La prima sperimentazione socialista nella storia dell’umanità
da Le ragioni dei comunisti oggi. Tra passato e futuro. Un contributo al dibattito
Per una analisi razionale della Rivoluzione e del socialismo sovietico è necessario parlare di sperimentazione non solo perché essa si è arrestata alla prima fase del processo di transizione (ed è oggi arretrata verso la restaurazione del capitalismo) ma anche perché la rivoluzione sovietica è stato il primo tentativo rivoluzionario nella storia dell’umanità contemporanea.
Non è irrilevante sottolineare come questa rivoluzione si sia rivelata una anomalia rispetto all’analisi marxista (anche se veniva indicata la Russia come paese rivoluzionario). Infatti, la “rottura rivoluzionaria” non si è realizzata in un paese industrializzato, con una classe operaia maggioritaria o numerosa o con forze produttive sviluppate, ma in un paese arretrato e sostanzialmente contadino; la fase della rivoluzione democratica è stata particolarmente breve sia per l’accelerazione imposta dai fatti (la prima guerra mondiale) sia per quella imposta dai comunisti russi e da Lenin.
Anche lo scontro tra Lenin che spingeva per l’insurrezione e Zinovev e Kamenev che frenavano la spinta insurrezionale per consolidare la fase della rivoluzione democratica, è emblematico di questo scostamento dalle tesi propriamente marxiste sulla rivoluzione. Tra le due posizioni, quelle di Zinovev e Kamenev erano più “coerenti” con l’impostazione marxista classica ma meno aderenti alla realtà degli avvenimenti (e quindi alla dialettica) su cui invece si fondavano le posizioni e le scelte di Lenin.
Si rivela poi del tutto “arbitrario” (come ha cercato di fare una certa liturgia storica e teorica del movimento comunista) ritenere che il complesso dell’elaborazione di Lenin dopo il 1917 fosse una sintesi omogenea di tesi politiche e teoriche. Lenin, infatti, da comunista e da rivoluzionario ha guardato in faccia la realtà in cui viveva, le forze reali che aveva a disposizione, il contesto interno ed intemazionale in cui la rivoluzione sovietica si era realizzata. A questa realtà e alla necessità di farvi fronte senza far crollare il processo rivoluzionario avviato in Russia, Lenin ha piegato le scelte politiche del potere rivoluzionario.
Se andiamo a vedere le scelte del potere sovietico vedremo in esse svolte repentine, fughe in avanti e passi indietro, quei “salti e rotture” evidenziate dallo stesso Lenin cioè quelle contraddizioni tipiche ed inevitabili di un processo politico reale. Dalla pace di Brest Litovsk alla repressione della rivolta di Kronstadt, dal comunismo di guerra alla reintroduzione del mercato attraverso la NEP, la rivoluzione si è dovuta misurare in concreto e non in astratto con immensi problemi di carattere economico, militare, teorico e politico con i quali nessuno si era mai misurato prima. Qualsiasi “filosofo” marxista, per quanto ben saldo nelle sue convinzioni, ne sarebbe stato stritolato.
La rivoluzione sovietica non aveva altre esperienze o modelli pre-esistenti a disposizione con cui potersi misurare o da cui trarre insegnamento. Essa era la prima, gigantesca ed inedita sperimentazione politica di una società socialista la cui direzione era assicurata dal primo partito comunista.
Questo rapporto pragmatico con i problemi connessi ad un processo rivoluzionario, si è mantenuto anche con la direzione di Stalin, a scapito certo della tradizione e della elaborazione marxista classica, ma arricchito dal patrimonio di sperimentazione politica – pratica che si andava accumulando, trascinando però con sé tutti gli errori e le contraddizioni che vi si erano prodotti.
Emblematica di questa rottura (oggettiva secondo alcuni, soggettiva secondo altri) è per esempio la rielaborazione della questione dello Stato .
Lo scostamento dalla tesi marxista secondo cui lo Stato si estingue mano a mano che si sviluppa il socialismo, è paradigmatico per comprendere la differenziazione tra “marxisti e comunisti” dentro il processo aperto dalla rivoluzione d’Ottobre.
I comunisti russi ebbero a che fare sin da subito con il concretissimo problema della edificazione e della difesa del primo e unico Stato socialista del mondo. Tale passaggio qualitativo non può essere trascurato. La graduale estinzione dello Stato, sarebbe stata infatti resa possibile solo da una estensione internazionale o almeno regionale della rivoluzione socialista, ma in realtà questo, come è noto, non si è realizzato (le insurrezioni fallirono in Germania, Ungheria, Austria).
Il nuovo stato sovietico doveva dunque trovare un modo di esistere, convivere e resistere nonostante questa non trascurabile contraddizione.
L’altro fattore decisivo era il contesto internazionale: la vigilia della seconda guerra mondiale e l’ostilità di tutte le potenze capitaliste al primo e unico stato socialista del mondo. Stalin già nel 1927 aveva intuito la tendenza degli avvenimenti come naturale conseguenza della fine della stabilizzazione capitalistica degli anni ‘20 (la crisi del 1929 ne fu la conferma).
E’ in questo quadro che Stalin parla di “elaborazione incompleta e insufficiente di alcune tesi generali della dottrina marxista dello Stato “ (Rapporto al 18° Congresso, 1939) operando una rottura con le tesi propriamente marxiste su questo aspetto sicuramente non secondario .
E’ dunque dentro questo processo fatto di salti e rotture, arricchimenti pratici e politici, sperimentazioni inedite e contraddittorie dell’elaborazione marxista che molti “marxisti” sono diventati “comunisti” organizzando i partiti comunisti, le forze sociali, dando vita alla Terza Intemazionale ed ingaggiando a livello mondiale una lotta micidiale con un capitalismo in crisi, disposto alla guerra, connivente con il nazifascismo in buona parte dell’Europa.
Altri “marxisti”, ritenendo invece che tali rotture fossero foriere solo di sventura per il marxismo, si ritirarono nella ricerca su altre sfere della vita politica e sociale (l’estetica, la filosofia, l’arte ecc.) o ripiegarono su un minoritarismo ipercritico che, in Europa soprattutto, ha purtroppo lasciato tracce profonde.
La natura sociale e le aree di ricerca sviluppate dal “marxismo occidentale” abbandonano l’analisi strutturale delle contraddizioni (il punto di forza del marxismo), si orientano verso le questioni sovrastrutturali lasciando quasi esclusivamente ai partiti comunisti della Terza Internazionale il compito di definire la strategia politica e l’analisi dei problemi strutturali.
La deriva di questo scostamento, sicuramente non irrilevante ai fini di un processo rivoluzionario, è la nascita dei “marxismi” in occidente e l’esaurimento precoce della spinta propulsiva (in senso rivoluzionario) del marxismo europeo; tra questi spicca l’esperienza italiana e l’interpretazione di destra di Gramsci rimasta egemone su gran parte della vecchia e della nuova sinistra in Italia.
Questo filone teorico, disomogeneo ma piuttosto convergente nella critica all’esperienza sovietica e terzointernazionalista, rappresenta le radici di quel “revisionismo marxista” su cui si fonda gran parte di quella ancora indefinibile identità “neocomunista” nella quale convergono spezzoni della ex nuova sinistra e dell’ex PCI (una buona parte del gruppo dirigente di Rifondazione Comunista è identificabile con questo percorso).
Questo retroterra politico e culturale pone e porrà seri problemi concreti sul futuro. Se i “marxisti” (intendendo con essi i marxismi prodottisi in Europa) si sono contrapposti ai comunisti che avevano dato vita al socialismo in URSS, i neocomunisti contrappongono ora una discontinuità radicale all’insieme dell’esperienza storica del movimento comunista.
La convergenza tra questa impostazione e la contestazione della socialdemocrazia ai comunisti e al modello sovietico è inevitabile oggi, così come è accaduto in passato .
URSS : il socialismo possibile
La dissoluzione dell’URSS e la conseguente crisi di quello che è stato, nel bene e nel male, il movimento comunista internazionale, ha posto e pone problemi profondi di carattere strategico, teorico e storico per qualsiasi esperienza politica che intenda mantenere aperta una prospettiva di trasformazione sociale e socialista della società.
Cercare di comprendere i risultati, le contraddizioni e i fallimenti di quella esperienza storica, politica e materiale che è stato il socialismo in URSS è un passaggio inevitabile.
Per ricostruire una analisi quanto più razionale possibile, occorre prendere atto che dovremo esaminare un processo “tra passato e futuro” nel senso che il “presente” è già stato superato dai fatti. L’impossibilità di una transizione “pacifica” dal socialismo al capitalismo in URSS è sotto gli occhi di tutti, anche degli analisti della borghesia che pure ci avevano sperato. II colpo di stato di Eltsin ha sancito questa impossibilità e ha spianato la strada ad un futuro che si presenta comunque con caratteristiche assai diverse da quelle di un paese integrato nell’economia capitalistica di mercato. Esiste una rottura storica e materiale profonda tra il passato e il futuro dell’URSS che, in un certo modo, ripropone quella anomalia che ha visto l’edificazione del socialismo in URSS realizzarsi “bruciando le tappe” di quella transizione individuata dal marxismo nel superamento del capitalismo in direzione del socialismo. Cosa è stata dunque l’URSS ?
- La sinistra e i marxisti si sono sempre divisi nell’analisi del carattere del modello sociale edificato in URSS dopo il 1917. Le posizioni sono state molto divaricanti e spesso discriminanti su questo. Per alcuni l’URSS era un paese “ a capitalismo di stato” (vedi Bettelheim e molti altri); per altri era uno “Stato operaio degenerato” (Trotski); per altri ancora era un paese a “socialismo reale” (definizione un pò schematica ma abbastanza realistica).
Noi abbiamo preferito definirla come la prima sperimentazione socialista della storia dell’umanità, perché questa definizione rappresenta più realisticamente il carattere transitorio, contraddittorio e dialettico di un processo reale. Di più, nelle condizioni materiali di partenza dell’URSS e nelle circostanze internazionali in cui ciò è avvenuto, quello realizzato è stato il socialismo possibile cioè quello che era possibile realizzare nelle condizioni date. - Il fatto che la Russia all’inizio del secolo fosse un paese sostanzialmente contadino, governato da una plutocrazia agraria e dallo zarismo. ha una rilevanza decisiva. Il problema della campagna, dei contadini, dei rapporti sociali nelle campagne nel socialismo, dei rapporti tra città e campagna, è stata “l’ossessione razionale” di Lenin che aveva ne aveva compreso il peso decisivo per lo sviluppo del socialismo possibile in URSS. Del resto il problema dello sviluppo delle forze produttive (cioè della capacità di sviluppo tecnologico, del capitale umano, dei macchinari) non è secondario nel delineare le possibilità di riuscita e la natura del processo di transizione dal capitalismo al socialismo.
- La transizione da un regime sociale a un altro è un processo materiale irto di difficoltà e contraddizioni. “L’evoluzione da questa democrazia capitalistica non avviene così semplicemente, direttamente e senza scosse come immaginano i professori liberali e gli opportunisti piccolo borghesi “ affermava Lenin in “Stato e Rivoluzione” rispondendo con largo anticipo a quei “marxisti” che da anni fanno le pulci al socialismo possibile.
Questa transizione è un processo evolutivo che investe tutte le sfere della società : economica, politica, militare, culturale cioè gli elementi strutturali e quelli sovrastrutturali. Ma la sua riuscita, la conquista del “regno della libertà” (il comunismo) in sostanza la tappa ultima del processo, non è mai stata raggiunta né individuata materialmente dai rivoluzionari che con esso si sono misurati concretamente : “Noi non sappiamo né possiamo sapere per quali tappe, quali provvedimenti pratici, /’umanità andrà verso questo fine supremo “ sosteneva Lenin. Coloro che arbitrariamente hanno ritenuto di essere già alla fase conclusiva del processo (vedi Krusciov solo trenta anni dopo questa consapevolezza espressa da Lenin), dichiarando conclusa ]a lotta di classe nella società sovietica e mature le condizioni materiali per il passaggio al comunismo, hanno dato vita ad un delirio economicista che ha provocato danni pesantissimi che sono poi implosi nei decenni successivi.
