Capitolo VI° del Quaderno di Contropiano
pubblicato in TARGET. Iraq, competizione globale e autodeterminazione
Definizione dei poli imperialisti e delle loro aree di influenza, annessioni e colonialismo, resistenza ed autodeterminazione sono state le caratteristiche dell’imperialismo e dei suoi effetti nel ‘900 e lo sono tuttora, ma in condizioni ed in termini molto diversi e dentro una dinamica che dobbiamo concretamente individuare per come oggi si esprime.
Ciò significa leggere correttamente le conseguenze della riorganizzazione internazionale per individuare i punti di contraddizione che hanno un carattere permanente, le aree dove si potrà produrre conflitto anche armato, le espressioni politiche ed ideologiche di una tale condizione.
In sintesi il problema vero che hanno le forze comuniste, antimperialiste ed anche quelle democratiche è capire che siamo dentro una nuova fase storica dove all’azione sempre più irrazionale e reazionaria dell’imperialismo ci sarà una risposta comunque da parte dei popoli e delle classi sottoposte alla pressione politica, economica e militare.
Se dobbiamo, perciò, sapere come affrontare le situazioni che si sviluppano sotto i nostri occhi, come appunto quella dell’Irak, il problema politico principale da affrontare è quello di capire in quale modo analizziamo, interpretiamo e ci organizziamo di fronte ad una lunga fase; fase nella quale in risposta alla competizione globale emergerà inevitabilmente una resistenza altrettanto globale di cui non ne possiamo comprendere ora gli esiti pratici ma che già appare nella realtà internazionale.
Quello che sta accadendo nel Medio Oriente ci dimostra che le dinamiche ed i conflitti in quell’area non sono più quelli che ci sono stati fino agli anni 90, quando ancora si pensava di trovare delle soluzioni politiche ai vari conflitti. Oggi, infatti, la generalizzazione dello scontro politico e militare è tale per cui la diversità dai periodi precedenti è lampante.
Se, però, allarghiamo la sguardo alla competizione globale nella sua complessità si evidenziano altri punti dove le lotte dei popoli già emergono, ed emergeranno sempre più, e dove il conflitto politico e di classe si accentuerà.
Il tentativo di legare le sorti e le prospettive dell’America Latina all’ALCA ed agli Stati Uniti, fino alla annessione di fatto, mostra un’altra area in cui l’imperialismo dovrà fare i conti con la lotta popolare e di classe.
Dalla Colombia all’Argentina quello che si evidenzia è un intero continente che si rifiuta di fare il cortile di casa allargato degli USA; anche la rinnovata aggressività nei confronti di Cuba è la prova che la posta in gioco non è certo la “democrazia” per i dieci milioni di Cubani ma l’eliminazione di un pericoloso riferimento politico, culturale ed ideologico per il progetto di annessione statunitense.
Al conflitto, più o meno latente, tra poli imperialisti e tra stati in competizione si aggiungono anche gli scontri nelle aree periferiche ed è con questo scenario che dobbiamo fare i conti nei prossimi anni. Si ripropone prepotentemente in tale contesto la questione della soggettività che in concreto significa, per chi vive nelle cittadelle imperialiste, capire fin da ora cosa produrrà tutto ciò nella vita dei popoli di questi paesi e come attrezzarsi analiticamente, politicamente e praticamente per affrontare gli effetti delle dinamiche internazionali in una battaglia che da noi deve essere democratica ed internazionalista allo stesso tempo.
IL MEDIO ORIENTE
Per entrare nel merito si dice una cosa abbastanza ovvia se si afferma che la posta in gioco della aggressione all’Irak è il controllo di tutta l’area mediorientale che va dalle sponde del Mediterraneo ed arriva fino all’Afghanistan. Si è esaurita la fase dove predominava l’egemonia del capitale, in pratica di quello USA, nella quale bastava tenere le relazioni economiche e politiche, anche se con qualche necessario intervento militare, con gli stati dell’area per gestire quella situazione.
