi tra i più fortunati in quanto il degrado generale a cui sono andati incontro è stato rallentato da un intervento dei poteri finanziari ed economici della UE che, pur sfruttando la forza lavoro di quei paesi e facilitando l’economia illegale ed i commerci più abietti, ha contribuito a contenere la crisi economica complessiva. Sul piano politico si stanno creando le condizioni per annettere questi paesi sotto l’offensiva di una ideologia democraticistica e sotto il controllo dei paesi forti della UE, della moneta unica, dell’esercito unico, della Costituzione Europea e della conseguente unificazione politica fatta sotto il segno dei poteri finanziari.
Non possiamo sapere cosa accadrà in futuro ma certo l’autodeterminazione di questi popoli, mantenuta formalmente perfino dentro il sistema di relazioni sovietiche, scomparirà senza che su questo quei popoli possano aver avuto coscienza e informazione di quello che sta realmente accadendo e senza aver avuto la possibilità “democratica” di potersi pronunciare con una consultazione popolare.
Se analizziamo gli altri paesi e sistemi nati dalla autodeterminazione “eterodiretta” possiamo andare da quelli dei Balcani, e non solo della ex Jugoslavia, dove la miseria ed i pericoli di guerra sono all’ordine del giorno; a quelli della zona caucasica e dell’Asia centrale pronti a vendersi al miglior offerente, che generalmente sono gli Stati Uniti interessati a costellare quelle aree di loro basi militari; fino alle devastazioni sociali ed umanitarie che riguardano il Medio Oriente, l’Africa ed in parte anche l’America Latina.
È più che evidente che quello che è accaduto in questi lustri ha poco a che vedere con l’autodeterminazione del popolo Afghano, di quello Ceceno, di quello irakeno e di quelli, almeno così sperano gli USA, Iraniano e Siriano; questa non è stata altro che la storiella che i quasi onnipotenti mezzi di comunicazione di massa hanno raccontato a noi ed ai popoli del mondo intero.
Quello che è accaduto è stato invece il ridisegnare la geografia politica in funzione deH’imperialismo con una copertura fatta dai discorsi sui diritti umani, sulla democrazia e sui malefici dittatori che non sono finiti con il crollo del ComuniSmo: Se tutto questo è vero, ed a noi francamente pare essere così, l’autodeterminazione vera dei popoli non può prescindere dall’esistenza di un loro stato che abbia poteri reali in tutti i campi di sua competenza e che sia rappresentanza effettiva ed internazionalmente riconosciuta di quei popoli, in quanto questo è l’unico modo per stabilire equi rapporti di forza a livello internazionale che limitino lo strapotere dei centri imperialisti.
Impedire la distruzione degli stati dei popoli subordinati e dunque della loo indipendenza politica è una battaglia a difesa della democrazia internazionale ed una condizione ineludibile per affermare la democrazia aH’interno di quei paesi. Non è certo un caso che le guerre di questi anni hanno avuto l’effetto di disgregare entità statuali e nazionali che seppure erano interne al mercato capitalista ed addirittura alleati politici dell’occidente rappresentavano comunque un intralcio allo sviluppo dei rapporti imperialistici.
La Jugoslavia fino all’arresto di Milosevic, lo stato Irakeno sotto Saddam, lo stato Iraniano e quello Siriano, prossimi obiettivi della guerra infinita, le ambiguità avute nelle vicende dello stato Indonesiano, pur alleato dell’occidente, sono la verifica che quello che va oggi eliminata, dopo la fine del campo socialista, è la presenza di stati politicamente indipendenti che vanno spezzettati e ridotti a semi-stati docili ai voleri delle potenze.
Da tutto ciò consegue che la lotta per l’autodeterminazione dei popoli significa anche lotta contro l’ingerenza delle grandi potenze negli affari interni agli altri stati e lotta ai processi secessionisti basati su base etnica, religiosa e razziali. Impedire l’intervento esterno politico e militare, sostenere la funzione degli stati nazionali, difendere il ruolo internazionale degli stati non imperialisti significa anche mantenere quella condizione che seppure non porta automaticamente la democrazia di una società ne è un presupposto indispensabile.
È chiaro a tutti che la regressione da entità statali a semi-stati, stati etnici, confessionali o protettorati significa andare nella direzione opposta rispetto alla stessa democrazia politica borghese e contraddire la storia dell’ultimo seI Proletarizzazione e soggettività politica colo che, pur tra tante tragedie e difficoltà, ha avuto una indubbia funzione di progresso per tutta l’umanità ad ogni livello. Difendere questo livello acquisito, come vanno difese tutte le conquiste economiche, sociali e politiche del passato, è un dovere e soprattutto un diritto che compete sicuramente i popoli che sono coinvolti direttamente dalle trasformazioni ma chiama in prima fila anche i popoli ed i settori avanzati dei paesi imperialisti che devono, nella loro condizione, operare affinché i loro paesi paghino il prezzo politico più alto possibile per ogni intervento militare al di fuori dei propri confini.