URSS : non era capitalismo di stato
Non sono pochi i “marxisti” che hanno definito l’URSS come “capitalismo di stato”. Ma non pochi i marxisti che hanno contestato e demolito, anche con punti di vista diversi tra loro, questa tesi. Paul Sweezy, ad esempio, ha criticato duramente questa tesi che era al centro dell’opera “La lotta di classe in URSS” curata da Charles Bettelheim (si tratta di ben quattro volumi) e che rappresenta un pò il vangelo dei sostenitori dell’URSS come paese a capitalismo di stato. Sweezy sostiene che per ragioni materiali, le rivoluzioni del ventesimo secolo non hanno edificato delle società socialiste nel senso originario marxista del termine. Non si è realizzato cioè quel passaggio all’abolizione di tutte le classi ed a una società senza classi..
Secondo Sweezy “ In nessuna delle numerose rivoluzioni “socialiste” del ventesimo secolo, si è avuto questo tipo di risultati. In nessuno dei paesi interessati, a partire dalla stessa URSS, il proletariato, e cioè la classe lavoratrice salariata, è stata abbastanza ampia numericamente o abbastanza sviluppata politicamente e culturalmente per svolgere il ruolo di classe egemonica “.
(questo saggio di Sweezy – “Dopo il capitalismo che cosa ?” – è comparso sulla Monthly Review Settembre/dicembre 1985).
Sull’ampiezza numerica della classe operaia in URSS ci permettiamo di dissentire da Sweezy in quanto dagli anni ‘50 in poi essa ha superato il 50% della forza lavoro sovietica, ma sulla debolezza della sua egemonia sulla società l’analisi di Sweezy è sostanzialmente giusta e chiama in causa sia i danni provocati dall’economicismo kruscioviano sia il venir meno del ruolo di direzione politica del PCUS nella lotta di classe all’interno della società.
Sweezy poi contesta l’analisi secondo cui in URSS si è via via costituita una società capitalista con “settori di capitale in concorrenza tra loro” e con la nascita di una nuova classe dirigente identificata nella “borghesia di partito” (tesi di Betteleheim). Altri “marxisti” ritengono poi che il declino economico dell’URSS dipenda da fattori come la scarsa capacità di reazione alle crisi cicliche da parte del capitalismo di stato rispetto al capitalismo privato e dalla tendenza all’aumento della composizione organica del capitale con una conseguente caduta del saggio di profitto nell’economia sovietica.
Gli argomenti portati da Paul Sweezy per contrastare queste tesi, sono stati ripresi con estrema lucidità e più recentemente da Andrea Catone che ne mette in evidenza la fallacia.
L’uso della categoria di composizione organica del capitale (usata da Marx nell’analisi del capitale) non è adattabile alla realtà del modello economico sovietico per le seguenti ragioni :
- Per la presenza massiccia e incomparabilmente superiore rispetto all’occidente di macchinari invecchiati ed obsoleti;
- Un numero di addetti in rapporto alle macchine ben superiore a quello presente in occidente;
- Assenza di disoccupazione e di un esercito salariale di riserva;
- In occidente la composizione tecnica del capitale (automazione, informatizzazione, robotica,ecc.) è cresciuta assai più che nell’URSS, mentre in URSS è aumentata la massa dei mezzi di produzione sempre meno efficienti e produttivi.
(Questo saggio di Andrea Catone è comparso su “Questioni del socialismo” nr.2 /1992)
La tesi dell’esistenza di una “concorrenza intercapitalistica in URSS” – seppure nelle forme specifiche – sostenuta dai soliti “marxisti”, si fonda sulla concorrenza tra i Ministeri e i direttori delle imprese statali per ottenere crediti, forniture di materie prime o di beni industriali e vendere le loro merci a prezzi più alti. In realtà la struttura pianificata dell’economia sovietica (dal punto di vista dell’industria e della finanza) ci dice piuttosto il contrario. La divisione del lavoro realizzata attraverso una pianificazione che investiva tutte le repubbliche dell’URSS ha limitato fortemente la concorrenza tra le imprese (spesso anche a scapito dei risultati). “Il paragone è del tutto inappropriato“ sostiene ad esempio Sweezy “Le direzioni delle aziende sovietiche non sono entità indipendenti e in lotta per sopravvivere e andare avanti nella giungla del mercato capitalistico; sono degli incaricati all’interno di una struttura politico-burocratica, il che è qualcosa di completamente diverso La pianificazione sovietica è in grado di ottenere una effettiva padronanza dell’intera economia e di usare questa padronanza per raggiungere gli obiettivi proclamati nel piano “.
Infine ma non per importanza vengono le tesi secondo le quali in URSS si è ricostruita una borghesia che avrebbe mantenuto il potere attraverso il PCUS e la burocrazia. Per i trotzkisti questa sarebbe la causa della “degenerazione” della Rivoluzione d’Ottobre. Secondo la loro analisi questa nuova classe, questa nuova borghesia, avrebbe preso possesso dei mezzi di produzione, della direzione dello Stato e del partito (da qui la definizione del PCUS come “partito-Stato”) già alla fine degli anni ‘20.
Gli errori contenuti in queste tesi sono particolarmente gravi perché deformano ogni possibilità/necessità di analisi razionale di quello che è stata l’URSS.
Emblematico, proprio su questo punto, è quanto sostiene quello che forse è il maggiore storico dell’URSS, Edward H. Carr : Definire ‘‘una borghesia” il gruppo dominante sovietico mi sembra che presenti due particolari inconvenienti. .. Il termine borghese e borghesia hanno un posto preciso, a mio parere onorevole, nella storia moderna….Mi sembra che una borghesia che non controlla i mezzi di produzione né le merci e che non trae profitti né dalla produzione né dal commercio sia una contraddizione in termini. L’altra obiezione è che c’era, e in una certa misura c’è ancora, un elemento nella società sovietica che per comune consenso è correttamente definito borghese…Per Lenin nel 1921. la borghesia era costituita principalmente dai “nepmen”, gli anni successivi videro il sorgere nel paese di un altro gruppo borghese : i contadini agiati o kulaki.”. L’analisi di Carr è dunque estremamente più lucida di quella di tanti “marxisti”, ma lo è soprattutto quando, separando giustamente l’esistenza della borghesia dal gruppo dirigente bolscevico, Carr rileva come “l’introduzione del primo piano quinquennale e la collettivizzazione dei contadini chiusero definitivamente il problema. Se la Russia sovietica fosse stata dominata dalla borghesia, questi avvenimenti sarebbero stati inconcepibili. Il gruppo dominante nella società sovietica era decisamente e irrevocabilmente antiborghese “ .
(da “1917 : Illusioni e realtà della rivoluzione russa”, 1969).
Anche Sweezy contesta le tesi secondo cui la classe dominante in URSS sarebbe stata la nuova borghesia e quindi l’URSS non poteva che essere un paese capitalista. “// sistema sovietico è completamente diverso” sostiene Sweezy “Non vi sono capitalisti individuali e il tentativo fatto da Bettelheim per raffigurare i dirigenti d’azienda sovietici come se essi ricoprissero lo stesso ruolo manca di ogni fondamento nelle condizioni strutturali del sistema sovietico. Il potere , il prestigio e i privilegi dei governanti sovietici non derivano dalla proprietà della ricchezza privata ma piuttosto dal controllo immediato che essi esercitano sull’apparato statale e di conseguenza sul capitale sociale totale
Quella che effettivamente possiamo definire come nomenklatura e che ha via via occupato i posti chiave dell’apparato dello Stato, del partito e dell’economia, è emersa in URSS alla fine degli anni ‘50 approfittando della campagna sulla “destalinizzazione”, il decentramento delle imprese e l’organizzazione del PCUS non più su base territoriale ma settoriale (un processo questo che ha portato ad una profonda spoliticizzazione del partito le cui conseguenze saranno pesantissime).
L’analisi della “nomenklatura” intesa come nuova classe dominante dell’URSS, è dunque dominata dalla confusione, da profonde contraddizioni e da omissioni vere e proprie.
La confusione : con la definizione di nomenklatura si mette spesso tutto in uno stesso piatto e sullo stesso livello. In realtà tra l’apparato del partito comunista, quello statale e quello della direzione delle imprese, ci sono sempre state delle differenze, delle divergenze ed uno scontro (la lotta di classe) estremamente duri e profondi. Queste differenze e questo scontro sono stati particolarmente duri con la direzione di Stalin sull’URSS.
La Rivoluzione d’Ottobre, negli anni immediatamente successivi al 1917, era stata costretta a richiamare in servizio i “tecnici” della borghesia (che si erano dimessi o erano stati allontanati dopo la Rivoluzione ) per mandare avanti l’economia. Il potere sovietico dovette anche concedergli alti stipendi (vedi su questo la polemica tra Lenin e Bucharin). Questi tecnici presero in mano la struttura economica del paese (fabbriche, centrali elettriche, stazioni ecc.) fino agli anni ‘30.Parallelamente con la NEP si svilupparono un ampio settore di contadini-proprietari (i kulaki), di contadini medi e di commercianti.
Le omissioni. Con il secondo piano quinquennale, Stalin condusse una lotta feroce contro questo strato sociale (i “residui borghesi”) sia perché riteneva che dovessero i quadri del partito a dirigere tutte le leve del potere sovietico, incluso quello economico, sia perché resistenza dei kulaki non avrebbe permesso quell’accentramento delle risorse nelle città necessarie allo sviluppo dell’industrializzazione (una tesi questa sostenuta con largo anticipo anche da Rosa Luxemburg che vedeva nei contadini-proprietari un pericolo per l’economia socialista).
Allo stesso modo, sia Lenin che Stalin, avevano intuito il pericolo e l’intralcio rappresentato dalla burocrazia e da un apparato statale inefficiente. La lotta condotta contro la burocrazia da parte di Stalin fu durissima e coincidente a quella combattuta contro i kulaki e i tecnici (diventati entrambi i veri padroni della terra e dei mezzi di produzione). La Russia degli anni ‘20 e ‘30, fu dunque teatro di una vera e durissima lotta di classe e quindi non di una trasformazione burocratica della società né. tantomeno, di una restaurazione borghese.
Le contraddizioni. Se è vero che la lotta di classe proseguì in URSS dopo la presa del potere e dopo la morte di Lenin, ciò significa che i luoghi comuni sull’epoca staliniana appaiono del tutto contraddittori. Questa fase del socialismo in URSS non può essere ridotta ad un “buco nero” in cui campeggiano solo “gli orrori dello stalinismo”. Tali valutazioni sono diseducative e irrazionali. La direzione di Stalin, il ruolo del partito comunista e dell’URSS, da un lato hanno assicurato il carattere rivoluzionario e socialista del processo messo in moto nell’ottobre del ‘17 trasformando il movimento comunista in un movimento reale e non solo ideologico; dall’altro hanno consentito la sconfitta del nazismo impedendo che l’esito della seconda guerra mondiale si riducesse ad una mera spartizione del mondo tra le potenze capitaliste; dall’altro ancora hanno espresso la prima verifica pratica sulle potenzialità del socialismo come modello sociale capace di strappare un paese dal medioevo e portarlo nell’epoca moderna. Il carattere di “sperimentazione sul campo” della prima esperienza socialista dell’umanità ha comportato sicuramente errori, contraddizioni ed anche eccessi. Tra di essi spiccano quelli commessi nella lotta politica dentro al partito comunista e nell’aver confuso le contraddizioni antagoniste (cioè quelle tra le classi in cui la violenza è necessaria) con le contraddizioni “in seno al popolo” (come le definirono i cinesi) in cui le soluzioni da adottare non possono avere la stessa violenza e durezza necessarie invece contro l’avversario di classe.
