Mauro Casadio – prefazione a Eurobang. La sfida del polo europeo nella competizione globale
Nella nostra epoca appare sempre più evidente come la società divenga continuamente più complessa e ancor più collegata a livello internazionale.
La base materiale che ha dato vita e forza a questa tendenza irreversibile è la profonda trasformazione avvenuta negli ultimi 20/25 anni nel sistema produttivo, il quale si è sviluppato “uscendo” dai cancelli delle fabbriche e modellando l’intera società attorno alle caratteristiche delle nuove forme produttive ed economiche.
Sempre, da quando il capitalismo è il modo di produzione dominante, la società nel suo complesso e le istituzioni si sono adeguate alle necessità della produzione ma hanno dovuto tenere conto anche di altri elementi di carattere culturale, religioso, politico, ecc., che non necessariamente andavano nella stessa direzione voluta dalla società capitalista.
Oggi la condizione è diversa; infatti non solo la società, la cultura e le istituzioni sono piegate nelle loro finalità alle esigenze della produzione del profitto ma addirittura sono parte integrante di tale sistema.
Questo cambiamento nelle forme e nella estensione dell’economia capitalista ma non della sua natura, ha inciso profondamente sul movimento sindacale ed anche le forze politiche nate dal movimento operaio hanno conosciuto una mutazione profonda di fronte a questa capacità di “rivoluzionare” la produzione.
Non vogliamo qui entrare nel merito di questioni politiche ma certamente qualsiasi forza, sindacale o politica, che si ponga la questione dell’indipendenza come principio guida nella difesa degli interessi dei lavoratori in generale, non può non analizzare, nel modo più profondo e serio possibile, la realtà attuale del sistema produttivo e finanziario ma soprattutto deve capire, individuare le tendenze di fondo che operano nella trasformazione odierna.
é per questo che ci siamo impegnati in un lavoro di inchiesta che vuole rendere esplicita e chiara la chiave di lettura che non è mai andata molto al di là di una verifica ed analisi empirica.
Per tale motivo questa prima parte dell’inchiesta, che ha un carattere statistico-economico, non si è limitata a “fotografare” la situazione ma ha cercato di elaborare un quadro economico e produttivo che parte dagli anni ’70 ed arriva fino al 1999/2000.
Un trentennio questo in cui il capitale europeo ha cercato di coordinare e concentrare i suoi obiettivi e le sue risorse confliggendo pesantemente con i lavoratori.
La realtà che emerge è ben diversa da quanto ci viene rappresentato da tutte quelle forze, sindacali, politiche, culturali, coinvolte nella gestione del cosiddetto “pensiero unico” di cui l’unificazione europea resta uno dei miti più invasivi.
La rappresentazione che viene propagandata oggi è, infatti, quella della “globalizzazione”, ovvero ci viene detto che ormai ci avviamo a passi sempre più decisi verso una dimensione globale dell’economia, della politica, della cultura, in un progresso che parte certamente dai paesi più avanzati ma che mano a mano dovrebbe coinvolgere e trascinare anche paesi ancora non sviluppati. Ovviamente tutto ciò avverrebbe in un clima di pace e di rispetto dei diritti umani perchè non c’è più l'”impero del male”, ovvero l’URSS, e con una scomparsa delle differenze di classe visto che ormai veniamo ritenuti quasi tutti ceto medio.
L’importante è tenere bene a mente la “ricetta” alla base di questo sviluppo, ovvero la competitività, la flessibilitˆà, la privatizzazione generalizzata, ecc., ecc.
Per affermare questa visione del mondo tutti gli strumenti di formazione ideologica lavorano incessantemente, giorno dopo giorno; i giornali, la televisione, i politici di destra e di sinistra, gli intellettuali ed infine la chiesa sono gli apparati che svolgono questa funzione di indottrinamento.
Siamo palesemente di fronte ad un’opera di rappresentazione della realtà che cerca di dare copertura ad uno sviluppo che somiglierà sempre più ad una giungla competitiva piuttosto che ad una crescita armonica.