Ora siamo in una fase dove l’egemonia diviene dominio ed in cui la debolezza strategica viene sostenuta dalla forza militare; sono passati i tempi in cui la borghesia finanziaria Araba metteva a disposizione degli Stati Uniti le proprie risorse petrolifere in cambio della tutela del suo potere. È esattamente in questa condizione di indebolimento che c’è bisogno di tornare al controllo coloniale, ovvero al controllo diretto del territorio, per sostenere le proprie compatibilità nella competizione internazionale.
È il petrolio l’obiettivo dell’aggressione militare USA e l’“oggetto del desiderio” della costituenda Unione Europea; il controllo diretto è funzionale a mantenere il monopolio sulle risorse energetiche e per continuare a sostenere il mercato interno Americano facendolo rimanere quello più sviluppato al quale devono fare riferimento il capitale ed il commercio mondiale. Peraltro con ulteriori conseguenze di carattere ambientale pesanti per il popolo americano e per tutto il pianeta.
Non ci sono solo motivi strettamente economici a consolidare le tendenze alla guerra, infatti quell’area riveste anche una importante funzione geopolitica in quanto arrivando fino al centro dell’Asia permette alle forze armate statunitensi di presidiare quella parte del globo incuneata tra l’Europa, la Cina e la Russia che, per diversi motivi, sono i competitori dell’unica superpotenza mondiale.
A partire da questi due obiettivi strategici è evidente che la permanenza in quella parte del mondo di stati che, anche solo potenzialmente, possano avere una qualche autonomia entrano obiettivamente in contraddizione con gli interessi degli USA; in questo modo appare chiaro come la disgregazione di quegli stati, il ridurli a semi-stati confessionali od etnici è molto più funzionale.
l’esportazione della democrazia, la lotta al terrorismo, lo scontro di civiltà che fa crescere il razzismo occidentale contro gli arabi sono coperture ideologiche che a malapena riescono a nascondere alla massa dei popoli che vivono nei paesi imperialisti, con l’aiuto dei mass-media, la realtà delle cose. Ne più ne meno come la retorica sul multipolarismo e la esaltata funzione fondamentale dell’ONU che coprono il maldestro tentativo dell’Europa Unita di costringere gli USA a dividere il “bottino” su cui hanno messo le mani direttamente.
È questo, dunque, il contesto dentro il quale dobbiamo dare le nostre valutazioni e definire una linea di intervento che sappia salvaguardare i diritti de-mocratici di tutti i popoli del mondo ma che sappia anche collegarsi alla lotta per il superamento dell’attuale sistema, che non produce altro che contraddizioni enormi e tragedie per tutta l’umanità.
AUTODETERMINAZIONE E INTERNAZIONALISMO PER L’IRAK
Quando gli USA, ed i loro servili soci, si sono “imbarcati” nella avventura irakena non si aspettavano certo una reazione militare così forte; è apparsa evidente a tutti la mistificazione che veniva fatta, sulle armi di distruzione di massa, sulla lotta contro la dittatura, etc., in confronto alla reazione del popolo irakeno che è riuscito a mettere subito alle corde Bush ed i suoi alleati, fino al ritiro spagnolo.
Tutto il popolo irakeno è insorto ed anche il tentativo di dare una qualche credibilità al governo fantoccio alleato e di dotarlo di forze di polizia e di difesa autonome è rapidamente fallito. La risposta è stata talmente determinata che la difficoltà politica USA si è riverberata nelle relazioni internazionali con le altre grandi potenze che sono decisamente peggiorate.
A peggiorare la situazione sono poi venute le notizie sulle torture che hanno fatto saltare ogni mistificazione sulla missione democratica e “civilizzatrice” dell’alleanza messa in piedi dagli americani.
