Rete dei Comunisti
Il diktat di Marchionne su Pomigliano e Mirafiori illumina il tipo di risposta che il capitale manifatturiero in un paese avanzato – pensa di dare alla crisi.
Il successo inatteso dei “no” in entrambe le “consultazioni”, nonostante il ricatto esplicito, rende la “vittoria” Fiat solo contingente; la ripresa produttiva in questi stabilimenti (per nulla certa, nonostante le promesse) vedrà in campo lavoratori niente affatto piegati al volere dell’impresa.
Naturalmente, non ci si può attendere un collegamento meccanico e immediato tra resistenza operaia e auspicabile “incendio sociale”.
Se, probabilmente, avverrà quello che diceva qualcuno a suo tempo, ovvero che i reazionari alzano i massi per farseli ricadere sui piedi, a sinistra e nel versante di classe bisognerà ben guardarsi da una lettura meccanicistica.
Troppa acqua è passata sotto i ponti e troppe trasformazioni produttive, sociali ed ideologiche sono intervenute per potersi aspettare una replica delle dinamiche del conflitto di classe che abbiamo ben riposte nella nostra esperienza collettiva e memoria storica. Siamo perciò obbligati ad andare più a fondo nell’analisi per capire bene, in modo non stereotipato e per predisporci a cogliere quella tensione sociale che si manifesta ancora sottopelle ma che in un periodo di crisi sistemica può, in ogni momento, erompere all’esterno.
FIAT, una operazione da “laboratorio”
La risposta Fiat dalla crisi è da manuale: a fronte del venir meno dell’effetto espansivo fin qui garantito dalla finanziarizzazione – una delle principali controtendenze alla caduta del saggio del profitto – si prova ad aumentare il tempo di lavoro. Se si legge con attenzione il “piano”, infatti, troviamo: aumento esplosivo dello straordinario obbligatorio, riduzione delle ore di permesso sindacale, divieto di sciopero. Al netto delle misure illegali o addirittura incostituzionali, il nocciolo della nuova organizzazione del lavoro si concentra nell’allungamento della giornata lavorativa. Ovvero, in termini marxiani, aumento dell’estrazione di plusvalore assoluto.
E’ una risposta regressiva e che mette la Fiat in competizione con la produzione automobilistica dei paesi emergenti, mentre dai concorrenti europei (da Volkswagen a Renault, ecc) si punta su nuovi modelli, più ricchi di innovazione tecnologica, meno inquinanti, ecc.
Ed è una risposta diversa da quanto lo stesso gruppo dirigente Fiat sta facendo sul marchio Chrysler, chiaramente influenzato dalle condizioni imposte lì dal governo statunitense.
La crisi sta quindi producendo reazioni diverse non solo a livello di aree geostrategiche, ma anche all’interno delle singole multinazionali. Gli Usa, con molte difficoltà, hanno inizialmente tentato di ripercorrere la politica del debito e del sostegno alla domanda anche se il recente “discorso sullo stato dell’Unione” di Obama sembra segnare un cambio di rotta, in direzione della riduzione del deficit pubblico.
L’Europa sotto l’egemonia tedesca, invece, ha anticipato i tempi del “rientro” nei parametri di Maastricht, anche a rischio di strozzare nella culla una “ripresa” economica decisamente esangue e disomogenea nei vari paesi del continente. Germania e Francia puntano sulla superiore qualità della loro produzione manifatturiera e accentuano la dipendenza degli altri paesi, trasformati spesso in propri “contoterzisti”. Questa dinamica polarizza anche la possibilità di gestire la coesione sociale interna: i paesi più forti possono mantenere decenti livelli salariali e di welfare, senza forzare oltremisura i livelli di sfruttamento della forza lavoro. Mentre, man mano che si scende lungo le varie filiere produttive, queste condizioni vengono meno: l’allungamento della giornata lavorativa va di pari passo con l’aumento della disoccupazione, l’incremento dell’età pensionabile si accompagna all’espulsione della manodopera “garantita” (cinquantenni con contratto a tempo indeterminato) e alla precarizzazione generale di tutte le generazioni, il taglio dei servizi sociali rende disponibili altri settori di investimento per capitali privati a corto di sbocchi.