La potenza di tale rappresentazione trova una delle sue motivazioni in una fase storica in cui non c’è più opposizione di massa nè di carattere politico nè, tanto meno, di carattere culturale e questo anche da parte delle forze della sinistra che ancora rivendicano il carattere sociale della loro azione.
Questo non significa che non esista opposizione, anzi da vari ambiti sociali, politici, culturali, sindacali vengono segnali di malessere se non di iniziativa, che mancano però di una visione organica che dia loro coesione e forza; è sempre più evidente, dunque che l’assenza di una visione analitica e scientifica della realtà toglie forza ed energia a chi non vuole cadere nell’inganno del “grande fratello”.
Per questi motivi mettere al servizio del pensiero critico, ovunque si manifesti, questa inchiesta pur nei suoi inevitabili limiti, può contribuire a offrire chiarezza a chi si muove “fuori dal coro”.
Il lavoro di inchiesta parte appunto dalla affermazione della “globalizzazione” e dimostra che di globalizzato in realtà c’è la sola dimensione finanziaria, con una devastante speculazione che riesce a mettere in ginocchio paesi interi, e una competizione sempre più forte, sempre più veloce.
Quello che emerge dai dati è che la competizione non avviene, come vogliono i dettami economici del capitalismo, tra imprese nel mercato mondiale ma si configura sempre più come competizione tra aree economiche, tra blocchi economici.
L’analisi, infatti, parte dal confronto tra UE, USA-Nafta e Giappone in quanto centro di un potenziale blocco asiatico seppure ancora molto contradditorio.
Se vogliamo avere una visione non solo della situazione presente nel nostro Paese ma anche delle tendenze che su tale situazione agiscono, dobbiamo ormai partire inevitabilmente dalla dimensione europea e dall’integrazione delle diverse economie del nostro continente.
Globalizzazione, dunque, della finanza e della competizione e “regionalizzazione” degli apparati economici, su questa tesi l’inchiesta fornisce una serie di dati sui quali riflettere.
Oltre ai dati, però, noi vorremmo mettere in evidenza alcuni eventi che ci sembra confermino tale tendenza in modo evidente.
Il primo è relativo ad una contraddizione palese, che si manifesta nella rappresentazione di regime che viene fatta: se è vero che l’economia si globalizza perchè invece di rafforzare e dare più potere agli organismi economici internazionali quali il FMI, la Banca Mondiale, il WTO, ecc. si costituiscono l’euro e l’Unione Europea?
Evidentemente qui c’è qualcosa che non va e che va spiegato.
E ancora perchè se l’economia è globalizzata ogni giorno veniamo informati della competizione euro/dollaro?
Dal 1995 avvengono periodicamente crisi finanziarie che sembrano causate dalla mano invisibile del mercato, cioè il Dio di moda oggi. Le più famose sono quella messicana del ’95 e quella asiatica del ’98.
Se guardiamo ai risultati finali di tali crisi possiamo constatare che dopo il ’95 il Messico è diventato il luogo privilegiato di investimento delle imprese statunitensi per produrre merci competitive a costi bassissimi, grazie al costo del lavoro che è stato tagliato fortemente a causa proprio della crisi finanziaria; di fatto quel paese è un nuovo Stato da aggiungere ai 50 che costituiscono gli USA.
Per quanto riguarda la crisi asiatica il risultato è stato quello di mettere in ginocchio il Giappone che è uno dei paesi che, con gli USA e l’UE, costituiscono la triade delle aree economiche più forti nel mondo.
Se così è, come peraltro ammettono chiaramente alcune fonti del FMI, è chiaro che le crisi finanziarie non hanno una origine “divina” ma sono veri atti di “guerra economica” che gli USA mettono in atto per mantenere la loro egemonia mondiale.
