Relazione al forum “L’internazionalizzazione dell’economia e l’imperialismo italiano.” – Bologna 5 luglio 1997
Sergio Cararo – Contropiano Anno 5 n° 4 – 15 ottobre 1997
(…) La natura del capitalismo italiano nell’ultimo decennio sta subendo una rapida trasformazione. La crescente finanziarizzazione dell’economia, la liquidazione delle grandi aziende pubbliche e l’integrazione ormai realizzata nelle strutture internazionali del dominio capitalista (dall’Unione Europea al G 7) e la proiezione internazionale sul piano economico, politico e militare non collocano più l’Italia come l’anello debole della catena imperialista.
Volendo utilizzare le categorie leniniste dell’imperialismo, possiamo inquadrare chiaramente quella italiana come una economia imperialista come le altre, forse ancora debole su alcuni aspetti ma con una tendenza ormai piuttosto delineata.
(…) Ci sembra dunque di poter sostenere che l’economia italiana è una economia imperialista che opera sia in autonomia che in concertazione con le altre potenze all’interno del polo imperialista europeo. Questo passaggio di qualità non è privo di conseguenze all’interno della nostra società. Ed anche l’azione politica dei comunisti non può non tenere conto della differenza del proprio ruolo tra l’agire in un “anello debole della catena imperialista” o in uno dei punti alti dello sviluppo capitalista.
(…) L’imperialismo crea condizioni all’interno della società in cui si oligarchizzano drasticamente i rapporti sociali e i poteri decisionali, si riducono gli spazi democratici e le libertà politiche, si ricompongono le classi sociali in funzione dei nuovi interessi materiali che si producono e distribuiscono sulle spalle dello sfruttamento di altri popoli.
La natura imperialista dell’Italia ci pone nuovi e maggiori problemi come comunisti chiamati ad agire nei punti alti dello sviluppo capitalistico, nelle “metropoli imperialiste” che dominano una periferia investita e sottomessa dall’offensiva capitalista attiva ormai in tutto il globo. L’Italia ormai è dentro questo processo e limitare la nostra analisi ed azione politica alle polemiche della politica quotidiana sulla Bicamerale e le percentuali elettorali si rivela del tutto inadeguato (…)
Europa dell’Est: la “nostra Asia”
(…) Secondo alcuni esponenti del capitale finanziario l’Europa dell’Est può avere per le imprese italiane la stessa funzione avuta dai paesi a bassi costi del Sud Est Asiatico per il Giappone ovvero una area in cui realizzare una gigantesca valorizzazione del capitale a vantaggio dei punti alti dello sviluppo capitalistico.
Il dato è evidente. Fino al 1990 il tasso di internazionalizzazione delle imprese italiane era bassissimo e gli investimenti esteri erano di molto inferiori a quelli stranieri in Italia.
Dai primi anni ‘90 soprattutto nell’Europa dell’Est è cominciata la rincorsa delle multinazionali italiane che le ha portate nel 1995 a superare gli investimenti esteri in entrata invertendo così una tendenza storica. L’Italia da paese a bassi salari e internazionalizzazione debole, è diventato un paese fortemente integrato dentro il meccanismo delle filiere mondiali di produzione, con un ruolo diverso e più elevato nella divisione internazionale del lavoro ed infine un “esportatore netto di capitali” (Rapporto LUISS-Bocconi 1997).
Osservando i dati per grandi numeri, questa lettura non emerge ancora con evidenza: mentre il 52% delle imprese esporta, solo il 3% ha effettuato investimenti all’estero; su 65.000 imprese solo 1.800 dispongono di una filiale all’estero (dati del MedioCredito,1996). Ma disaggregandoli “qualitativamente”, la natura e il ruolo del capitalismo italiano nell’internazionalizzazione dell’economia ci consente di comprendere il significato strategico di questa nuova realtà.
Gli investimenti diretti esteri italiani nell’Europa dell’Est rileva il Centro Studi della Confindustria sono praticamente raddoppiati tra l’85 e il ‘95 passando dall’8 al 16% degli IDE totali italiani.
L’assalto a Est ha coinvolto non solo le multinazionali più grandi e già da tempo internazionalizzate (Fiat, Pirelli, Olivetti etc.) ma anche migliaia di piccole-medie imprese che rappresentano da un lato il 90% dell’industria italiana e dall’altro il punto di forza del “modello italiano” nelle relazioni internazionali.
Questo modello esaminato a fondo anche nelle sedi internazionali vede il capitalismo italiano fornire un modello di riferimento per la penetrazione nelle economie “emergenti” con un rilievo particolare nell’area di influenza dell’imperialismo italiano ovvero Balcani e Mediterraneo Sud.