Va sostenuto il diritto all’autodeterminazione ed all’autodifesa dei paesi aggrediti e questo è un dovere che ricade direttamente sul movimento dei lavoratori e quello democratico dei paesi a capitalismo avanzato che devono dimostrare la loro opposizione alle politiche antipopolari e regressive che colpiscono all’interno stesso dei propri paesi ma anche battersi contro le mire espansioniste dei propri governi. A maggior ragione tutto ciò è un obbligo per chi crede che l’internazionalismo sia ancora più necessario oggi, quando tutti ci dicono che viviamo in un mondo “globalizzato” dove gli interessi dei lavoratori e dei popoli di tutti i paesi sono strettamente collegati.
Esiste perciò la necessità di mobilitarsi a fianco dei popoli e degli stati aggrediti dall’imperialismo per sostenere il loro diritto all’autodeterminazione e senza entrare nel merito delle scelte politiche, statuali, religiose, etc. che questi compiono; questo ruolo deve essere concretamente svolto impedendo al proprio stato di intervenire militarmente al di fuori dei propri confini, combattendo le basi e le alleanze militari che sono gli strumenti d’aggressione e di spartizione del “bottino”. Tale scelta è fondamentale, al fine di rafforzare i legami internazionalisti, dividendo le responsabilità dei popoli dei paesi sviluppati dai centri imperialisti che li egemonizzano.
Questa dimensione, che è una dimensione di massa che va sempre mantenuta sul piano più avanzato possibile, non è però sufficiente per dare una prospettiva politica all’azione della solidarietà internazionale in funzione di una sconfitta deil’imperialismo oggi; infatti bisogna riuscire ad andare oltre la sola solidarietà di lotta e cercare di capire quali sono le interlocuzioni politiche più avanzate da sostenere. Infatti nella lotta democratica per l’autodeterminazione l’intervento imperialista non può che essere affrontato in modo e con strumenti diversi, dentro una comune battaglia, dai popoli aggrediti e da quelli che vivono nei paesi aggressori.
Per quanto riguarda, invece, il superamento del sistema capitalista, che si sta rivelando ancora una volta tragico per tutta l’umanità, la condizione è la stessa, la lotta è la stessa ed oggi lo è ancora più di ieri in quanto la mondializzazione del modo di produzione capitalistico avvicina i popoli e li obbliga ad una prospettiva unitaria.
Si pone, in questo senso, la necessità di un internazionalismo che ricostruisca una interlocuzione tra i settori democratici, socialisti e di classe più avanzati di tutti i paesi in quanto per un verso è evidente che l’attuale sviluppo sta conducendo, in tempi più o meno lunghi, verso una condizione insopportabile, che può evolvere verso nuove e tragiche prospettive belliche mondiali. Per un altro verso diviene contemporaneamente altrettanto chiaro che l’uscita da questa condizione può avvenire solo trovando una sintesi più avanzata verso una prospettiva socialista, che deve naturalmente fare i conti con la storia e con le condizioni attuali, che si ripropone essere l’unico sbocco positivo possibile alla crisi in cui sta andando incontro l’umanità.
Di fronte alla aggressività imperialista quello che resta delle borghesie nazionali anche di quelle più indipendenti, ed a maggior ragione le classi dirigenti degli emergenti semi-stati, non possono che opporre una resistenza che però è destinata con il tempo a logorarsi ed a cedere, prima ancora che ai possibili interventi militari, all’assedio ed alla penetrazione economica ed alla corruzione politica operata dalle grandi potenze.
Da qui nasce la tendenza al compromesso che porta inevitabilmente alla subordinazione ed alla cooptazione le borghesie e le classi dirigenti e spinge le classi subalterne in prima fila nella lotta contro l’imperialismo a cominciare da quella operaia e lavoratrice più in generale.
Questa necessità di “raccogliere” la bandiera degli interessi nazionali per i paesi non imperialisti gettata a terra dalle borghesie non è la prima volta che accade nella storia, ma ora accade in un contesto sociale e di classe del tutto diverso da quello del ‘900 dove al ruolo politico della classe operaia corrispondeva un peso numerico, anche nei paesi avanzati, sicuramente minoritario. Oggi il lavoro salariato, la classe lavoratrice in generale e la classe operaia, soprattutto nei paesi nella periferia dei blocchi economici, non è più minoranza ma è diventata la parte più consistente della popolazione.