Le condizioni materiali dello sviluppo economico dell’URSS
La situazione di partenza, le condizioni oggettive da cui si è cominciato ad edificare la prima sperimentazione socialista dell’umanità, sono decisamente rilevanti per comprendere i passi in avanti, le rotture e gli elementi di arretramento dell’URSS. In modo particolare la situazione dell’agricoltura costrinse più volte il gruppo dirigente bolscevico a rettificare le proprie scelte nel tentativo di dare soluzioni nuove ai problemi e alle storture che via via si presentavano. La Russia era un enorme paese sostanzialmente agricolo, con una industria ancora da sviluppare pienamente e limitata ad alcune aree del paese, con una società civile arretratissima.
Nel 1928, in Unione Sovietica, vi erano l’82% di contadini; il 10% di operai; il 3% di intellettuali e professioni affini; il 5% di “borghesi” e kulaki. Lo sviluppo dell’economia socialista ha poi modificato profondamente questo rapporto (nel 1939 i contadini scenderanno al 47,2% e nel 1959 al 31.4%) ma tale era la situazione con cui dovette misurarsi il potere sovietico nei primi anni ‘20.
Questa situazione, ed in modo particolare quella dell’agricoltura, costrinse il potere sovietico solo 4 anni dopo la Rivoluzione, a tornare a forme di libero commercio e di economia privata.
Una delle ragioni fu la crisi “straordinariamente acuta” dell’agricoltura che nel 1921 si rivelò più grave del previsto. Le ragioni di scambio tra la città (dove c’erano le fabbriche) e la campagna (che produceva i beni primari) erano saltati completamente lasciando alla fame gli operai e i settori sociali urbani. Per queste ragioni fu varata la NEP (Nuova Politica Economica) che produsse una serie di conseguenze : a) riemergono settori borghesi che si arricchiscono con le aperture offerte dalla NEP (I Nepmen); b) cresce lo strato sociale dei contadini medi (cioè né kulak! né contadini poveri) su cui Lenin punta moltissimo per aumentare il rendimento dell’agricoltura.
Nei primi anni ‘20, Lenin offre una lucidissima radiografia dell’economia reale. Secondo Lenin nella Russia sovietica esistono e convivono forme diverse di economia: 1. L’economia patriarcale nomade e seminomade (“in Russia ne abbiamo in abbondanza” afferma Lenin). 2. La piccola azienda mercantile; 3. L’economia capitalistica privata; 4. Il capitalismo di Stato; 5. Il socialismo.
Lenin è cosciente di questa realtà e delle difficoltà del processo di transizione al socialismo come forma di economia dominante in tutto il paese e in tutta la società. “In Russia predomina attualmente il capitalismo piccolo borghese, dal quale parte una sola ed unica via che porta sia al grande capitalismo di Stato, sia al socialismo, e questa via passa per la medesima tappa intermedia….che si chiama inventario e controllo popolare sulla produzione e la distribuzione dei prodotti. Chi non capisce questo, commette un imperdonabile errore economico, sia ignorando i fatti della realtà sia limitandosi a contrapporre astrattamente capitalismo e socialismo” (Lenin : “Sull’imposta in natura”, 1921). Nella sua prima fase, il comunismo non può essere, dal punto di vista economico, completamente maturo cioè completamente libero dalle eredità del capitalismo “ Tutti i cittadini diventano gli impiegati e gli operai di un solo “cartello” di tutto il popolo, dello Stato. Ma questa è soltanto la tappa necessaria per ripulire radicalmente la società “ (Lenin, “Stato e Rivoluzione”).
La situazione delle campagne e soprattutto del rapporto tra città e campagna (fondamentale per l’edificazione di una economia socialista) è dunque prioritaria in tutta la prima fase dello sviluppo economico dell’URSS. Per fare fronte alla situazione di emergenza, carestia, scarsità di beni primari nelle città, i comunisti russi sono costretti a fare concessioni ai privati (sia nelle campagne che nella direzione tecnica delle industrie e centrali elettriche) e a reintrodurre forme di economia capitalistica. Questa situazione di emergenza, provoca inevitabilmente dei ritardi nello sviluppo delle forze produttive e nel processo di transizione al socialismo. Nel tentativo di recuperare questi ritardi e di reggere il confronto con le potenze capitaliste, l’URSS sarà costretta ad una industrializzazione accelerata che, nel rapporto con la campagna, vedrà l’eliminazione delle forme di economia di mercato, della priorità dell’agricoltura e la concentrazione delle risorse nell’industria.
L’industrializzazione forzata era necessaria ?
Secondo alcuni studiosi il costo sociale provocato dall’industrializzazione in URSS è stato sproporzionato alle possibilità e alle necessità. Dentro questo sforzo, secondo i socialdemocratici e i liberali, vi è il “male originario” del comunismo, cioè quella deformazione che è alla base delle storture, delle tragedie e dei fallimenti del socialismo sovietico. Si pone dunque una prima domanda che necessita di risposte. Il socialismo in URSS (e in Cina), è stato capace di modernizzare un paese arretrato e contadino e di trasformarlo in un paese industrializzato, urbanizzato. moderno. Il modo di produzione capitalista avrebbe avuto le stesse capacità e gli stessi risultati con un costo sociale minore?
Immediatamente dopo la presa del potere, Lenin è consapevole dei limiti della prima sperimentazione socialista in Russia: debolezza delle forze produttive, squilibrio tra città e campagna, debolezza del nuovo apparato statale. Ancora nel 1924 Lenin ritiene che il processo socialista disponga solo di due elementi : gli operai e la cultura (intesa come capitale umano) ma quest’ultima appare ancora troppo debole per dare slancio allo sviluppo “Gli uomini istruiti e che sanno insegnare, in confronto a tutti gli altri Stati, sono da noi in numero esiguo fino al ridicolo ” (da “Meglio meno ma meglio”, 1924).
La situazione internazionale degli anni ‘20 ha fatto sì che la Russia fosse stata respinta indietro e che, in generale, il rendimento del lavoro sia considerevolmente inferiore a quello dell’anteguerra, sottolinea ancora Lenin. Alla morte di Lenin (1924) i problemi dello sviluppo economico della Russia sovietica restano tutti irrisolti. La NEP aveva riavviato il mercato e “arricchito” le campagne ma non aveva risolto il problema delle forze produttive e dello sviluppo dell’industria. In compenso aveva rafforzato la borghesia russa attraverso gli spazi di libertà economica aperti ai nepmen. “I direttori delle aziende e dei dipartimenti economici locali si gettarono avidamente sulla loro ritrovata libertà e cominciarono a raggruppare le loro aziende localmente in trust. Alcune aziende, reagendo all’antica centralizzazione, si riversarono allegramente sul mercato come unità indipendenti e, per diversi mesi, agirono di propria iniziativa come bande di guerriglieri, sottraendosi a qualsiasi forma di controllo o di disciplina” (da “Storia dell’economia sovietica”, M. Dobb)
Negli anni attorno al 1925, i quattro quinti della popolazione occupata erano composti ancora da contadini produttori e artigiani individuali; i commercianti privati coprivano la maggior parte del commercio al minuto e una parte notevole del commercio all’ingrosso. La classe operaia era dunque fortemente minoritaria sia per determinare lo sviluppo economico/industriale sia per esercitare quella egemonia politica sulla società in grado di rafforzare il socialismo.
La radiografia che Stalin fa della situazione interna ed internazionale nel 1926 è piuttosto pessimistica quanto realista. A suo avviso i tre fattori di cui occorreva tenere assolutamente conto erano : I) Il riflusso della rivoluzione intemazionale; 2) La stabilizzazione del capitalismo, ritenuta però transitoria perché “una nuova crisi è inevitabile”; 3) L’urgenza dello sviluppo economico e della potenza politica dell’URSS.
Un anno prima, al XIV Congresso (1925), Stalin sosteneva che nel partito esistevano due linee:
una che prevedeva che il paese restasse a lungo un paese agricolo e, di fatto, dipendente dalle importazioni di beni industriali;
l’altra che puntava a fare dell’URSS “un paese economicamente autonomo, indipendente, impegnato nella ricerca del massimo sviluppo dell’industria”. Questa seconda linea, per Stalin, era quella dell’edificazione del socialismo in URSS.
Nel congresso successivo, Stalin mise al centro della lotta politica e dei compiti del partito l’industrializzazione e l’eliminazione degli elementi capitalistici individuati nei kulaki che erano notevolmente aumentati (in parte coincidendo e in parte sostituendo quei “contadini medi” cresciuti con la NEP). Stalin propone livelli diversi nel rapporto con i kulaki ed in quello con i contadini medi: durezza con i primi- persuasione con i secondi (“Questioni del leninismo” 1926).
Il fallimento dell’estensione internazionale del processo rivoluzionario e dunque il fatto che l’URSS fosse l’unico paese socialista del mondo.la pesantezza della situazione interna ed internazionale per l’URSS post rivoluzionaria, fa sì che la scelta dell’industrializzazione a tutti i costi diventi l’asse prioritario dello sviluppo economico e politico del paese “ E’ necessario raggiungere e sorpassare la tecnica avanzata dei paesi capitalisti…. Per raggiungere la vittoria definitiva del socialismo, dobbiamo pure raggiungere e superare quei paesi dal punto di vista tecnico ed economico…. Noi ritardiamo sui paesi avanzati da cinquanta a cento anni. Dobbiamo coprire questa distanza in dieci anni.O lo faremo o saremo schiacciati” (da”L’industrializzazione del paese e le deviazioni di destra nel PC(b)R, 1928).
Vista a posteriori e sulla base dei risultati materiali, la scelta dell’industrializzazione non solo fu necessaria ma ancora oggi dimostra la capacità dell’economia socialista di affrontare la fase della accumulazione “primitiva” cioè la condizione preliminare per sviluppare una economia moderna. Il processo di sviluppo industriale accelerato realizzato tra gli anni ‘20 e gli anni ‘30, fu ripetuto più o meno con gli stessi risultati nella fase post bellica. Se con i primi due piani quinquennali il socialismo sovietico riuscì a strappare l’URSS all’arretratezza di una società fondata sull’agricoltura, dopo la seconda guerra mondiale, e in pochi anni, riuscì a ricostruire un apparato economico, industriale, urbano devastato dall’occupazione nazista.
1 risultati dell’industrializzazione e del processo di lotte politiche e sociali che lo hanno accompagnato, meritano quattro osservazioni rilevanti :
- I risultati dimostrano che la “pianificazione dell’economia socialista” non è una opzione irrazionale e inefficace, ma. al contrario, contiene una potenzialità di coordinamento che impedisce lo scambio e lo sviluppo disuguale dell’economia e della società. Un paese-continente come l’URSS non era possibile svilupparlo senza una forte centralizzazione dell’economia che coordinasse e razionalizzasse le risorse, l’industria, le materie prime, la distribuzione, i rifornimenti di macchinari.
Le strozzature prodottesi erano in buona parte inevitabili : a) Il conflitto tra Partito e Nomenklatura (tecnici, burocrati ecc.) ha aumentato a dismisura i meccanismi e la logica del controllo: b) 1 limiti di una divisione del lavoro basata sulle possibilità (offerta) e non sul mercato (domanda) ha fatto spesso mancare il coordinamento qualitativo e quantitativo necessario a soddisfare la domanda di beni di una società in via di urbanizzazione. - Nel “rapporto città-campagna” (fondamentale per Lenin nello sviluppo del socialismo), la stessa industrializzazione ha permesso di correggere gli squilibri senza distruggere l’economia contadina. Maurice Dobb riferisce che alla fine degli anni ‘30 la situazione delle campagne era sostanzialmente migliorata sia nella produzione che nelle condizioni di vita dei contadini (vengono anche ripristinate le libertà di commercio privato per la produzione eccedente alle consegne obbligatorie). In compenso i rifornimenti alle città vengono assicurati e si sviluppa un processo di urbanizzazione che porterà al raddoppio della popolazione urbana. Circa 20 milioni di contadini si trasformarono in operai e andarono a vivere nelle città nelle quali però si manifestarono problemi di inadeguatezza della capacità abitativa rispetto alla domanda di nuove abitazioni.