Dato, però, l’attuale contesto generale anche per la resistenza del popolo irakeno è difficile fare paragoni con altri momenti di lotta antimperialista come quella, ad esempio, del Vietnam. Oggi infatti non c’è una unità politica del fronte di lotta interno, hanno in qualche modo spazio divisioni che corrono sui crinali religiosi ed etnici, senza credere però troppo a quello che ci dice l’informazione ufficiale, e comunque questa lotta non ha sponde internazionali a cui fare riferimento se non in modo indiretto per quanto riguarda alcuni paesi dell’area e, per certi versi, l’Unione Europea.
Incide sulle rappresentazioni collettive della lotta in corso il processo di regressione politica indirizzatasi verso forme più arretrate di ideologia, come appunto quella religiosa od etnica, prodotte proprio dall’azione soggettiva dell’occidente a partire dal sostegno alla lotta contro i sovietici nell’Afghanistan degli anni ‘80.
Lo scenario presente in Irak vede nella resistenza sicuramente la presenza di una componente laica e progressista ma che si presenta numericamente ridotta rispetto al prevalere della dimensione religiosa dei clan, delle etnie etc.; discorso ancora più complicato per quanto riguarda le forze di ispirazione socialista o comunista che appaiono molto deboli.
Questo ritorno alle ideologie e rappresentazioni precapitalistiche sono, ora_ un punto di resistenza all’intervento USA ma sappiamo che possono essere an— che la condizione per il prodursi dei semi-stati funzionali alle esigenze imperialiste, e non è certo un caso che si parli della divisione in tre parti dell’Irak.
La formazione di queste entità permette, infatti, l’attuazione del “divide et impera” e la cooptazione dei loro dirigenti.
Su queste valutazioni ed analisi è importante essere estremamente chiari, non tanto per esprimere giudizi di merito spesso inutili, ma per capire come dobbiamo muoverci su questo terreno nuovo per l’antimperialismo.
Riteniamo che la battaglia politica vada compiuta su due piani in relazione tra loro ma che non possono oggi identificarsi. Il primo è quello della difesa della autodeterminazione del popolo Irakeno e della integrità del suo stato come prodotto delle lotte dei popoli condotte nel ‘900 e come attuazione dei principi democratici.
Non si tratta solo di difendere le conquiste delle lotte fatte, come già avviene per le questioni sociali, del lavoro, etc. anche nei paesi sviluppati, ma anche di attuare quel principio democratico borghese per cui ogni popolo può decidere il proprio futuro sulla base di libere elezioni, sia nel caso di affermazione della indipendenza che in quello di costruzione di entità più ampie rinunciando così volontariamente a delle sue prerogative.
Se c’è una svolta reazionaria deH’imperialismo e non siamo in una fase di affermazione della egemonia ma del dominio capitalistico non possiamo separarci da ampie battaglie democratiche e di massa che rappresentano in queste condizioni un limite alle tendenze dell’imperialismo attuale. Tra l’altro queste battaglie sono eminentemente politiche ovvero riguardano la condizione immediata che, seppure sappiamo bene non essere rivoluzionaria, segna alcuni elementi di ripresa del conflitto internazionale e di classe in modo significativo anche per ampi settori sociali.
L’immediatezza della battaglia politica e di massa non può, però, mettere in secondo piano la necessità dell’internazionalismo che si ponga nella prospettiva del superamento dell’attuale sistema sociale. Ovviamente questo punto non è all’ordine del giorno ma deve essere anch’esso oggetto di iniziativa, di informazione e di formazione in quanto la battaglia su questo piano, oggi essenzialmente politica e culturale, va fatta contro l’ideologia predominante; ma è necessaria anche per il superamento delle ideologie “precapitalistiche” che sorgono dalla crisi della prima e che, invece, possono essere utilizzate per fini opposti agli interessi dei settori sociali che li assumono come loro rappresentazione.
Questo doppio livello non è certo una scelta politica, né potrebbe esserlo, ma è una condizione nella quale agire tenendo presente la necessità, affatto scontata, di non far confiiggere questi due piani che sinergicamente possono invece esprimere forti potenzialità.