Forse non è un caso che, grazie anche al rincaro del petrolio, al centro dell’attenzione economica internazionale ci sia la competizione tra dollaro ed euro; probabilmente questo è un altro episodio della guerra economica che si svilupperà nei prossimi anni per affermare ancora una volta la supremazia di qualcuno.
In conclusione, ciò che emerge dall’analisi statistica-economica e dalle cronache economiche e politiche, è un mondo in cui si vanno formando blocchi economici che determinano tra loro uno sviluppo ineguale, riguardo la crescita economica, i modelli produttivi, il che porta ad una sempre più accentuata competizione che in termini generali non fa prevedere nulla di buono.
Se questa è la tendenza che comincia a manifestarsi in modo palese, allora possiamo definire con più precisione la collocazione del nostro Paese e capire meglio le tendenze che si manifesteranno nell’apparato produttivo e dunque tra i lavoratori e la società nel suo complesso, visto che ormai l’osmosi tra società e luoghi della produzione è sempre più stretta. L’Italia si trova in uno dei blocchi dominanti e da questa posizione sviluppa le sue potenzialità economiche. Alcuni elementi sono già evidenti: il primo è quello della cosiddetta delocalizzazione della produzione di merci, ovvero di quella produzione con basso valore aggiunto e con forti investimenti in forza lavoro che viene trasferita all’estero, in molte parti del mondo dall’America Latina all’Estremo Oriente, al Centro-Europa. Il flusso più forte di questi investimenti, cioè gli IDE come vengono definiti, va verso i Balcani dove imprese italiane, con poche decine di dipendenti in patria, hanno addirittura migliaia di operai occupati. In parole povere la produzione fordista degli anni ’60 e ’70 è stata delocalizzata all’estero, e soprattutto all’Est Europeo, ed i prodotti fatti in quei paesi diventano “Made in Italy”, perchè giungono nel nostro Paese quasi completati ed in forma di prodotti semilavorati così da poter pagare tasse d’importazione molto più basse. Se si parte da questo punto di vista si capisce forse meglio perchè il nostro Paese è stato in prima fila nell’aggressione alla Jugoslavia e nella penetrazione in Albania, Romania, Croazia, Slovenia, ecc.
Questa dimensione produttiva ci dà un’immagine diversa della configurazione delle imprese e della produzione che si può sintetizzare nella definizione di “filiera produttiva”. Senza entrare troppo nel merito delle conseguenze di quest’organizzazione cerchiamo di indicarne schematicamente gli effetti. Una “filiera produttiva” è la strutturazione di una impresa a livello internazionale attuata per abbassare i costi ed aumentare la competitività. Un’impresa così strutturata mantiene, ad esempio in Italia, le parti legate alle operazioni finanziarie, alla progettazione del prodotto, alla fase finale dell’assemblaggio e del marketing e soprattutto alla commercializzazione nei mercati dei paesi sviluppati. Tutte queste operazioni, interne di fatto all’attività delle imprese, possono essere fatte o con propri dipendenti o con lavori dati in appalto, in varie forme, per ridurre ulteriormente i costi; inoltre tutto è finalizzato a vendere la merce prodotta nei mercati più ricchi per realizzare profitti più alti. Le parti legate, invece, alla produzione vera e propria, che può avere caratteristiche di massa e fordiste, ma in alcuni casi riprodurre anche forme di schiavismo industriale, viene delocalizzata nei paesi dove il costo del lavoro è più basso possibile. Si pone un problema, in questo caso, di vicinanza dei luoghi della produzione delocalizzata ai mercati di sbocco per contenere le spese di trasporto. Se si considera che nell’UE circa il 75% del commercio è interno si comprende bene l’importanza del controllo economico, politico e, se è il caso, militare delle zone vicine all’Europa Unita e cioè tutta l’Europa dell’Est ma anche il bacino Mediterraneo.
Contemporaneamente un altro processo sta agendo con forza in tutta l’Europa (ed anche nel resto del mondo) ed è quello della concentrazione.