- Questo processo non si è sviluppato solo come processo meramente economico- amministrativo ma nel quadro di una lotta politica e di classe durissima in cui il Partito Comunista svolse un ruolo di direzione politica decisivo e non stagnante come avvenne poi nei decenni successivi. Nonostante i luoghi comuni sullo stalinismo, in realtà il periodo staliniano segna una vitalità del partito comunista in continuità e non in rottura con la fase leninista e rivoluzionaria. Un esempio tra tanti : nessun delegato al congresso o ad incarichi istituzionali verrà mai eletto all’unanimità e senza discussione come avverrà nei decenni successivi.
- Nonostante l’industrializzazione e lo sviluppo accelerato, l’URSS alla vigilia della seconda guerra mondiale non era riuscita a raggiungere o superare i paesi capitalisti. Nel 1937 la produzione pro capite era ancora pari ad un terzo di quella di Germania e Gran Bretagna ed a un quinto di quella USA; quella dell’acciaio era tra un terzo e la metà di quella inglese e tedesca e inferiore a quella statunitense; quella di carbone era un sesto di quella inglese, un quinto di quella americana e un quarto di quella tedesca (M. Dobb).
Per l’URSS, alla fine degli anni ‘30 la sfida dello sviluppo economico era ancora aperta, ma le potenzialità dimostrate, i risultati raggiunti e le prospettive indicate, confermano che il “socialismo possibile” aveva costruito delle basi materiali per poter progredire. Questo processo fu interrotto brutalmente e in maniera più devastante che in qualsiasi altro paese del mondo dalla Seconda Guerra Mondiale, una guerra che la Germania concepì contro l’URSS come campagna di annientamento della sua economia e della sua popolazione proprio nel momento in cui i sovietici potevano cominciare a godere di una nuova qualità della vita : “Il cittadino comune aveva appena cominciato a godere dei risultati del lavoro compiuto nei duri anni precedenti, quando di essi veniva privato dapprima per le necessità del riarmo e poi, in misura maggiore, dal crudele e incessante orrore della guerra “ (M. Dobb “Storia dell’economia sovietica”).
Il consolidamento dell’URSS aveva potuto godere di un tempo troppo breve e questa considerazione non è estranea alla decisione del nazismo di scatenare la guerra contro l’Unione Sovietica. Ma anche durante il conflitto, la capacità di accumulazione e produzione industriale dell’URSS si rivelò fondamentale riuscendo a costruire in due anni un apparato militare/industriale capace di sconfiggere le forze armate naziste e di portare l’Armata Rossa a Berlino. Il debito della storia verso l’URSS non è una omissione accettabile.
Al termine della guerra, solo una minima parte delle capacità produttive che le regioni occupate e devastate avevano prima del conflitto, era stata recuperata. A questo occorre aggiungere la peggiore siccità del secolo che si abbatté nel 1946 Sull’Ucraina e la regione del Volga che costrinsero a rinviare di un anno la cessazione del razionamento alimentare decretata nel 1945.
Dunque a metà degli anni ‘40 gli Stati Uniti erano immensamente più forti dell’URSS.
La ricostruzione postbellica rimise dunque al centro dello sviluppo economico l’industria pesante e reintrodusse questo squilibrio sia nei confronti dell’industria dei beni di consumo sia dell’agricoltura.
In pratica l’URSS ha dovuto cominciare una seconda volta il ciclo economico avviato nella seconda metà degli anni ‘20. A rendere più complicate le cose vi era un processo di urbanizzazione già avviato che gravava sulle città modificandovi i rapporti sociali rispetto alla situazione di venti anni prima e concentrando in esse le nuove e maggiori contraddizioni che esploderanno successivamente.
Parallelamente, la guerra aveva privato il partito comunista di un numero enorme di quadri politici morti nei combattimenti e nella resistenza. La perdita di gran parte di quella che era stata la “leva leninista” formatasi dentro la lotta di classe post rivoluzionaria e all’interno del processo di industrializzazione, privò il partito comunista di quadri capaci di fare politica e di dirigere imprese al posto dei tecnici e burocrati a cui la rivoluzione era stata costretta a ricorrere nella prima fase post rivoluzionaria e liquidati poi dalle “purghe” realizzate periodicamente.
La stagnazione economica e politica dell’URSS
Individuare le cause oggettive e soggettive della stagnazione economica/politica dell’esperienza sovietica, è un passaggio ineludibile per rinnovare una prospettiva di trasformazione socialista.
Le ragioni che hanno portato al collasso sia il sistema sociale che il PCUS dopo lo sforzo rivoluzionario che aveva consentito all’URSS di sconfiggere il nazismo e di organizzare un movimento internazionale dei comunisti, rappresentano un terreno di indagine e riflessione decisivo per comprendere la rapida dissoluzione dell’URSS e del PCUS (1988-1991).
Come è stato possibile che un paese arretrato ma ricco, capace di raggiungere in soli tre anni la parità nucleare con gli USA, di spedire il primo satellite nello spazio, di dotarsi di un arsenale nucleare e militare formidabile, non sia stato in grado di “socializzare” queste conquiste all’insieme della società sovietica e ai paesi alleati ? E come è stato possibile che un partito con milioni di iscritti, inserito e alcune volte dominante nei punti vitali dell’organizzazione statale si sia fatto liquidare senza combattere ?
Per individuare queste cause, è fondamentale inquadrare la situazione oggettiva della fase postbellica. Il gap tecnologico tra l’URSS e i paesi capitalisti era già allora indicativo. I tentativi dell’URSS di raggiungere la forza economica e militare degli USA – con le parentesi avventuriste che puntavano al “superamento” in pochi anni – segnano le tappe della realtà sovietica fino al disastro della perestrojka e alla dissoluzione dell’unione Sovietica e dei paesi socialisti dell’Est Europa.
Le cause della stagnazione economica
L’ipoteca della corsa agli armamenti
Le conseguenze della corsa agli armamenti. La seconda guerra mondiale aveva rappresentato un brusco stop allo sviluppo sociale dell’URSS. Gli USA avevano ben compreso che un nuovo sforzo nelle spese e nel riarmo militare dell’URSS ne avrebbe ostacolato fortemente lo sviluppo sociale. Lo scatenamento della guerra fredda – intesa come conflitto globale con l’URSS – ha rappresentato una formidabile ipoteca sulle possibilità reali di avanzamento economico/sociale dell’Unione Sovietica e dei paesi socialisti.
L’arretratezza dell’URSS dopo la guerra
L’URSS, già arretrata nei confronti degli USA e delle potenze capitaliste prima della Seconda Guerra Mondiale, ha subito distruzioni pesantissime che l’hanno costretta a ricominciare un ciclo di sviluppo (l’industrializzazione) già avviato nel decennio prebellico. Gli USA, invece, non hanno subito alcuna distruzione a causa della guerra ma hanno tratto da essa tutti i vantaggi utilizzandola come “volano” per una poderosa economia di guerra.
Si allarga il gap tecnologico con i paesi capitalisti
Il gap tecnologico tra l’URSS e il mondo capitalista trainato dagli USA (che nel dopoguerra rappresentavano da soli più del 60% del prodotto mondiale lordo), già nel dopoguerra si era accentuato nei nuovi settori decisivi dello sviluppo industriale: chimica, elettronica, automazione, fibre, motoristica. L’URSS produceva grandi quantità di prodotti di base (acciaio, carbone, elettricità, ghisa ecc.) ma nei paesi capitalisti si andavano sviluppando quei nuovi settori che saranno decisivi nella fase della rivoluzione tecnologica degli anni ‘70 e ‘80. La cibernetica venne accolta in URSS con ostilità e osteggiata per tutta una fase, solo successivamente il complesso militare-industriale sovietico riuscì a sconfiggere questi atteggiamenti e ad avviare le ricerche sulla cibernetica ma aveva già accumulato un forte ritardo. Per una larga fase nell’URSS il carbone rimase centrale nel programma energetico mentre nei paesi capitalisti si era già dentro lo sfruttamento intensivo del petrolio.
Scoperte scientifiche senza ricadute nello sviluppo sociale dell’URSS
La ricerca e gli investimenti nel settore militare e spaziale sono stati assai elevar La ricerca e i nuovi brevetti richiedono inizialmente alti investimenti di capitai Questa concentrazione degli investimenti nelle nuove tecnologie da un lato h comportato una riduzione degli investimenti nel resto dell’economia, dall’altro non ha prodotto la necessaria “socializzazione” delle scoperte acquisite nel settore militare verso il settore civile. Il segreto militare esteso a sfere assai ampie dell’economia ha spesso impedito che i risultati delle ricerche potessero essere utilizzati negli impianti civili.
Dunque l’economia di guerra in URSS non è stata come in USA un “volano” dello sviluppo tecnologico ma ha vissuto come un corpo separato dell’economia e della scienza. L’URSS è arrivata a produrre robot industriali solo nei primissimi anni ‘80. Nel 1983 ne produceva 10.300, il Giappone già sei volte tanti.
Esaurimento della spinta rivoluzionaria in URSS e autonomia dei nuovi processi rivoluzionari
L’URSS, anche con Stalin, è arrivata all’appuntamento con la nuova fase storica ed economica post bellica con progetti arretrati e sostanzialmente fermi alla fase precedente. Sul piano strategico, politico, economico, l’URSS si è limitata più ad amministrare con realismo (e con eccessi di realpolitik come in Grecia e Cina) i risultati di Yalta che a rinnovare un progetto rivoluzionario a livello internazionale. Sciolta l’Internazionale, il Cominform non ha avuto alcuna funzione a causa dello scontro politico con i comunisti jugoslavi che, insieme ai sovietici, ne erano il punto di forza. La rivoluzione cinese(e poi quella cubana) hanno marciato sostanzialmente sulle proprie gambe, contando sulle proprie forze anche forzando la posizione sovietica.
La sottovalutazione della nuova fase del capitalismo.
Nell’analisi del capitalismo ci sono state intuizioni importanti (vedi Stalin sulla ripresa della potenza di Germania e Giappone) ma anche sottovalutazioni gravissime.
La stroncatura nel 1947 dell’elaborazione di Varga (l’economista della Terza Internazionale) sottovalutava completamente il molo dell’intervento dello Stato nelle economie capitaliste come regolatore delle crisi. La riproposizione precoce della tesi sulla “putrefazione” del capitalismo e l’inevitabilità della crisi fece sottovalutare ai sovietici e al movimento comunista internazionale la nuova fase di accumulazione capitalistica apertasi dopo la guerra e che perdura fino ai nostri giorni.
Urbanizzazione e nuove contraddizioni sociali
Il modello economico/sociale dell’URSS si è rivelato inadeguato a fronteggiare le conseguenze delle sue realizzazioni. In modo particolare l’urbanizzazione prodotta dalla trasformazione di un paese arretrato e contadino in una potenza industriale con una crescente popolazione urbanizzata e istruita, ha dato vita a nuove esigenze sociali e nuove contraddizioni che si sono sovrapposte a quella irrisolta, ma decisiva, tra città e campagna, una contraddizione la cui soluzione Lenin riteneva fondamentale risolvere per sviluppare il socialismo.
La crescente domanda di beni e servizi nelle città è stata sistematicamente inevasa o affrontata in maniera scoordinata. Prima la priorità accordata all’industria pesante a scapito di quella dei beni di consumo; poi l’avventurismo kruscioviano nelle campagne che ha acutizzato la crisi; infine lo sviluppo della “economia-ombra” che ha affiancato e sostituito la pianificazione della distribuzione di beni e servizi, hanno accumulato nelle città contraddizioni crescenti e profonde.
La divaricazione tra città e campagna si è nuovamente accentuata a danno della città. Ancora oggi è possibile verificare le profonde differenze economiche e politiche tra la situazione di Mosca, Leningrado, Kiev e la situazione delle campagne.