Questo è vero laddove lo scontro è concreto e materiale oltre che politico come appunto in Irak, ma anche nei paesi capitalistici avanzati esiste una differenziazione che va tenuta ben presente. Non rispettare la condizione in questa fase storica data, confondere il piano della battaglia democratica con quella della trasformazione sociale, non rispettare la inevitabile dialettica dei contenuti e delle diversi “moduli” di organizzazione significa slittare o nello schematismo o nel tatticismo di corto respiro.
Ciò rischia di rimuovere la coscienza che stiamo dentro un processo in evoluzione, dentro una articolazione molto complessa della realtà e soprattutto che non abbiamo a disposizione una teoria verificata che sappia guidare positivamente l’azione politica; ritorna qui la questione centrale della soggettività che non può essere ricostruita che dentro un rapporto con la realtà e con una verifica attenta e schietta dei risultati ottenuti che miri a ricostruire quella capacità di egemonia e direzione politica che nel passato è stata potente ma che oggi non esiste.
ISRAELE E PALESTINA
Nel valutare le prospettive del Medio Oriente un ruolo centrale lo detengono Israele e la resistenza palestinese; la funzione dello stato israeliano è stata, fino alla caduta dell’Unione Sovietica, quella di contrastare i processi di liberazione in quell’area e dunque sostanzialmente di tenuta e di difesa del suo stato e dell’occidente.
Oggi la condizione è totalmente cambiata e la forza militare israeliana è proiettata a sostenere il controllo coloniale di quella regione, cioè è stretta mente collegata all’obiettivo degli Stati Uniti di tenere dentro la competizio ne internazionale il ruolo di paese predominante, in questo caso in funzion esplicitamente antieuropea.
L’Afghanistan, l’Irak occupato, Israele sono una rete di controllo milita che tiene sotto ricatto tutti i paesi arabi a cominciare dalla borghesia fina ziaria dell’Arabia Saudita che ha osato pensare che fosse possibile gestire proprio le risorse petrolifere; solo così si può spiegare la relazione tra gli USA e Bin Laden, rappresentante di quella borghesia finanziaria, prima alleato utile contro il comunismo e poi divenuto nemico mortale dell’occidente. Lo scontro nasce quando i gruppi dirigenti Sauditi hanno pensato di poter ottenere una qualche autonomia in cambio dei servizi resi nella lotta contro il comuniSmo.
La pressante campagna sull’antisemitismo fatta dai politici e dalla industria dell’informazione e dello spettacolo statunitense, che ha raggiunto livelli parossistici tali da creare reazioni di rigetto, è una copertura ideologica per sostenere il progetto coloniale che afferma che quei popoli non sono in grado da soli di raggiungere la “civiltà” e che dunque l’occidente, e Israele con questo, hanno il “dovere” di aiutarli a raggiungere la tanto agognata democrazia in tutti i modi possibili.
Questo ruolo dello stato israeliano implica in sé un effetto boomerang pericolosissimo per la causa ebraica; non è affatto un caso che siano sempre più gli intellettuali di origine o di credo ebraico che prendono le distanze dalle politiche israeliane.
L’organicità e la importanza di Israele nel progetto USA sta dando, comi effetto probabilmente non voluto, un potere alla destra di Sharon di ricatti notevole nei confronti degli stessi americani tale da far apparire una certa autonomia politica, talvolta anche problematica, che produce processi di estremizzazione nell’aggressione e nei progetti espansionistici verso i palestinesi.
Le prospettive di “guerra permanente” nel Medio Oriente danno anche alla lotta del popolo Palestinese una nuova funzione generale in quanto il sostegno alla causa di quel popolo non è solo motivato dal diritto alla terra ma anche dalla opposizione alla competizione che ormai produce guerra e morti per tutti i paesi. La questione palestinese rimane un punto di battaglia generale che va sostenuto senza alcuna esitazione nella lotta per affermare il sacrosanto diritto alla autodeterminazione di quel popolo.