Poichè siamo in una fase in cui predomina l’aspetto finanziario dell’economia, nei paesi più sviluppati crescono le attività a maggiore valore aggiunto, cioè telecomunicazioni, biotecnologie, energia, servizi in genere, oltre alla speculazione direttamente finanziaria e si accentuano i processi di concentrazione, di fusione, in sostanza di monopolio.
Questi processi, dovuti alla finanziarizzazione, hanno effetti profondi su questi settori sviluppati dell’economia, accentuando la pressione per produrre profitto e provocando una ristrutturazione continua. Tali effetti si manifestano direttamente anche sulle attività economiche e sociali dello Stato che vengono piegate sempre più alle esigenze della dimensione finanziaria dell’economia. Privatizzazioni, fondi pensione, aumento delle tasse e sgravi fiscali alle imprese, sono solo gli esempi più evidenti di un elenco che potrebbe essere molto più lungo.
L’insieme di questi processi, che hanno avuto una forte accelerazione durante tutti gli anni ’90, ha agito ed agisce con forza sui lavoratori modificandone le condizioni oggettive ed anche soggettive.
L’inchiesta fornisce una serie significativa di dati, per cui ci limiteremo a delineare quali sono i tratti caratteristici della trasformazione della composizione di classe, avendo in mente gli effetti ultimi delle tendenze in atto piuttosto che prendere in considerazione i vari stati intermedi che si determineranno nella trasformazione e che potrebbero in alcuni casi contraddire, transitoriamente, i processi di fondo.
Quest’approccio analitico è importante perchè elimina il pericolo di cadere nella lettura sociologica dei dati e porta a definire con chiarezza una propria posizione, una propria tesi. é evidente che quest’assunzione di responsabilità può implicare anche errori e smentite, ma è inevitabile, per chi si pone il problema di intervenire nella realtà e non solo di analizzarla, non rimanere in una genericità ambigua ed alla lunga politicamente e culturalmente disarmante.
Il primo dato che si impone è che la classe operaia ed i lavoratori salariati e dipendenti del sistema produttivo italiano, ed in prospettiva europeo, non hanno più una dimensione nazionale; lavoratori ed operai di uno stesso sistema di imprese vengono dislocati su una dimensione internazionale e più specificamente europea-continentale per la loro gran parte. Prendere coscienza di questa tendenza e capire le conseguenze che ne derivano è un compito centrale; l’immigrazione è solo un aspetto di un processo che ha la sua parte più consistente nell’integrazione continentale dell’economia.
L’altro dato che emerge è la modifica della condizione di lavoro dei lavoratori italiani. Se la parte del sistema che rimane in Italia è rappresentata dai settori economici più sviluppati e finanziarizzati la tendenza alla terziarizzazione dell’economia ne esce rafforzata. Terziarizzazione non significa affatto lavori qualificati, anzi siamo di fronte ad un aumento dei lavori dequalificati, ma una trasformazione radicale della “composizione di classe” dei lavoratori nel nostro Paese e cioè delle funzioni lavorative concrete che i lavoratori svolgono dentro un determinato apparato produttivo. Le “sezioni” in crescita del mondo del lavoro dipendente sono quelle di tipo tecnico-impiegatizio, di lavoro non qualificato nei servizi, di lavori nella commercializzazione, pubblicità, ecc., ai quali si affiancano una serie di lavori falsamente autonomi, altamente mobili e flessibili. Anche la “sezione” collegata alla produzione di merci subisce profonde modifiche prodotte dallo sviluppo dell’assemblaggio e dall’automazione della produzione che cambiano le caratteristiche del lavoro operaio più tradizionale sempre meno legato alla catena della grande fabbrica. La trasformazione più profonda della condizione operaia riguarda la perdita della “concentrazione” a vantaggio di una “diffusione” anche nelle piccole e medie imprese e verso il lavoro falsamente autonomo.