Le conseguenze della “destalinizzazione” kruscioviana
La fase della “destalinizzazione” ha consentito la ripresa dell’egemonia dei “tecnici” nella sfera dell’economia a scapito della direzione politica. Questo settore, duramente represso nell’epoca di Stalin, si era riorganizzato nelle pieghe e nelle contraddizioni irrisolte dello sviluppo economico sovietico. Lo scontro nel partito fu aperto proprio da questo settore sociale che aveva maturato una forte ostilità verso il soggettivismo politico fondato sulla pianificazione e la centralità del partito nella direzione del paese, dell’economia e della società. “Le ambiguità della destalinizzazione hanno posto in netto e chiaro rilievo la lotta sotterranea “ rileva Carr. Questo settore rappresenterà la base sociale della vittoria di Krusciov nello scontro interno al PCUS. L’egemonia della nomenklatura ebbe il suo apice con la vittoria del progetto kruscioviano. L’organizzazione imposta da Krusciov sia al partito che allo Stato, consegnò nelle mani di questa”nomenklatura”, le leve del potere producendo una spoliticizzazione e una cultura economicista che hanno compromesso definitivamente la possibilità di sopperire con un nuovo sforzo politico soggettivo alle carenze accumulate dal sistema sociale. Ma questa egemonia produsse un vero e proprio delirio economicista che riteneva possibile superare il capitalismo in pochi anni, dichiarava conclusa la lotta di classe nella società sovietica e maturi i tempi per la transizione al comunismo. Krusciov infatti accusò Stalin di voler proseguire la lolla di classe in URSS mentre, a suo avviso, questa andava ormai conclusa. Queste posizioni non trovarono, come nei primi anni ‘50, l’opposizione di Stalin che denunciò con forza i pericoli del trionfalismo e del soggettivismo che andavano emergendo nel partilo e nello stato sovietico (Vedi i “ Problemi economici del socialismo”, Stalin, 1951). L’avventurismo kruscioviano in economia alimentò invece queste posizioni acutizzando la crisi sia nelle campagne che nell’industria e ponendo le basi per la stagnazione economica degli anni ‘70.
Con la direzione di Krusciov viene reintrodotta la variabile dei rapporti monetario-mercantili e dell’autonomia delle imprese sulla base di aggregati regionali (i “sovanarkhoz”) che avrebbe dovuto migliorare l’efficenza e la produttività delle singole imprese. Il risultalo fu la dispersione dei fattori ottenuti attraverso la pianificazione centralizzata e la crescita delle contraddizioni e dei contrasti ira le imprese e tra le varie regioni e repubbliche come nella Jugoslavia dell’autogestione. Nell’epoca della direzione di Krusciov (1953-1964) l’URSS spedì il primo satellite nello spazio e divenne una potenza nucleare, ma questi risultati non ebbero alcuna ricaduta “sociale” nel miglioramento dell’apparato industriale e dei livelli di vita La distensione con gli USA e la convivenza/competizione pacifica con il capitali sino limitarono gli aspetti più pesanti della “logica dell’emergenza e dell’accerchiamento” dominante nella fase pre e post bellica, ma non cambiarono qualitativamente la realtà sociale dell’URSS. Gli unici a trarne effettivamente vantaggio furono i membri della “nomenklatura”e i settori “privatizzanti” sia nelle città che nelle campagne. Ma è sbagliato ritenere che questa fosse una nuova classe: “Essi godono di privilegi esclusivamente in rapporto al consumo e non nell’accumulazione : non possono acquistare la proprietà dei mezzi di produzione e diventare quindi capitalisti o membri di una borghesia nel senso marxista “ (E.H. Carr “ Illusioni e realtà della Rivoluzione russa”, 1969). Nel 1959 la popolazione urbanizzata dell’URSS era ormai pari a quella delle campagne. Negli anni ‘60 cominciò a prevalere numericamente : 62 milioni di persone lavoravano ormai nei settori dell’economia statale (22 milioni nell’industria) mentre nelle campagne (settore kolkhosiano e quindi non statale) lavorava ormai solo il 39% della forza lavoro sovietica.
La questione del “revisionismo kruscioviano” merita di essere trattata a parte perché essa ha avuto una pesante influenza nella disgregazione del PCUS ma è una chiave di lettura del tutto insufficiente per spiegare la perestrojka e il progetto gorbacioviano.
Le cause della stagnazione politica
Nell’analisi della stagnazione politica dell’URSS, appare fondamentale individuare le contraddizioni accumulatesi dentro al PCUS, cioè dentro il soggetto della direzione politica del sistema sovietico. E’ indubbio che il cortocircuito tra le cause oggettive (economiche, sociali, internazionali, storiche) e cause soggettive (il ruolo e la composizione sociale del PCUS) sia il fattore alla base della dissoluzione dell’URSS.
Un partito falcidiato dalla guerra
Prima della guerra gli iscritti al partito comunista erano 1.900.000, diventano 3.900.000 durante la guerra: 5.500.000 alla fine del conflitto e 6.700.000 alla morte di Stalin (1953). Durante la seconda guerra mondiale morirono circa 400.000 militanti, tra cui moltissimi quadri formatisi nella fase dell’edificazione socialista (la leva leninista): “La guerra I’abbiamo vinta, ma ci è costata troppo in qualità politica, ci ha provocato un danno incalcolabile” commenterà R. Kossolapov, uno dei direttori del “Kommunist”. Il PCUS è cresciuto durante e dopo la guerra. Ma la qualità politica dei suoi quadri non sarà più la stessa di prima. Le purghe staliniane avevano certo falcidiato il partito ma avevano anche realizzato una selettività profonda nella ammissione di nuovi militanti. Burocrati, avventurieri, opportunisti avevano la vita difficile nel partito durante la fase staliniana. I vuoti aperti dalla guerra e rallentamento di questa selettività nell’ammissione di nuovi iscritti ripresentarono dentro al partito i problemi esistenti prima del durissimo scontro degli anni ‘30.
Riemerge lo scontro nel partito.
Alla fine degli anni ‘40 Stalin appare consapevole delle difficoltà e della eterogeneità presenti nel PCUS. Posizioni e problemi che riteneva liquidati negli anni ‘30 i ripresentano. Di fronte a questi problemi e a quelli posti dalla ricostruzione post bellica e dall’avvio della guerra fredda. Stalin si limita a ripercorrere percorsi e scelte del passato e concentra la maggior parte delle energie e dell’elaborazione politica nella amministrazione della situazione esistente. Questo avviene sia nel partito, sia nella società, sia nei rapporti con gli altri partiti comunisti.
L’elaborazione di “Problemi economici del socialismo” (1951-1952) se da un lato cerca di dare una sistemazione teorica all’economia politica nel socialismo in URSS, cioè della prima sperimentazione di una economia socialista nel mondo, dall’altro replica alle tendenze emergenti tra gli economisti sovietici (laroscenko prima, Sanina e Vensger poi) tese a liquidare le categorie marxiste (valore, merce, denaro) e sostituirle meramente con l’analisi dell’organizzazione razionale delle forze produttive all’interno della pianificazione (laroscenko) e ad avviare una nuova fase di trasformazione del settore kolkhosiano rendendolo padrone dei mezzi di produzione (Sanina e Vensger). Si ripresentano dunque tesi che furono espressione propriamente di Bucharin. Lo stesso Congresso del 1952 (il XIX) che si tenne a distanza di ben tredici anni dal precedente (1939) fu un congresso con contrasti piuttosto aspri in cui Stalin non ebbe più un ruolo di rilievo. Nella prima riunione del Comitato centrale eletto dal Congresso, Stalin affermò che “il partito era più diviso che mai”. La profondità di queste divisioni e la debolezza della soggettività politica del partito (anche nell’elaborazione di Stalin diventa via via egemone una analisi economicista che pone in secondo piano la politica e il ruolo delle masse, come giustamente rilevato da Mao Tse Tung) permisero la vittoria di Krusciov e della nomenklatura a scapito del partito comunista accelerando e approfondendo il processo di depoliticizzazione del partito e dello Stato sovietico.
I problemi economici del socialismo
Il saggio teorico/economico di Stalin, resta uno dei pochi documenti che abbiano cercato di sintetizzare sul piano teorico l’esperienza dell’edificazione di una economia socialista, in esso emergono però quegli errori di “economicismo” che cominciano a segnalare una fase di stagnazione dell’elaborazione politica. Non è un caso che Mao Tse Tung dedicherà estrema attenzione critica a questo saggio nel tentativo di trarre esperienza dalla sperimentazione sovietica e dall’elaborazione teorica di Stalin. Nei “Problemi economici del socialismo” Stalin tenta di mettere a fuoco i risultati, i limiti e le caratteristiche dell’economia socialista operando anche delle rotture con l’analisi teorica marxista, evidenziando così le differenze tra analisi teorica ed esperienza pratica del socialismo.
Nella replica ad alcuni economisti sovietici Stalin affronta questioni come la permanenza della legge del valore, dei rapporti di produzione e della produzione di merci nell’economia socialista.
a) Secondo Stalin è falso che il potere sovietico possa modificare le leggi oggettive dell’economia politica. Sia nel capitalismo che nel socialismo, egli ritiene che queste leggi si compiano indipendentemente dalla volontà degli uomini che possono scoprirle e utilizzarle ma non distruggerle. “//potere sovietico “ sostiene Stalin “è attribuibile a due circostanze : in primo luogo non doveva sostituire una forma di sfruttamento con un’altra come avvenuto nelle precedenti rivoluzioni, ma abolire ogni sfruttamento; in secondo luogo mancando nel paese ogni embrione già formato di economia socialista, esso dovette creare “dal nulla ” forme nuove, socialiste di economia”. Stalin riconosce poi che la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione incontra nei paesi capitalisti una forte resistenza.
Questa è una considerazione fondamentale mette in evidenza una contraddizione tuttora aperta nell’elaborazione marxista e della sperimentazione socialista. Infatti mentre nei paesi capitalisti il carattere dei rapporti di produzione (privata) non è ancora entrata in contraddizione con lo sviluppo delle forze produttive (anzi c’è stata una estesa rivoluzione tecnologica che oggi però è in fase di stagnazione), nel socialismo il carattere dei rapporti di produzione (proprietà sociale connivente con forme di proprietà statale e privata) non ha corrisposto – se non nella fase della accumulazione primitiva/ industrializzazione – ad un maggiore sviluppo delle forze produttive.
Secondo Mao Tse Tung, Stalin non dà una risposta soddisfacente al problema delle leggi oggettive. A suo avviso Stalin è troppo diffidente verso i contadini “ Da un lato Stalin dice che i mezzi di produzione appartengono allo Stato, mentre dall’altro afferma che essi sono troppo cari per i contadini. In realtà egli si inganna. Lo Stato esercita un controllo opprimente sui contadini e Stalin non ha trovato il metodo giusto e la via giusta che conducono dal capitalismo al socialismo e dal socialismo al comunismo ”,
Stalin, facendo un bilancio dell’esperienza sovietica, appare fortemente preoccupato dal ruolo dei kolkhos che non corrispondendo ancora ai rapporti di produzione socialisti, potrebbero rappresentare un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive in URSS:Da noi esistono due forme fondamentali di produzione socialista: la produzione statale, di tutto il popolo, e quella kolkhosiana che non può essere definita di tutto il popolo”. In effetti nelle campagne – ancora ai primi anni ‘50- i mezzi di produzione sono dello Stato ma i risultati della produzione sono dei kolkhosiani.