La causa palestinese e Cuba hanno un destino comune anche in questo periodo storico; nella seconda metà del ‘900 hanno rappresentato la lotta antimperialista e l’emancipazione dei popoli dallo sfruttamento brutale del capitalismo. Oggi sono due irriducibili granelli messi nel meccanismo del conflitto interimperialistico che obiettivamente rendono difficile la sua mistificazione e la mediazione, sempre tentata, tra le grandi potenze sulla pelle dei popoli.
SIRIA ED IRAN, DUE STATI DA DISGREGARE
Nei conti degli USA è chiara anche la prospettiva che si vuole dare a questi due paesi che rappresentano più che antagonisti politici o ideologici quegli stati nel pieno dei propri poteri che intralciano lo sviluppo capitalistico nello sfruttamento coloniale delle materie prime.
Portare questi paesi alla condizione di semi-stati confessionali o di altra natura è l’obiettivo su cui gli Stati Uniti ed Israele stanno coscientemente lavorando, per riprodurre una condizione di totale subordinazione ed una politica di massacro delle popolazioni civili con la scusa della lotta al terrorismo, alle armi di distruzione di massa o di chissà quale altra invenzione.
Questo permette di continuare a dimostrare l’arretratezza degli “islamici”, la necessità della loro emancipazione da parte dell’occidente ed a sostenere tutto il bagaglio ideologico con cui stanno portando alla guerra non solo i popoli di quell’area ma anche quelli, obnubilati dalla propaganda raffinata dei mass-media, dei paesi imperialisti, senza che se ne abbia la chiara percezione.
Il razzismo mistificato che pervade le classi dirigenti dell’occidente in funzione dei loro obiettivi economici e strategici è stato grandemente assimilato da ampi settori della sinistra nostrana e dalla intellettualità che, mentre sono antirazzisti rispetto alla immigrazione tanto quanto la borghesia illuminata che ha bisogno di manodopera a basso costo, continuano a sostenere un modello di civiltà che è il presupposto per la eliminazioni delle altrui civiltà e libertà.
Le “battaglie” per i diritti umani, contro le “feroci” dittature in giro per il mondo, quella fatta contro l’Unione Sovietica in particolare nella vicenda Afgana (poi si è visto come è andata a finire), stanno producendo uno scenario mondiale devastato, e che sarà sempre più devastato, dal quale le anime belle della nostra sinistra cercano di prendere le distanze ma che invece del quale ne sono state ideologicamente corresponsabili.
Di esempi se ne potrebbero fare molti, quello che invece è importante capire è che la battaglia ideologica e culturale nel fronte “interno” ha un valore importantissimo: ed oggi può trovare forti argomenti a partire dai risultati reali della caduta del muro di Berlino. Naturalmente bisogna liberarsi dalle nostre “incrostazioni” del ‘900, trovare le nuove forme di comunicazione e di rappresentazione ma bisogna rompere con la prevalente subordinazione della sinistra, spesso anche di quella in buona fede.
La Siria e l’Iran sono i due prossimi potenziali obiettivi degli Stati Uniti; anche da noi si continua a parlare a sinistra di integralismo, di dittatura e falsa democrazia, pronti poi a piangere sulle disgrazie della guerra come sta accadendo per l’Irak dove i massacri di giovani, donne e bambini non hanno termine. Non bisogna permettere che si continui a mistificare sugli effetti che le dinamiche del capitalismo, sia esso USA o anche europeo, stanno producendo, dandoci degli strumenti di battaglia politico-culturale che riescano ad incidere ed a produrre punti di vista diversi nel devastato contesto culturale del nostro paese e della nostra sinistra.
L’AUTODETERMINAZIONE DEL POPOLO KURDO
Il sostegno alla causa del popolo Kurdo in Italia è sempre stato ampio e forte, le mobilitazioni sono sempre state partecipate e convinte e quella causa affonda le sue radici nel nostro paese nella solidarietà antimperialista dei decenni passati. È naturale dunque riaffermare con forza il sostegno per l’autodeterminazione del popolo Kurdo come diritto democratico da sostenere anche nella nuova condizione storica attuale.