L’Italia di Marchionne è un paese che va allontanandosi dal cuore produttivo dell’Europa e che rispecchia, anche merceologicamente, la polarizzazione estrema implicita in questo tipo di risposta: pochi brand di lusso (Ferrari, Maserati, Jeep, Dodge, Cherysler, forse anche Alfa Romeo) per le fasce sociali che mantengono o aumentano il proprio reddito e il marchio Fiat per quelle povere, possibilmente con modelli fabbricati in Turchia, Serbia, Polonia (in Messico, per il mercato Usa).
Questo modello si è presentato fin da subito come una rottura consapevole, chirurgica, senza mediazioni, con il sistema di relazioni industriali costruito nel dopoguerra. Una rottura “coerente” con il tipo di competizione che si pensa di fare (le produzioni dei paesi emergenti) e che punta a riproporne qui alcune modalità.
Un taglio radicale con il passato “concertativo”, caratterizzato da sindacati generali e da contratti nazionali, ossia dal “compromesso tra capitale e lavoro”. Il quadro normativo delineato dal “piano Fiat” prevede infatti un modello di relazioni “complici” a livello aziendale, di tipo corporativo, nella logica competitiva che assume l’impresa come un esercito in guerra contro tutti gli altri. E all’interno di un esercito non è ammissibile né il confronto né, tantomeno, il conflitto. Solo l’obbedienza gerarchica.
Se questa è l’idea di fondo, è però anche facilmente riconoscibile. Non siamo più da 50 anni un paese arretrato: i lavoratori sono abituati a contrattare le condizioni salariali e di lavoro, a costituire sindacati (e a cambiarli, se insoddisfatti), ad esercitare diritti. Il “modello Marchionne” incontra resistenze. Anzi, le produce anche là dove erano diventate quasi un ricordo del passato lontano.
E’ generalizzabile il modello FIAT?
Il Lingotto fa da apripista, dunque. Dobbiamo perciò considerare quale sia il suo peso specifico nell’economia italiana, insieme alla compatibilità del suo “modello” con il resto del sistema produttivo.
Lo spin off tra Auto e Industrial sembra preludere a un abbandono del settore da parte della famiglia Agnelli, ancor oggi azionista di riferimento tramite l’archeologico schema della società in accomandita all’apice di una più “moderna” serie di scatole cinesi di derivazione più finanziaria che industriale. Se l’obiettivo dichiarato del gruppo è raggiungere i 6 milioni di vetture l’anno (soglia considerata “minima” per poter restare sul mercato globale), bisogna dire che la quasi totalità di questa cifra – prendendo per buoni i livelli di produzione promessi per gli stabilimenti italiani – verrà fabbricata altrove. Al tempo stesso, però, il mercato italiano è l’unico nel mondo dove la Fiat raggiunga livelli a doppia cifra (il 27%, nel quarto trimestre 2010). Non va però sottovalutato il fatto che buona parte dell’”appetibilità” delle vetture Fiat in Italia sia legato a fattori “affettivi” di stampo nazionalistico (le vittorie Ferrari in F1, la “nostra” industria automobilistica), oltre che ai livelli di prezzo (soprattutto a livello manutenzione). Abbandonare totalmente la produzione in Italia potrebbe farle perdere ulteriori quote di vendita.
Ma il “cuore” progettuale e il mercato d’elezione è diventato il Nord America. Lì viene spostato gran parte dello staff che progetta i nuovi modelli; lì si investe (grazie ai sussidi del governo Usa) in nuove tecnologie per più bassi consumi e minor inquinamento: lì si pensa di realizzare i volumi di vendita qui impossibili (l’elemento nazional-motoristico vale anche per Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna, naturalmente). A tutti gli effetti, dunque, la Fiat ha ora la configurazione classica di una vera multinazionale, “basata” (per quanto, ancora?) in Italia. L’unica, nel settore manifatturiero (Eni, Enel, Unicredit hanno altre caratteristiche).
Sul piano occupazionale, il solo settore auto ha appena 25.000 dipendenti (ma Termini Imerese è già chiusa), e non si prevedono certo assunzioni. Ma l’indotto auto è enorme e coinvolge – direttamente o indirettamente – quasi un milione di persone. Difficile valutare il disastro occupazionale in caso di fuoriuscita completa del gruppo dall’Italia, ma impossibile sottovalutare il “peso specifico” della Fiat nell’industria e nel fatturato complessivo del paese.