b) Stalin replica piuttosto duramente a quei compagni ed economisti che muovevano all’economia socialista la contestazione secondo cui in URSS era tuttora vigente la produzione di merci. E’ un fattore estremamente importante: “ Questi compagni sbagliano profondamente….La produzione di merci conduce al capitalismo solamente se esiste la proprietà privata dei mezzi di produzione, se la forza/lavoro si presenta sul mercato come merce che il capitalista può comprare e sfruttare nel processo di produzione….Se non esistono queste condizioni che trasformano la produzione di merci in produzione socialista, se i mezzi di produzione non sono più proprietà privata ma socialista, non si può ritenere che la produzione di merci conduce al capitalismo”. Rispondendo agli economisti che, sostenendo che nell’URSS esisteva ancora la produzione di merci, si rifacevano alle tesi esposte nel “Capitale”, Stalin opera un’altra rottura ritenendo che “sia necessario rifiutare anche certi altri concetti tratti dal “Capitale” di Marx – dove Marx si è occupato dell’analisi del capitalismo – e artificiosamente applicati ai nostri rapporti sociali… Credo che i nostri economisti dovrebbero porre fine a questa incongruenza tra i vecchi concetti e il nuovo stato di cose nel nostro paese socialista, sostituendo ai vecchi concetti, concetti nuovi, corrispondenti alla nuova situazione ”,
Questa lunga citazione del saggio di Stalin è indicativa, forse più di quella indicata nel precedente paragrafo, della dialettica e della rottura tra la teoria di Marx, lo schematismo di tanti marxisti e l’esperienza pratica avviata dalla Rivoluzione d’Ottobre, cioè di quella divaricazione tra “marxisti” e “comunisti” che, seppur rimossa, è esistita dopo il ‘17 ed ancora si manifesta nella valutazione dell’esperienza storica del socialismo.
c) Stalin individua abbastanza chiaramente l’esistenza della legge del valore anche neH’economia dell’URSS relativamente alla circolazione delle merci e allo scambio di merci, in modo particolare nello scambio di articoli di consumo. A suo avviso, tale fattore non è negativo perché insegna ai dirigenti delle imprese sovietiche a misurare le grandezze della produzione, a calcolar^ i fattori reali della produzione e ad ottenere che le aziende siano redditizie. Ma Stalin è costretto a riconoscere che il problema non è tanto l’influenza delle legge del valore sulla produzione quanto “ la scarsa dimestichezza dei nostri dirigenti con l’azione della legge del valore”. Rileva anche come il campo d’azione della legge del valore in URSS sia rigorosamente limitato e incapace di svolgere la funzione di regolatore della produzione. E’ per questa ragione che resistenza di questa legge nell’economia socialista non può provocare le crisi di sovrapproduzione che provoca nel capitalismo. In relazione a quest’ultima analisi (in sostanza l’impossibilità dei meccanismi del modo di produzione capitalistico di generare crisi nelle economie socialiste) Stalin contesta anche le tesi di quegli economisti – prosperati poi nell’epoca kruscioviana e gorbacioviana – secondo i quali l’URSS doveva cessare di dare priorità all industria pesante (meno redditizia) per sviluppare l’industria dei beni di consumo (più redditizia). Egli ritiene invece che proprio la scelta di dare priorità all’industria pesante cioè alla produzione dei mezzi di produzione e non dei beni di consumo, sia quella che libererà l’URSS dalla crisi periodiche che investono le economie capitaliste. Per Stalin solo la scomparsa della produzione di merci e quindi il passaggio alla “proprietà di tutto il popolo dei mezzi di produzione” (il che significa eliminare del tutto la variabile “kolkhosiana” nelle campagne) potrà portare alla scomparsa della legge del valore e del valore stesso nelle sue varie forme.
Secondo Mao Tse Tung la tesi di chi preconizza la distruzione immediata della circolazione delle merci, della forma delle merci e della legge del valore è sbagliata perché “bisogna passare al comunismo per fasi”. Su questo aspetto concorda con Stalin tanto che invita a studiare a fondo questo capitolo, ma sottolinea anche il primato della politica nell’esercitare una funzione regolatrice della pianificazione, mentre Stalin, a suo avviso “Parla solo dei rapporti di produzione, non parla della sovrastruttura, né dei rapporti tra questa e la base economica… Stalin parla esclusivamente di economia; non affronta la politica”. Il dirigente rivoluzionario cinese riconosce l’importanza della esperienza sovietica nel campo della creazione di una economia socialista, riconosce che anche nella Rivoluzione Cinese i risultati “sono stati ottenuti andando a tentoni” ma che è per queste ragioni che “dobbiamo fare meglio dell’URSS” cominciando così ad evidenziare i rischi della stagnazione “politica” del socialismo in Unione Sovietica ed avviando una nuova divaricazione : quella tra i “comunisti” che hanno realizzato la prima sperimentazione pratica di una società socialista e i “rivoluzionari” che riaprono un ciclo della lotta di classe a livello intemazionale avendo a disposizione l’esperienza sovietica.
I rapporti con i partiti comunisti.
Ancora oggi è difficile comprendere veramente perché fu sciolta l’internazionale Comunista. La sua sostituzione con il Cominform fu assai limitata geograficamente (solo i paesi a democrazia popolare dell’est Europa più i partiti francese e italiano) e politicamente. Al di là della denuncia e dell’opposizione al “Piano Marshall”, il Cominform fu neutralizzato dal durissimo scontro con i comunisti jugoslavi che ne indebolì il peso politico internazionale. A differenza degli anni ‘30, l’avvio di purghe, processi ed esecuzioni nei partiti comunisti polacco, cecoslovacco, ungherese nei primi anni ‘50, nonostante l’asprezza della guerra fredda, appare tutt’oggi incomprensibile e per molti aspetti controproducente.
Le scelte adottate nei paesi a democrazia popolare dell’Europa dell’Est si sono rivelate spesso affrettate ed irrazionali :
- La fusione tra comunisti e socialisti nei vari paesi dell’est ha indebolito e inquinato i partiti comunisti senza produrre quel rafforzamento della direzione politica che appariva invece necessaria (nascita del POUP in Polonia, POSU in Ungheria, SED in Germania Est ecc.);
- Le purghe, le epurazioni e l’imposizione di scelte adottate venti anni prima nell’URSS a paesi con caratteristiche assai diverse sia tra loro che con la realtà dell’URSS (vedi la Cecoslovacchia industrializzata o le arretratissime Bulgaria e Romania) ridussero la base sociale di sostegno delle leadership delle democrazia popolari:
- La posizione verso le “vie nazionali al socialismo” fu altalenante. Positiva verso i partiti che la sostenevano nell’Europa occidentale – negativa verso i partiti che la sostenevano nei paesi dell’Europa dell’Est dando per scontato che questi ultimi avessero già compiuto tutti i passaggi necessari a stabilizzare una egemonia politica nella società (cosa non vera come dimostrato dai conflitti in Polonia, Germania Est, Ungheria, Cecoslovacchia tra il ‘53 e il ‘68) e il processo di edificazione socialista (quest’ultimo ha proceduto invece con tempi e passaggi diversi da paese a paese lasciando spesso spazio a settori dell’economia privata come in Polonia e Ungheria).
- Più rilevante è stato invece il molo svolto dal PCUS nei primi anni ‘80 nella lotta politica contro l’eurocomunismo elaborato dal PCI che ha avuto una funzione di chiarimento nel movimento comunista tra l’opzione trasformista e socialdemocratica e il mantenimento di una posizione di classe ed internazionalista di molti partiti e organizzazioni comuniste. Analogamente il ruolo dell’URSS nel fronte antimperialista mondiale ha consentito a molti processi rivoluzionari di trionfare nel Terzo Mondo e ha permesso che anche nei paesi a capitalismo sviluppato il movimento operaio conquistasse posizioni di forza in tutti gli anni ‘70.
- Lo scontro con i comunisti jugoslavi si è rivelato prematuro e inefficace. Infatti il partito jugoslavo resse all’urto della condanna e dell’ostracismo di tutto il movimento comunista internazionale fino al 1960 quando Krusciov avviò una rettifica radicale della condanna verso il modello jugoslavo imitandone molte scelte. Sia l’URSS che la Jugoslavia hanno poi potuto verificare l’illusorietà e la contraddittorietà del modello jugoslavo ma l’attacco di Stalin contro questo modello è avvenuto in una fase in cui poteva e doveva essere evitato. Occorre sottolineare che Stalin, diversamente da Krusciov in Ungheria e da Breznev in Cecoslovacchia, non ricorse all’intervento militare contro la Jugoslavia nonostante la rottura fosse per molti aspetti assai più grave di quelle che si produssero nel’56 e nel ‘68 nei due paesi del Patto di Varsavia.
- Infine, il rapporto con la Rivoluzione Cinese fu estremamente contraddittorio. Nella logica dell’amministrazione dei risultati di Yalta, l’URSS voleva evitare ogni rottura rivoluzionaria in Cina e spingeva piuttosto per un governo di coalizione tra i nazionalisti e i comunisti. Giustamente i rivoluzionari cinesi forzarono la mano all’URSS e alla situazione portando a compimento il processo rivoluzionario. Di fronte all’indubbia capacità dei comunisti cinesi, Stalin e l’URSS cambiarono atteggiamento e sostennero il nuovo governo socialista ma senza trarne le dovute conseguenze. Invece di riavviare un coordinamento internazionale del movimento comunista (soprattutto dopo la rottura con gli jugoslavi) che poteva poggiare su due grandi paesi rivoluzionari e un’area di paesi in cui – seppur dall’esterno – si stavano creando le basi per il socialismo, l’URSS e Stalin si limitarono all’amministrazione dell’esistente, senza aprire nuovi fronti e senza sfruttare la vittoria cinese per rinnovare quella progettualità rivoluzionaria che, come abbiamo potuto verificare, era necessaria.
La rottura operata successivamente da Krusciov con il partito comunista cinese, rappresenta poi la scelta più grave e con le conseguenze più pesanti per il movimento comunista internazionale.
La rottura tra URSS e Cina
Le cause della rottura tra URSS e Cina, una rottura drammatica e con conseguenze pesantissime sul movimento comunista mondiale, non sono identificabili con un fatto specifico (XX° congresso del PCUS e destalinizzazione) ma sono il risultato di un processo di differenziazione delle due esperienze rivoluzionarie sia sul piano politico che statale.
Secondo alcuni storici l’emergere di un altro grande stato socialista come la Cina ha dovuto scontare un rapporto difficile con l’URSS sin dall’inizio. “/ rapporti con lo Stato sovietico, apparentemente fraterni, sono avvelenati sin dall’origine da problemi di adattamento, di maturazione politico-diplomatica, dalla necessità di adeguarsi ad un nuovo tipo di rapporti che le affinità ideali non bastano a rendere più semplici” (Jaques Droz: “Storia del socialismo”). Questa tesi è sostenuta anche da Edoarda Masi che sottolinea invece la “resistenza alle proposte dell’URSS che assegnavano all’economia cinese un ruolo subalterno nel piano complessivo per il campo socialista: produzione agricola ed artigianale, fornitura di materie prime ed industria di trasformazione in diversi settori” (“Storia della Cina contemporanea”).
In realtà, ancora secondo Droz, la Cina seguirà più o meno regolarmente il modello sovietico fino agli inizi del 1958 impostando con queste caratteristiche il primo piano quinquennale (1953-1957) ma poi, a partire dal 1958, quelle che erano “semplici dissonanze si trasformano in vere e proprie divergenze”.
Ma al di là degli storici e degli studiosi “marxisti”, per chiarire le cose è indicativa la ricostruzione della rottura tra Cina e URSS fatta da Mao Tse Tung. Mao sottolinea come le radici dello scontro con l’URSS siano assai più lontane degli anni ‘60. periodo in cui lo scontro assunse connotati durissimi in tutto il movimento comunista internazionale. “Stalin voleva impedire che la Cina facesse la rivoluzione dicendo che non doveva esserci la guerra civile e che dovevamo cooperare con Chiang Kai Shek altrimenti la nazione cinese sarebbe stata annientata. Ma noi non abbiamo fatto quello che lui diceva. La rivoluzione è giunta alla vittoria. Dopo la vittoria della rivoluzione egli sospettò che la Cina fosse sul punto di diventare una Jugoslavia e che io sarei stato un secondo Tito. In seguito quando andai a Mosca per firmare il Trattato cino-sovietico di alleanza e assistenza reciproca, noi abbiamo dovuto sostenere un’altra battaglia. Egli non aveva intenzione di firmare un trattato. Dopo due mesi di negoziati alla fine lo firmò. Quando Stalin cominciò ad avere fiducia in noi? Fu all’epoca della campagna di resistenza all’America e di aiuto alla Corea, iniziata nell’inverno del 1950. Fu allora che egli a credere che noi non eravamo né la Jugoslavia” (Discorso alla decima sessione plenaria del comitato centrale emerso dall’8° congresso del PCC, settembre 1962).