Questa convinzione però non può non farci pronunciare su quello che sta accadendo in Irak a causa dei gruppi dirigenti locali, anche perché è bene essere molto chiari ed espliciti in una situazione dove gli sviluppi sono molto rapidi e quello che appariva inevitabile fino a ieri oggi è del tutto errato.
La nascita di un mini stato Kurdo nel nord dell’Irak a noi non appare come un primo passo verso una entità nazionale indipendente ma l’avallo alla politica coloniale nel Medio Oriente; questa nostra opinione nasce dal fatto che la liberazione del proprio popolo non può essere prodotta da una aggressione militare, in particolare se si tratta di quella USA, ma da un processo di effettiva indipendenza che, a tutt’oggi, non traspare affatto dalla situazione irakena e dalle scelte filo-americane fatte dalle quelle classi dirigenti locali.
Piuttosto la situazione che si sta manifestando dovrebbe far riflettere sul fatto che la scelta filo-americana indebolisce la causa del popolo Kurdo e che, in caso di sconfitta degli “alleati”, quel popolo potrebbe essere purtroppo di nuovo vittima di massacri comunque e sempre ingiusti ed ingiustificati.
Senza voler esprimere giudizi al di fuori della nostra portata ci sembra che ancora una volta il nodo centrale di questa questione è la politica della Turchia, sempre alleata degli Stati Uniti, che non intende riconoscere in alcun modo la stessa esistenza del popolo Kurdo; nessuna liberazione è possibile se non passa attraverso il nodo turco. Di conseguenza pensare, o rappresentare, la costruzione dello stato Kurdo indipendente partendo dall’Irak, dalla Siria e dall’Iran, dove risiede una parte minima della popolazione, di fatto significa avallare i progetti di disgregazione statuale senza avere in cambio nemmeno una parvenza della autodeterminazione.
APRIRE LA DISCUSSIONE
La prospettiva del riacutizzarsi delle contraddizioni interimperialistiche produce una riorganizzazione complessiva, sia degli aspetti economico-sociali che di quelli politici e militari, e avrà effetti potenti sulla condizione mondiale attuale, che già appare come fase di transizione.
Se è vero che un tale riacutizzarsi ha origine dai meccanismi profondi del capitalismo bisogna aver chiaro che è improponibile fare meccanicistiche comparazioni con la storia del secolo passato e, magari, pensare che nulla è cambiato.
In realtà abbiamo il compito di analizzare e capire a fondo la situazione attuale avendo la coscienza che viviamo in condizioni storiche e materiali diverse e che il compito principale che abbiamo è quello di aprire un ampio dibattito ed un lavoro di ricerca per conoscere ma anche per trarre delle corrette indicazioni di battaglia politica.
Il testo che sottoponiamo al giudizio ed alla critica dei compagni vuole essere, perciò, un contributo alla discussione da fare, coscienti sia dei limiti della nostra elaborazione ma anche della necessità di operare affinché questi limiti siano superati in quanto la nuova condizione generale produrrà nuove necessità concrete.
Dopo decenni di offensiva dei paesi imperialisti contro i popoli del mondo cominciano ad emergere dei segni di resistenza a questa aggressione ed alcuni cominciano di nuovo a reagire ed a battersi.
Se la nostra analisi sulla competizione globale è corretta non è difficile prevedere anche una “resistenza globale” che si porrà non solo come fatto specifico legato a questa od a quella situazione, nel Medio Oriente o nell’America Latina, ma come una controtendenza che “obiettivamente” potrà porre la questione dell’attuale assetto sociale capitalistico.
Dobbiamo, perciò, sapere fin d’ora che dovremo costruire non solo una capacità di lettura della realtà ma anche misurarci con la necessità di lavorare perché “un’altro mondo è possibile” non solo negli slogan ma nella concretezza della nostra azione politica posta oggi di fronte alla ripresa del conflitto di classe e della resistenza dei popoli oppressi.
CREDITS
Immagine in evidenza: Hezbollah parade
Autore dell’immagine: khamenei.ir, maggio 2000
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Immagine originale ridimensionata e ritagliata