I Il potente processo di proletarizzazione prodotto dall’uso capitalistico delle forze produttive è oggi invasivo in ogni parte del mondo, dai paesi sottosviluppati, dove l’inurbamento delle masse contadine ed il trasferimento della produzione di merci standardizzata ha prodotto un nuovo proletariato, fino al cuore dei paesi capitalisti dove sta esaurendosi la mistificazione sui ceti medi.
Ceti che non sono affatto una nuova classe sociale ma lavoro dipendente e subordinato che vive, per complessi motivi storici ed economici, una condizione di privilegio ora in via di esaurimento a causa della crisi economica e dei meccanismi strutturali della società capitalistica.
Questo esteso processo di proletarizzazione non elimina la questione degli alleati nella lotta antimperialista che rimangono ancora i contadini, anche questi a loro volta proletarizzati dalla azione delle multinazionali della alimentazione, le classi piccolo borghesi e quelle borghesie che mantengono una posizione antimperialista, ma è certo che queste alleanze non possono essere definite al di fuori del contesto storico e politico che vive concretamente ogni paese.
Questa modifica del contesto sociale in cui avviene la lotta per l’autodeterminazione, che ne rafforza il carattere di classe, non significa affatto che una tale condizione produca di per se coscienza e ribellione allo stato presente delle cose, infatti per trasformare la situazione oggettiva è sempre necessaria una soggettività organizzata che sappia progettare ed attuare la propria azione politica.
Ribadire questo principio ci sembra importante perché proprio nel momento in cui comincia una reazione a livello internazionale allo sviluppo imperialista bisogna essere coscienti che il determinismo che sovrappone condizione oggettiva ed azione soggettiva rischia di far arretrare i processi politici; questo è valido sia per la condizione sociale internazionale sia per gli effetti delle politiche occidentali che, per quanto negativamente evidenti, non producono effetti politici se non sono seguiti da un intervento all’altezza della situazione.
La lotta a difesa del diritto all’autodeterminazione, vera e non eterodiretta, ha perciò due percorsi da seguire in modo chiaro e parallelo; il primo è quello del sostegno al diritto dei popoli e della necessità di contrastare l’intervento militare e politico delle grandi potenze e, per quanto ci riguarda direttamente, quello del nostro paese ed ora anche dell’Unione Europea. 11 secondo è quello di un’azione di solidarietà internazionale con tutte quelle forze politiche e sociali e di classe che spingono verso il superamento del sistema capitalistico, coscienti che le forze che stanno emergendo e reagendo alla devastante riorganizzazione planetaria dei paesi imperialisti non sono tutte protese verso uno sbocco progressista.
In questo senso i giudizi sulla funzione delle religioni in queste lotte non possono essere politicamente predeterminati ma vanno valutati rispetto al contesto in cui agiscono ed è solo rispetto a questo che vanno prese posizioni politiche altrettanto non schematiche. Questo approccio ovviamente non può far sottacere la nostra convinzione che le religioni in quanto tali non possono essere una risposta ai problemi che lo sviluppo complessivo e mondiale pone oggi alla umanità.
Nel definire rimpianto di questa nostra visione, la sua comparazione con la situazione del periodo a cavallo tra il XIX ed il XX secolo e le prospettive politiche da affrontare partiamo dalla convinzione che la nostra analisi deve saper cogliere le tendenze in atto e saper individuare il loro esito in quanto riteniamo che le possibilità di azione dell’imperialismo non sono affatto esaurite.
Quello che si sta manifestando a livello mondiale, dalla nascita dei movimenti del Social Forum Mondiale che assumono via via una fisionomia sempre più netta, alla inaspettata e giusta resistenza del popolo Irakeno riteniamo siano solo le prime ed ancora immature risposte alle nuove contraddizioni epocali che stanno emergendo; infatti se ci limitassimo all’analisi della situazione contingente probabilmente avremmo un quadro confuso e contraddittorio sulla base del quale ogni azione politica si rivelerebbe debole.
Dati i rapporti di forza attuali è necessario fare uno sforzo analitico e teorico per capire le prospettive ed attrezzarci di conseguenza per il futuro sapendo che lo sviluppo attuale assumerà sempre più agli occhi dei popoli mondiali una valenza negativa e regressiva. Certamente un tale approccio ci costringe a fare i conti con i nostri limiti nella capacità di lettura della realtà e dell’azione politica ma bisogna essere coscienti che questo è un passaggio ineludibile in quanto una delle lezioni che ci lascia la storia del ‘900 è proprio quella che ci dice che nessun atteggiamento deterministico, fideistico e spontaneistico può basarsi su una oggettività che porta spontaneamente al superamento del capitalismo ed alla presa di coscienza della classe lavoratrice dei settori sociali subordinati più in generale.
CREDITS
Immagine in evidenza: Anti-War March Chicago
Autore dell’immagine: David Wilson, 10 agosto 1968
Licenza: Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)
Immagine originale ridimensionata e ritagliata