Chiarito il rapporto venutosi a creare tra l’URSS di Stalin e la Cina rivoluzionaria – un rapporto piuttosto freddo all’inizio ma rafforzatosi a partire dal 1950 – se è possibile datare la rottura tra Cina e URSS, essa è individuabile nel forte dissenso dei comunisti cinesi verso la destalinizzazione e la linea politica emersa con Krusciov nel XX congresso del PCUS (1956). “…Le divergenze di principio in seno al movimento comunista internazionale…sono nate nel 1956 con il 20° congresso del PCUS….fu il primo passo della direzione del PCUS sulla via del revisionismo…La critica di Stalin da parte del 20° Congresso del PCUS fu sbagliata, sia dal punto di vista di principio che da quello del metodo…Ripudiando totalmente Stalin..Krusciov ha in sostanza negato la dittatura del proletariato, negato i principi fondamentali del marxismo-leninismo che Stalin aveva difeso e sviluppati…Deformando il giusto principio della coesistenza pacifica tra paesi e sistemi sociali diversi, principio enunciato da Lenin, Krusciov presentò la coesistenza pacifica come “la linea generale della politica estera dell’Unione Sovietica. Questo significa escludere dalla linea generale della politica estera dei paesi socialisti – o subordinare alla sua politica detta di coesistenza pacifica – il reciproco aiuto e la cooperazione, il sostegno alle lotte rivoluzionarie dei popoli e delle nazioni oppresse” (“Origine e sviluppo delle divergenze tra la direzione del PCUS e noi”. Redazione del Renmin Ribao e Hongqui del 6 settembre 1963).
Dunque non è solo la destalinizzazione ad inquietare i comunisti cinesi e a far nascere il sospetto del “revisionismo” nella linea emergente nel PCUS di Krusciov, ma è anche la politica della coesistenza pacifica che Krusciov intendeva imporre come politica intemazionale di tutti i paesi socialisti e di tutto il movimento comunista intemazionale. I cinesi, nella politica estera “statale”, si sono sempre rifatti alla coesistenza pacifica con stati e sistemi diversi da quello socialista, ma questa politica intemazionale “di Stato” non poteva essere la stessa del “Partito” che ha moli, compiti e funzioni internazionaliste.
Ma il problema strategico va individuato ancora meglio nel fatto che la Cina, con la vittoriosa rivoluzione del ‘49 riapriva il ciclo rivoluzionario avviato nel ‘17.
Le democrazie popolari nell’Europa dell’Est o la stessa esperienza jugoslava, non avevano – obiettivamente – la stessa forza soggettiva della Cina ed erano comunque circoscritte all’Europa. La rivoluzione cinese corrispondeva invece alla nuova fase di lotta internazionale – la decolonizzazione – che investiva tutta l’area ex coloniale delle maggiori potenze capitalistiche. Se il ‘17 era stato il grande detonato- re del movimento operaio in Europa (anche se con risultati vincenti solo in Russia), la Cina del ‘49 era il detonatore dei processi rivoluzionari e di liberazione nazionale in Asia, Africa, America Latina. L’attivismo internazionale della Cina tra i paesi del terzo mondo, il ruolo di primo piano svolto alla prima conferenza dei paesi non allineati (Bandung, 1955) evidenziano questo aspetto.
La ripresa di un ciclo rivoluzionario al di fuori dei punti alti dello sviluppo capitalistico, non solo riproponeva l’anomalia del ‘17 rispetto all’analisi marxista ma metteva in evidenza anche la contraddizione emergente tra il carattere amministrativo dei risultati di Yalta con cui il l’URSS intendeva gestire la nuova fase di lotta internazionale e la soggettività rivoluzionaria crescente in gran parte del mondo.
La rottura tra Cina e URSS è dunque rivelatrice della crisi – o meglio – della stagnazione politica e teorica a cui era giunta l’Unione Sovietica già negli anni ‘50.
Sulla evoluzione dei rapporti URSS-Cina e sulle vaste conseguenze che hanno avuto nello sviluppo, o nell’arretramento, del movimento comunista internazionale ci siamo limitati solo ad alcune riflessioni; siamo però coscienti che una simile questione avrebbe bisogno di una trattazione ben più vasta ed argomentata di quanto possiamo fare su queste pagine.
Stagnazione, crisi e dissoluzione del PCUS
Nella ricostruzione e nell’analisi del processo che ha portato alla dissoluzione dell’URSS, viene quasi spontaneo domandarsi come sia stato possibile che il PCUS, un partito con milioni di iscritti e che per decenni aveva gestito o cogestito il potere insieme o contro la “nomenklatura”, si sia lasciato disgregare prima dalla politica gorbacioviana e poi dagli ukase di Eltsin. E’ decisivo comprendere perché i comunisti sovietici, quelli che ancora oggi scendono in piazza contro Eltsin, che hanno lottato contro il colpo di stato di ottobre, che hanno ottenuto buoni risultati nelle elezioni russe, non abbiano trovato la capacità né la forza per opporsi con efficacia al processo messo in moto da Krusciov prima e dalla perestrojka poi. Ma la demolizione del PCUS realizzata dal progetto gorbacioviano, sanzionava una crisi del partito che era latente da anni. Abbiamo visto come alcune delle ragioni della stagnazione e della crisi che hanno portato alla dissoluzione del PCUS, trovino origine in quella predominanza dell’economicismo e della logica amministrativa che sostituirono l’egemonia rivoluzionaria nel PCUS negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, agli accordi di Yalta, all’inizio della guerra fredda.
Ma è indubbiamente nell’epoca kruscioviana che il partito comunista sovietico cessò definitivamente di essere il motore politico della società e del rinnovamento rivoluzionario del movimento comunista internazionale.
Sul piano strategico la direzione di Krusciov dichiarò conclusa la lotta di classe nella società sovietica riducendo quindi il molo politico del partito ed aprendo larghi spazi alla ripresa/egemonia della “nomenklatura” più ostile alla pianificazione dell’economia socialista, più spoliticizzata e più attratta dalla competizione/emulazione con l’occidente (in tutti i sensi) che dall’approfondimento della struttura socialista dell’esperienza sovietica.
“Dirigenti d’azienda, alti burocrati, funzionari direttivi dell’amministrazione, ministeriali di rango, intellettuali preposti all’anacronistico “realismo socialista” che mal sopportavano la completa subordinazione al partito e al suo apparato, spingono per una radicale demolizione del mito di Stalin…La cosiddetta nomenklatura svolge nella transizione dallo stalinismo al krusciovismo un ruolo determinante. E dominante” . Questa è la analisi piuttosto lucida di un giornalista italiano esperto della situazione dell’URSS (Italo Avellino “Cernernko : il guardiano del partito”, 1984).
La destalinizzazione kruscioviana segna dunque un passaggio fondamentale nella spoliticizzazione del partito e darà inizio di quel processo teorico, politico, culturale che i comunisti cinesi definirono “revisionismo” aprendo una polemica durissima e frontale con il PCUS. La coesistenza pacifica con l’imperialismo e l’avventurismo delle previsioni che vedevano il superamento del socialismo sul capitalismo in pochi anni e il passaggio al comunismo in URSS entro gli anni ‘70, funzionarono da copertura internazionale ed ideologica ad una vera e propria campagna di terrore psicologico contro “lo stalinismo” che operò una rottura profonda con l’esperienza storica del socialismo accumulata fino agli anni ‘50.
La demolizione del ruolo del partito e la sua spoliticizzazione fu avviata da Krusciov con l’assurda riorganizzazione del PCUS in due settori separati tra loro : quello impegnato nell’industria e quello impegnato nell’agricoltura. Contemporaneamente con la nascita degli organismi regionali di gestione economica (i “sovnarkoz”) il controllo sull’economia viene via via sottratto al partito.
Dopo i disastri accumulati nell’agricoltura, nell’economia e in politica internazionale, l’allontanamento di Krusciov dal potere nel ‘64 rettificò entrambe le decisioni : il partito fu nuovamente unificato e i “sovnarkoz” disciolti, ma i danni erano ormai profondi e la rottura tra l’epoca Breznev e quella kruscioviana non fu poi così radicale come si vuol far credere. I tentativi di tornare all’esperienza socialista o le iniziative per la riabilitazione di Stalin che emersero durante la direzione di Breznev ( che intendevano segnare con forza la rottura con il krusciovismo ma incontrarono una fortissima opposizione anche nel PCUS) furono lasciate cadere. Tant’è che le riforme economiche del ‘65 furono affidate ad un classico esponente del ceto amministrativo/manageriale come Kossygin che si era formato politicamente più nei ministeri che nel partito. In questa situazione cominciano gli anni ‘70 cioè il decennio in cui, dopo una prima fase di ottimismo dovuta anche all’esplosione della crisi capitalista dei primi anni ‘70 e allo shock petrolifero, cominciano a delinearsi i sintomi della stagnazione economica dell’URSS. Stagnazione economica della società e stagnazione politica del PCUS cominciano a marciare di pari passo.
Il PCUS non riesce più a svolgere sul piano della direzione politica della società un effettivo ruolo di direzione strategica né di rinnovamento e approfondimento politico dell’esperienza socialista accumulata. Le contraddizioni cominciano ad essere più profonde dei risultati. Lo stesso PCUS, crescendo a dismisura, aveva via via perso la sua natura di soggetto politico d’avanguardia, di centro di formazione di quadri politici, di elaborazione teorica e strategica dello sviluppo socialista e della politica internazionalista dell’URSS. Come è noto, Stalin era contrario ad un partito di massa con milioni e milioni di iscritti. La selezione per l’ingresso nel partito era durissima e resa ancora più pesante dalle purghe , ma nonostante questo nel PCUS (soprattutto dopo la guerra) cominciarono ad entrare, oltre alle “avanguardie”, anche personaggi spoliticizzati, carrieristi, opportunisti che usavano il partito come “ponte” verso la nomenklatura (diventando dirigenti d’azienda o dei ministeri o dei vari enti).
Dinamica degli iscritti al PCUS
1924: 470.000 (morte di Lenin)
1932: 3.100.000 (prima delle purghe)
1938: 1.900.000 (dopo le prime purghe)
1941: 3.900.000 (guerra)
1946: 5.500.000 (primo dopoguerra)
1953: 6.700.000 (morte di Stalin)
1956: 7.200.000 (XX congresso/Krusciov)
1964: 11.000.000 (destituzione di Krusciov)
1976: 15.600.000 (epoca di Breznev)
1983: 18.118.000 (Andropov)
1990: 18.000.000 (Gorbaciov)
Il rapido aumento di iscritti realizzatosi nella fase kruscioviana e poi in quella brezneviana, ci dà l’idea del ruolo anomalo che viene assunto dal PCUS. Ma chi erano i nuovi iscritti?
“A metà degli anni ‘50, sull’onda del risanamento complessivo del Partito e del Paese, la forte attenzione sui problemi dell’economia e della società, impose la necessità di garantire la più alta competenza nella direzione dell’economia da parte del Partito. Di fatto, questo obiettivo – in sé giusto – si risolse nell’atto formale di rafforzare i comitati di partito con l’immissione di specialisti dell’industria e dell’agricoltura. Si sviluppò una campagna organizzativa dai tratti agonistici ed i documenti degli organi centrali di partito esaltarono i successi ottenuti nel raggiungimento dell’obiettivo, il tutto condito da abbondanti citazioni di Lenin ” (Valentin Lagostaev “Lo spessore intellettuale del Partito”, Pravda, Febbraio 1990).