La costituzione del blocco economico europeo crea una classe lavoratrice internazionale, che però si differenzia rispetto alle caratteristiche produttive dei singoli paesi e vede un aumento dei lavoratori dei servizi, qualificati e non, al centro del blocco mentre i lavoratori addetti alla produzione vengono collocati alla periferia dello stesso.
C’è, inoltre, anche una differenza quantitativa nei redditi dovuta al fatto che i lavoratori del “centro” sono interni al mercato sviluppato mentre quelli della periferia fanno parte di economie più deboli e subordinate dove le fasce di mercato sviluppato, equiparabili a quelle del cosiddetto centro, rappresentano percentuali molto ridotte.
Un’altra modifica riguarda la condizione del lavoro dipendente in genere; il passaggio dalla produzione di serie al terziario, nelle forme descritte ha prodotto lo smantellamento delle tutele del lavoro modificando in primo luogo le caratteristiche dell’occupazione. Non sono cambiate solo le “qualifiche” dei lavoratori ma sta cambiando anche il rapporto di lavoro stesso passando, ovviamente in modo graduale, dalla prevalenza di lavoro stabile a quello del lavoro precario. Infatti, l’aumento della disoccupazione nei paesi europei, ma anche negli USA e in Giappone, nonostante i criteri statistici là usati, ha determinato la nascita di un enorme “esercito industriale di riserva” che non ha le caratteristiche della disoccupazione Keynesiana, cioè causata dal ciclo economico nella sua parte “bassa”, ma diventa un elemento permanente del sistema sociale e dunque di ricatto della forza lavoro. Di lavoro flessibile, part-time, interinale, a tempo, contratti week end, ecc., sono pieni i giornali e le televisioni. Essi vengono indicati come modelli di vita “libera” e moderna; in realtà sono strumenti di forte riduzione dei redditi da lavoro dipendente ma anche autonomo, laddove si dà vita, sotto le mentite spoglie del lavoro indipendente, a forme estreme di cottimizzazione del salario.
Dall’inchiesta emerge un dato molto significativo riguardo alla produttività, che registra un aumento costante ed elevato dagli anni ’70 fino al gennaio del 2000, ultimo dato disponibile; questo aumento non è dovuto, per gran parte, allo sviluppo tecnologico, che incide ma in modo ridotto, ma alla produttività del fattore lavoro. Ciò significa che l’accumulo della ricchezza investita nel sistema finanziario è dovuto soprattutto allo sfruttamento della forza-lavoro e che la trasformazione tecnologica ha apportato certo un aumento parziale della produttività ma questa è servita ad eliminare soprattutto le resistenze dei lavoratori disgregandoli all’interno di un nuovo sistema produttivo.
Questa pressione continua sul lavoro si riversa sia sui redditi sia sull’orario di lavoro, con una tendenza alla riduzione dei primi contrastabile solo con un forte aumento del secondo.
Nell’inchiesta appare chiara la tendenza in Europa per quanto riguarda l’occupazione, mentre per i redditi e l’orario di lavoro è stato molto più difficile trovare dati più vicini alla realtà poichè quelli ufficiali vengono estrapolati dalle categorie cosiddette garantite e sembrerebbero in contrasto sia con il calo dei redditi che con l’aumento dell’orario di lavoro. Non è difficile scoprire questo “trucchetto” statistico quando sappiamo benissimo che aumenta sempre più quella parte del mondo del lavoro, anche nero, che non ha regole ne può essere controllato.
Abbiamo appena accennato prima agli effetti che la finanziarizzazione dell’economia produce sullo Stato sociale; senza entrare nei meccanismi che producono tali effetti, che verranno analizzati successivamente, vanno segnalate due conseguenze di notevole rilievo.
La prima è dovuta ai processi di privatizzazione che, riducendo all’osso il lavoro garantito nei servizi pubblici, amplia l’esercito industriale di riserva e la disoccupazione, tagliando ulteriormente le tutele ad un importante settore di lavoratori che è rimasto di fatto la categoria più consistente nel nostro Paese.