Il “modello Fiat”, così come descritto negli “accordi” di Pomigliano e Mirafiori, sembra attagliarsi meglio ad industrie grandi o molto grandi, con una presenza già affermata sui mercati globali, e che possono perciò credibilmente esercitare sui propri dipendenti lo stesso ricatto pensato da Marchionne: “o così, o me ne vado altrove”.
Per le altre – che hanno il proprio business legato alla territorialità o dimensioni che non consentono una rapida delocalizzazione – allungare la giornata lavorativa e comprimere il salario non è semplicissimo. Il primo obiettivo richiede contrattazione sindacale e qualche contropartita salariale (persino tramite le organizzazioni “complici”). Gestire pacificamente un impoverimento così drastico pare proprio che non sia possibile nemmeno in paesi tradizionalmente dittatoriali (vedere i moti in Tunisia, Egitto, per altri versi Algeria e Albania).
Nel settore pubblico – evidentemente non “delocalizzabile” si potrebbe proseguire sulla via delle esternalizzazioni e della precarizzazione, con seria riduzione dei diritti individuali e sindacali, nonché delle sigle ammesse alle trattative. Ma proprio la “rigidità” intrinseca a questo tipo di settori rende problematica una gestione autoritaria senza contropartite in termini salariali, di benefit, di “discrezionalità appropriativa”. La stessa sintonia tra governo e sindacati complici (Cisl, Uil e sindacalismo autonomo e corporativo) rende difficile portare fino in fondo progetti drastici di riduzione delle libertà sindacali e di netto peggioramento delle condizioni di lavoro dei pubblici dipendenti.
La “fortuna” dell’iniziativa Fiat, dunque, si è fin qui giovata di alcuni fattori difficilmente ripetibili: l’appoggio dichiarato del governo (lo smantellamento delle tutele legislative del lavoro, opera del ministro Sacconi), la “complicità” esibita da Cisl, Uil, Ugl e – tra i metalmeccanici – il sindacato aziendale Fismic. Il tentativo di isolare la Cgil e espellere la Fiom dalle fabbriche appare quindi condizionato da fattori politici abbastanza caduchi: il ciclo berlusconiano volge chiaramente al termine e persino un altro governo “tecnico” o di “centrodestra allargato” potrebbe trovare necessario ri-coinvolgere la Cgil nel gioco delle trattative a perdere.
Sul piano strutturale, infine, le poche imprese medio-grandi e pubblica amministrazione galleggiano su un mare di lavoro disperso e disgregato che caratterizza ormai oltre il 60% della forza lavoro; un mondo che è nato e cresciuto nell’assenza di veri diritti individuali e sindacali, spesso grazie anche alla Cgil e al centrosinistra del “pacchetto Treu”. Un mondo polverizzato in cui il lavoro di ricucitura sindacale è oggettivamente difficilissimo e dove il rapporto di lavoro precario è la norma, non l’eccezione. Un mondo che programmaticamente, però, non è stato mai organizzato da tutti i sindacati confederali, che, sotto questo aspetto, sono tutti complici.
La dinamica della crisi dice che l’ambito della precarietà è l’unico in cui si manifesta una qualche perversa “crescita” dell’occupazione (soprattutto in “nero”, pare). Si tratta di classe propriamente detta, generata da una trasformazione della produzione e della relazioni industriali in atto ormai da tempo. La vicenda FIAT, il tentativo di eliminare il contratto nazionale, la riduzione dei diritti sindacali anche nelle grandi concentrazioni di lavoratori sono la conclusione di un attacco generale già fatto e che ora si appresta ad assaltare le ultime roccaforti di quelli che sono stati i punti di forza del conflitto di classe in Italia. Non siamo all’inizio ma alla fine di una profonda fase di trasformazione che deve essere compresa nei suoi effetti per poterci mettere in condizione di rispondere.
La trasformazione non è mai del resto un “atto improvviso”, ma il risultato di processi di lungo periodo che “precipitano” in un certo luogo, in un certo momento. Per riuscire a organizzare la risposta di classe, perciò, va colta – nella loro relazione – sia la tendenza che la congiuntura; sia il dato di lungo periodo (in cui, come si usa dire, prevalgono gli elementi di continuità) che quello immediato
La crisi del tatticismo.