Emblematica invece della fase della stagnazione politica della fase di Breznev e delle differenze con la fase staliniana, è la valutazione di un altro commentatore sovietico (tra l’altro gorbacioviano) : “Nel lungo periodo della stagnazione – e soprattutto nei suoi ultimi anni – il valore democratico dell’eleggibilità è stato praticamente annullato, trasformato in una mera formalità. Una cosa del genere non era accaduta neppure all’epoca di Stalin…. In decine di conferenze di partito, fino al 1940, non è mai avvenuto che qualcuno, anche un solo candidato tra i membri e i membri supplenti del comitato regionale o cittadino o tra i membri della commissione di revisione, sia stato eletto all’unanimità… Nel 1974, alla conferenza del partito di Mosca, per la prima volta tutti i membri del comitato regionale, supplenti e della commissione di revisione, sono stati eletti all’unanimità. Nessuna delle candidature presentate ebbe un solo voto contrario” (Leon Onikov: “Il recupero della concezione leniniana del partito”, Pravda. Gennaio 1989).
In sostanza il PCUS ha via via assunto le caratteristiche di un organismo strettamente compenetrato con l’apparato statale e gli organismi sociali sia riducendo drasticamente la sua autonomia politica sia venendo meno ad un ruolo di direzione/elaborazione politica (il “ruolo dirigente” che rimaneva scritto sulla Costituzione) senza più avere il carattere dinamico che pure aveva assicurato fino alla seconda Guerra Mondiale. La mefitica tesi kruscioviana del “Partito di tutto il popolo” ha snaturato il carattere del PCUS, ma questa tesi non è stata rovesciata radicalmente come sarebbe stato necessario, introducendo così una relazione anomala tra partito-società- stato che ne ha devastato l’autonomia : “In quanto partito, trasformato per di più in istituzione dirigente dello Stato, il PCUS tende a raggruppare nelle sue fila tutti coloro che contano nella società sovietica: dal capo dell’istituto di ricerca o dallo scrittore noto fino all’astronauta o al campione sportivo“ (Giuseppe Boffa : “Storia dell’unione Sovietica.1979).
Non sarà più dunque il partito a scegliere e selezionare i propri quadri e dirigenti, ma gli individui a scegliere di entrare nel partito ed utilizzarlo per le loro ambizioni.
Abbiamo già sottolineato come sia un errore far coincidere il PCUS con la “nomenklatura”, con la burocrazia o con “una nuova classe” perché in realtà il partito si era trasformato in una sorta di trampolino di lancio per coloro che intendevano usarlo per poi passare ai ministeri, alle aziende, ai centri decisionali.. Da questo fattore derivano gli aspri conflitti emersi più volte sia dentro il partilo che nella direzione dell’economia sovietica.
Il rapido trasformismo di cui hanno dato prova moltissimi esponenti o dirigenti del “PCUS” durante la perestrojka e con la dissoluzione dell’URSS, dimostra l’enorme eterogeneità, spoliticizzazione e strumentalizzazione del partito da parte dell’intellighencjia e dell’aspirante “nomenklatura” . E’ infatti questo strato sociale che darà vita negli anni della stagnazione alla economia ombra che affianca, sabota e spesso sostituisce la pianificazione economica e successivamente si dividerà tra chi affianca la borghesia compradora (prosperata nel caos della perestrojka e nel mercato selvaggio del regime eltsiniano) e i rappresentanti diretti della “nomenklatura” industriale, aziendale, ministeriale di Arkadi Volski che si oppongono alla privatizzazione e all’ultraliberismo imposto dal FMI.
La debolezza della soggettività politica rivoluzionaria e di classe nel PCUS, ha permesso questo snaturamento del ruolo e della composizione sociale/intellettuale del partito.
Nei documenti ufficiali del XXVI Congresso (1981) si giunge a dare una valutazione positiva del fatto che il 75% dei segretari dei Comitati Centrali dei partiti comunisti dell’Unione Sovietica e il 60% dei segretari di partito a livello cittadino, di quartiere e circondariali fosse costituito da specialisti, tecnici, ingegneri. Nel congresso del 1986 (il primo della fase gorbacioviana), questo strato sociale aveva raggiunto ormai il 46% del partito. Nel 1987, in piena epoca gorbacioviana, la nuova leadership avvia un ricambio che porta nel partito due milioni di nuovi iscritti e ne allontana altrettanti rafforzando così la propria base sociale di consenso dentro al PCUS “La nuova dirigenza (gorbacioviana, NdR), conta su un discreto appoggio da parte della intelligencjia, dei giovani, dei lavoratori più istruiti, di alcuni settori della burocrazia e di un partito che ha rastrellato quasi due milioni di giovani iscritti negli ultimi anni “ (Moshe Levìn : “Il progetto Gorbaciov”, 1987). Lo smantellamento del PCUS da parte della leadership gorbacioviana è dunque pesante ma trova la strada facilitata dalle mutazioni genetiche del partito già avviate negli anni ‘50 e cristallizzate dalla direzione di Breznev.
La direzione di Breznev ha avuto ricadute “oggettivamente” positive solo in politica internazionale contribuendo all’offensiva antimperialista e neocolonialistico degli anni ‘70 che accentuò pesantemente la crisi di egemonia degli USA a livello mondiale (in Asia, Africa e America Latina soprattutto) e che ha rappresentato obiettivamente un punto di forza per tutti i movimenti di liberazione, i partiti comunisti e le organizzazioni progressiste del mondo.
Infine è doveroso sottolineare il ruolo svolto dal PCUS nella lotta contro l’eurocomunismo (elaborato dal PCI e sostenuto per un periodo dai partiti francese e spagnolo ma con conseguenze anche in altri paesi europei) che ha contribuito alla nascita di nuovi partiti comunisti con posizioni di classe ed internazionaliste in Europa (vedi Spagna, Catalogna, Olanda, Gran Bretagna).
Lo spazio aperto dalla lotta contro l’eurocomunismo è stato quello in cui si sono inserite anche esperienze politiche comuniste nel nostro paese nel tentativo di contrastare il trasformismo socialdemocratico del PCI sfociato con la nascita del PDS.
La brevissima parentesi di Andropov espresse drammaticamente la consapevolezza della crisi e della stagnazione politica ed economica in cui era caduta l’esperienza sovietica e lo stesso ruolo del PCUS. In modo particolare Andropov non coglie solo la contraddizione in cui si dibatte l’economia sovietica (“Perché agli ingenti investimenti non corrisponde il rendimento dovuto, perché le conquiste della scienza e della tecnica non vengono introdotte nella produzione a ritmi soddisfacenti ?”) ma anche la divaricazione tra la capacità soggettiva del PCUS e le crescenti esigenze “del livello di sviluppo tecnico-materiale, sociale e spirituale raggiunto dalla società sovietica“. Andropov sottolinea nuovamente il carattere di sperimentazione dell’esperienza socialista dell’URSS e gli scostamenti obiettivi tra questa e rimpianto teorico del marxismo
“Le vie storiche concrete dell’affermazione del socialismo non hanno coinciso in tutto e per tutto con le previsioni formulate dai fondatori della nostra teoria rivoluzionaria. Il fatto è che la Rivoluzione d’Ottobre è avvenuta in condizioni storiche nuove, che non esistevano durante la vita di Marx, è avvenuta nell’epoca dell’imperialismo.”(Andropov : “L’insegnamento di Karl Marx e alcuni problemi dell’edificazione socialista nell’URSS, 1983).
Il processo di rinnovamento economico, sociale e politico avviato da Andropov, diversamente dalla perestrojka gorbacioviana, aveva dunque le basi per cercare di invertire la tendenza alla stagnazione, ma Andropov, in un certo senso, rappresentava una generazione politica che non corrispondeva più alla natura e alle caratteristiche che si erano andate determinando nel PCUS e, come conseguenza, delle modificazioni intervenute nella società sovietica. La degenerazione della perestrojka e del progetto gorbacioviano confermeranno questa drammatica divaricazione.
Il PCUS dell’epoca gorbacioviana era dunque un partito ormai ridotto allo sbando e privato della funzione che aveva svolto storicamente. Le “purghe” di Gorbaciov verso il PCUS, se sono state meno “cruente” di quelle staliniane, non sono state meno profonde e numerose. Il PCUS durante la perestrojka è stato sempre più esautorato dalle decisioni politiche e dai centri decisionali della politica estera ed economica e dalla egemonia sulla società.
La perestrojka non era infatti un progetto riformatore del socialismo ma un progetto di trasformazione globale dell’URSS in un paese “deideologizzato, inserito nel mercato mondiale e negli istituti internazionali di tipo capitalista”. Per questa ragione abbiamo ritenuto che la categoria del “revisionismo” sia del tutto inadeguata per dare una valutazione di Gorbaciov e della perestrojka.
Le responsabilità dei gorbacioviani nella liquidazione del PCUS emergono con pesantezza nell’ultimo congresso (1990) prima dello scioglimento decretato da Eltsin e accettato da Gorbaciov nel 1991.
In questo congresso, vengono presentate per la prima volta tre piattaforme: quella ufficiale del Comitato Centrale espresso dalla leadership gorbacioviana ; quella dei “democratici” di Eltsin, Gaidar ecc; quella marxista presentata da una area del PCUS che possiamo definire come “nuova sinistra” di cui non fanno parte però gli “oppositori” storici alla perestrojka (Ligaciov, Andreeva, Ampilov ecc.). In realtà la piattaforma ufficiale del PCUS e quella dei “democratici” sono piuttosto coincidenti su moltissimi aspetti; il vero elemento di dissenso è appunto il ruolo del PCUS. Egor Gaidar, il pupillo di Eltsin che diventerà Primo Ministro, è ancora un intellettuale militante del PCUS ma aderente alla piattaforma dei “democratici”, spiega in una tavola rotonda precongressuale i particolari del processo con cui si arriverà alla liquidazione del PCUS “Le differenze che balzano per prime agli occhi (nelle due piattaforme, NdR) riguardano l’approccio nei confronti del potere…Qui si pone effettivamente una questione di principio : il rapporto di quelle forze innovatrici nate nel PCUS dal basso nei confronti del centro riformatore che è alla direzione del partito. La confluenza dei movimenti riformatori dall’alto e dal basso può esercitare un ruolo positivo nel rinnovamento del partito. Viene dunque a convergere, proprio dentro al PCUS, l’azione liquidatrice e concertata di Gorbaciov e degli eltsiniani. Il primo lavora dall’alto, i secondi ai fianchi del partito e soprattutto nella società.
Osservandola a distanza questa operazione pare quasi “diabolica”. Infatti i membri del PCUS contrari al progetto eltsiniano sono stati portati a ritenere che il progetto gorbacioviano ne rappresentasse uno alternativo e si sono appiattiti su questo. Dunque chi stava lottando o intendeva battersi contro le conseguenze della perestrojka è rimasto stritolato dentro questa finta divaricazione che ha reso lampante quanto il discorso sulla “democratizzazione del PCUS” fosse formale, strumentale e funzionale alla sua liquidazione. I dirigenti e i militanti non liquidazionisti del partito, incapaci di lavorare diversamente, sono rimasti inebetiti sotto i colpi che arrivavano “dall’alto e dal basso” (come appunto teorizzato da Gaidar). Questa operazione ha fatto sì che i gruppi comunisti come quelli della Andreeva o di Ampilov non hanno potuto funzionare come alternativa alla graduale disgregazione del PCUS perché questo, formalmente, esisteva e si differenziava da Eltsin.
Gorbaciov era deciso a liquidare il PCUS e a convertirlo in un nuovo partito di tipo socialdemocratico. Nel Luglio del 1991 aveva imposto al Comitato Centrale un documento che, come sostiene lo storico Massimo Salvadori, “segnava la fine ideologica del PCUS”. Questo documento che prevedeva la trasformazione in senso socialdemocratico del partito e rompeva con l’origine stessa del socialismo in URSS e con la Rivoluzione d’Ottobre, era stato approvato con ben 342 voti a favore e solo 15 astenuti e contrari!! Era il segno della resa finale nel partito alla politica gorbacioviana e del livello di formalità e stagnazione raggiunto dal PCUS.
Il “ colpo di stato del 1991” e la vendetta di Eltsin, consumata sotto i riflettori del mondo, decretarono lo scioglimento del PCUS con l’avallo di Gorbaciov.
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Immagine in evidenza: Proletarskaya Station, Saint Petersburg, Russia
Autore: Mehrnaz Taghavishavazi, 5 maggio 2020
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