La seconda è relativa al peggioramento dei servizi pubblici ed al pagamento diretto di tali servizi da parte degli utenti che subiscono un ulteriore riduzione dei redditi.
In conclusione, se è vero che i lavoratori dei paesi più forti, in linea di massima, vivono condizioni migliori di quelli della periferia produttiva, è anche vero che in termini assoluti si va verso una riduzione sistematica dei redditi che nelle aree depresse, quali l’Italia meridionale, non si discostano molto in termini di salari reali dai livelli dei paesi periferici.
Fin qui abbiamo cercato di mettere in evidenza le linee emerse dall’analisi dei dati riferiti al periodo 1970/2000; è evidente che quanto detto è orientativo e che nella realtà potranno essere molti gli elementi che potrebbero modificare il quadro generale tracciato.
Tra questi elementi ve ne potranno essere di carattere politico ed anche militare; non bisogna dimenticare che nell’Europa dell’Est si gioca una partita strategica e geopolitica tra UE e USA che inciderà sulle linee di sviluppo dell’Europa stessa.
Va detto anche che sulle tendenze della riorganizzazione produttiva e sulla conseguente composizione di classe, nei termini spiegati prima, abbiamo fatto un ragionamento legato al contesto europeo ma centrato sull’Italia. Questo significa che in paesi quali la Germania e la Francia, dove ad esempio è ancora molto importante la grande industria ed il ruolo dello Stato, le tendenze emerse in questa inchiesta vanno ulteriormente verificate sia per quanto riguarda i modelli produttivi sia per la composizione di classe del mondo del lavoro dipendente, operaio e no; e ciò sarà compito di un’analisi più specifica e mirata che dovremo fare nei prossimi mesi.
Un’ultima riflessione generale riferita a chi interviene sindacalmente e politicamente tra i lavoratori: abbiamo cercato di delineare, nell’inchiesta statistico-economica, la condizione oggettiva del mondo del lavoro ma non possiamo dimenticare la connessione stretta che c’è tra oggettività della condizione e soggettività del movimento dei lavoratori. Se capire le tendenze della prima è difficile, agire sulla seconda è un’operazione ancora più complessa e problematica.
Il dato certo che appare è che alla distruzione delle vecchie forme produttive, causata dalla necessità di contenere il conflitto sociale degli anni ’60 e ’70, è corrisposta anche la scomposizione della vecchia organizzazione sindacale, oltre che politica, dei lavoratori con conseguente perdita d’identità e di possibilità di difesa. Questa scomposizione non ha assunto nel nostro Paese la forma di una crisi organizzativa ma quella della mutazione genetica delle organizzazioni nate dal movimento storico dei lavoratori. Se questo è vero, allora bisogna capire le configurazioni attuali e future della forza lavoro che nasce dal nuovo modello produttivo, per ricostruire organizzazione e coscienza, strumenti di lotta ed identità, e per ridare ai lavoratori quel ruolo centrale che oggettivamente hanno nella nostra società.
L’inchiesta statistico-economica che qui presentiamo riguarda solo la prima parte di un lavoro più ampio che crediamo serva a rafforzare una lettura della realtà antagonista al clima di omologazione che ormai viviamo da troppo tempo.
Passaggi ulteriori necessari dell’inchiesta crediamo che debbano essere l’analisi ed l’interpretazione più approfondita della situazione italiana e dei processi di scomposizione/ricomposizione del mondo del lavoro ed una “inchiesta sul campo” che metta a fuoco, questa volta, non l’oggettività ma la soggettività dei lavoratori italiani per capire come i grandi processi di ristrutturazione si riflettano nella loro coscienza.
Con quest’impegno presentiamo questa prima parte e ci prepariamo ad organizzare il nostro lavoro per i prossimi mesi.
CREDITS
Immagine in evidenza: Lot of cargo freight containers in the Hong Kong sea port
Autore: Timelab Pro, 26 maggio 200
Licenza: Unsplash License;
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