Se siamo arrivati alla condizione in cui il conflitto di classe è promosso dall’alto, cioè solo dall’avversario di classe, ci sono sia ragioni oggettive (arretramento generale, politico e culturale, davanti alla capacità della borghesia di riprendere il ciclo di crescita dopo gli anni ‘70 e l’89), sia il prodotto di responsabilità soggettive del movimento comunista e di classe (sul piano sindacale e di movimento).
Il punto politico, organizzativo e teorico che vogliamo affrontare è preciso: negli ultimi due decenni, soprattutto in Italia, è stato abbandonato ogni collegamento organico con la classe reale che andava evolvendo sotto la spinta delle modifiche produttive complessive. C’è chi lo ha fatto aggrappandosi a visioni ultra-ortodosse e chi assumendo posizioni “moderniste” fino al ridicolo. Ma comunque lasciando deperire quel grande capitale di organizzazione politica, sindacale, sociale e di coscienza di classe accumulato nei precedenti cicli di lotte.
Senza visione generale, e senza rappresentanza politica a livello nazionale, tende a prevalere il piccolo cabotaggio, l’iniziativa giorno per giorno, la pura reazione anche generosa, ma senza progetto e senza alternativa. E, più spesso, il puro adattamento ad amministrare l’esistente, che sul piano sindacale diventa difendere la propria organizzazione, su quello politico il puntare sulla capacità attrattiva residua di un simbolo prestigioso.
Un “tarlo” che ha minato l’organizzazione di classe nel nostro paese è stato perciò il tatticismo, il politicismo, il prevalere della contingenza a scapito della prospettiva e del progetto di società. Questo “tarlo” è ancora ben presente oggi.
In questo senso si può dare un giudizio positivo sulle recenti scelte della Fiom, ma quello che si pone nella ed oltre la vicenda Fiat è come si organizza complessivamente il mondo del lavoro nella sua configurazione attuale. Il rischio che vediamo è quello di un uso “politico” della vicenda Fiat, ritenuta magari utilizzabile per ridar fiato alla politica della “sinistra”. I comitati costituiti da Bertinotti e Cofferati a sostegno del NO, le varie iniziative politiche che cercano di ricucire una dialettica con il centrosinistra, il reciproco uso strumentale tra sindacato e politica a cui stiamo assistendo, rischiano di divenire un boomerang nel momento in cui tutto questo non trova prospettive dentro un processo di riorganizzazione effettiva della classe.
Questa preoccupazione diviene ancora più forte se si considera che molti dei personaggi che oggi si sono riaffacciati sono gli stessi che sono stati protagonisti di un’altra avventura, purtroppo quasi rimossa, ma che ora mostra tutto il suo significato politico. Ci riferiamo al referendum tenuto nel 1995 sull’art. 19, che ha fissato il criterio dei “firmatari di contratto” per poter usufruire delle libertà sindacali. Un referendum promosso dalla sinistra sindacale e da quello che era allora il Partito della Rifondazione Comunista; concepito per tagliare le gambe al nascente sindacalismo di base e ai movimenti indipendenti, oggi si ritorce pesantemente contro quelli che lo hanno promosso. Marchionne, Cisl e Uil hanno utilizzato proprio quell’articolo per “far fuori” la Fiom.
Il punto politico che vogliamo mettere in evidenza non è tanto il merito di quell’episodio di masochismo sindacale, quanto il fatto che allora come oggi – sia col segno negativo del ’95, sia con quello positivo attuale – se continua a prevalere la contingenza e la necessità tattica, in questo momento di crisi non si andrà da nessuna parte, e conosceremo una nuova sconfitta politica. Quella pratica e quella cultura sono logorate e ormai da tempo hanno mostrato i loro limiti. Prendiamo atto che l’esigenza pratica di uscire da questa logica si è per ora tradotta nel tentativo di dar vita a un “movimento che si autorappresenta” anche sul terreno della politica, ovvero come “Uniti contro la crisi” che afferma di voler costruire una “alternativa sociale”. Non è la prima volta che la sordità dimostrata dalla classe politica rispetto alle domande sociali stimola processi simili. Nel passato, però, questi tentativi si sono sempre scontrati, ad un certo punto, col problema del progetto e dell’organizzazione; ovvero della necessità di dotarsi di una visione unitaria di lungo periodo, struttura organizzata, centri di responsabilità e strategia fortemente ancorati alla prospettiva nettamente indipendente dal centrosinistra.
I Comunisti nel conflitto di classe
Bisogna, dunque, fare i conti con questa situazione sia sul piano dell’emergenza politica sia su quello delle prospettive che rimane dirimente e decisivo anche come verifica per i comunisti su come stanno nel moderno conflitto di classe. La resistenza dei lavoratori della FIAT è una indicazione importante che va raccolta e rilanciata. Lo sciopero dei metalmeccanici indetto dalla FIOM e dal sindacalismo di base per il 28 Gennaio è un primo momento importante che non può che essere seguito dalla sciopero generale e generalizzato. Ci sembra che continuare a tirare la giacca alla CGIL per chiedere lo sciopero è un modo per non fare lo sciopero generale. Continuare su questa strada comunque e chiedere alla FIOM di schierarsi ci sembra un elemento di chiarezza politica e d’indicazione sul lavoro da svolgere.
Questi sono solo i passaggi preliminari ad una visione complessiva di riorganizzazione del movimento di classe e dunque dobbiamo indicare con il massimo della chiarezza i contenuti e i piani di lavoro con i quali misurarci per far ritrovare ai comunisti una funzione reale dentro lo scontro di classe che si ripropone in un moderno Stato imperialista.
L’Indipendenza Politica. E’ l’elemento qualitativo che deve caratterizzare i conflitti nel nostro paese oggi. Quando si parla di indipendenza non si può intendere solo quella enunciata ma quella praticata nel conflitto e, soprattutto, nell’organizzazione del mondo del lavoro e nella società nel suo complesso. Si tratta di confermare e rafforzare un processo che conduca fuori delle alleanze con il centro sinistra e che ha bisogno di strutturalità e capacità soggettive.
La Confederalità. Se è vero che l’attacco di Marchionne intende fare una resa dei conti con la classe operaia della grande impresa e con le grandi aggregazioni di lavoratori è chiaro che la prima risposta è di difendere in tutti i modi l’organizzazione sindacale esistente in questi ambiti. Ma poi bisogna anche andare oltre e rilanciare l’iniziativa perché la crisi sistemica con la quale le società capitaliste stanno facendo i conti aumenta le contraddizioni che permettono non solo la difesa ma anche il rilancio di una vera organizzazione sindacale a cominciare dalle “roccaforti” del mondo del lavoro.
Questa necessità, però, non può prescindere dalla costruzione di una nuova confederalità in quanto nessuna categoria è tanto forte da poter resistere da sola all’attacco a cui sono sottoposti i lavoratori. Allargare l’organizzazione sindacale anche laddove il lavoro è disgregato e precarizzato, trovare le forme adeguate di organizzazione anche per quel 60% di lavoratori considerati fuori dai diritti sindacali, fare delle aree metropolitane dei centri di aggregazione e di lotta significa attrezzarci per quello che sarà la dimensione reale del mondo del lavoro nel prossimo futuro dove alla disgregazione produttiva e sociale si potrà rispondere solo con una forte soggettività organizzata della classe.
La Rappresentanza del Blocco Sociale. E’ necessario aprire una nuova prospettiva sul piano sindacale ma è altrettanto importante ricostruire una rappresentanza politica delle classi subalterne nel nostro paese. Sappiamo bene che è un compito improbo che deve fare i conti con la concretezza dei settori di classe, nella loro odierna condizione di arretratezza, e con concezioni della sinistra e tra i comunisti che hanno portato ad una situazione disastrosa. Sarà un percorso complesso, che procederà per tappe ed ognuna di queste sarà un “esame” da affrontare che, però, andrà seguito con determinazione in quanto le contraddizioni che stanno emergendo riguardano la tenuta dell’attuale
CREDITS
Immagine in evidenza: Sergio Marchionne in May 2006 at the 36. St. Gallen Symposium
Autore: International Students’ Committee
Licenza: Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported
Immagine originale ridimensionata e ritagliata