Le conseguenze sulla composizione di classe in Italia (…)
Il milione di capi che ogni anno arrivano per Stefanel dalla Romania è prodotto da una decina di laboratori contoterzisti gestiti da italiani nel paese balcanico. Ormai in Romania si svolge il 34% del totale delle lavorazioni conto terzi, mentre in Ungheria rappresenta una quota del 15,9%, la Croazia il 6,2%, la Bulgaria il 6,2% e la Slovacchia il 5,6%.
Le conseguenze in Italia della delocalizzazione nei paesi dell’Est sono facilmente intuibili da alcuni dati: nel 1992 nel Veneto c’erano 15.000 laboratori contoterzisti; nel 1997 sono scesi a 10.000; per il 2000 si prevede che scendano a 5.000.
Ovvero il modello del Nordest italiano sta subendo già oggi pesantemente la concorrenza delle nuove periferie industriali anche nelle lavorazioni a minor valor aggiunto e con salari più bassi. Ricordiamo infatti che la situazione contrattuale e soprattutto quella reale per i contoterzisti è ancora peggiore di quello “ufficiale” del tessile abbigliamento” che pure è il peggiore di tutto il settore manifatturiero.
Se osserviamo i dati ufficiali sulla delocalizzazione italiana all’estero, possiamo verificare con una certa approssimazione che solo 405 multinazionali italiane hanno delocalizzato nei settori ad alta tecnologia e specialistici (occupando poco più di 100.000 lavoratori all’estero) mentre ben 1437 hanno portato all’estero lavorazioni ad alta intensità di lavoro e tradizionali (occupando in questi settori ben 490.000 lavoratori di cui 86.000 nell’Europa dell’Est, altrettanti in America Latina, 58.000 in Medio Oriente ed Africa, 210.000 nell’Europa occidentale, 30.000 nel Nord America e solo 17.000 in Asia ).
(…) Dunque una delle conseguenze più visibili della delocalizzazione a Est sembra essere quella tradizionale ossia l’abbassamento dei salari nei paesi a capitalismo avanzato e l’ottenimento di margini di profitto più elevati per le imprese che delocalizzano. Fin qui anche se le conseguenze sono pesanti per i lavoratori nulla di nuovo se non il fatto che a “rubare il lavoro” a questo punto non sono gli immigrati che arrivano in Italia ma i padroni che delocalizzano all’estero. Le produzioni a maggior valore aggiunto che restano in Italia, coincidono con la diminuzione dei lavoratori dell’industria sia dipendenti che autonomi e con la crescita degli occupati nei servizi alle imprese in condizioni sempre più frammentate e precarie (vedi il milione e mezzo di “collaboratori” fin qui censiti grazie al contributo prevdienziale del 10% a cui sono stati costretti).
La “periferia interna”: le zone franche nel Meridione
(…) Da alcuni anni, le misure per affrontare la ipercompetizione sui salari stanno andando in una direzione unica: abbassare i salari anche nei paesi a capitalismo avanzato e “spalmare” il monte salari esistente tra un numero maggiore di lavoratori per far crescere l’occupazione senza costi aggiuntivi. Il monte salari dei paesi industrializzati corrisponde a 6.300 milioni di dollari l’ora da distribuire su 350 milioni di lavoratori con un costo medio di 18 dollari orari.. Quello dei paesi della “periferia industriale” corrisponde a 700 milioni di dollari l’ora da distribuire a 1 miliardo e 200 milioni di lavoratori con un costo orario medio di 2 dollari. Di fronte a questi dati, anche i padroni italiani sognano ad occhi aperti di poter sfruttare a tutto campo questo enorme esercito industriale di riserva in funzione dei propri margini di profitto.
(…) Due “esimi studiosi”, uno della Fiat e l’altro dell’università di Bari, sostengono apertamente che una riduzione del costo del lavoro nel Meridione ne aumenterebbe la competitività internazionale (Bodo e Viesti sul “Sole 24 Ore” del 22 gennaio ‘97). Ossia il Meridione italiano va convertito in un’area a bassi salari non solo per fare pressione sui lavoratori del Nord e del Centro che già oggi hanno un costo del lavoro superiore ma anche per competere con l’Europa dell’Est o il Maghreb scambiando un costo del lavoro un pò più alto con i vantaggi derivanti dalla qualificazione della forza lavoro, dalla vicinanza con i mercati ricchi e con le agevolazioni fiscali che sta introducendo il governo.
(…) Siamo dunque in marcia verso la costruzione di una “periferia o colonia interna” al nostro paese perfettamente compatibile (e prevista) dal processo di unificazione economica e monetaria del polo imperialista europeo quando prevede uno sviluppo disuguale all’interno dei singoli paesi e non solo tra i vari paesi europei.
Del resto già oggi intere regioni del Meridione vivono una condizione neo-coloniale di cui la presenza dei militari in Sicilia è solo l’aspetto più macroscopico e sotto certi aspetti anticipatore della logica che ha portato i militari italiani in Albania. Il ricorso alla “zona franca” per la Sicilia e il Meridione coincide esattamente con il modello francese che ha creato decine di zone franche nelle ribollenti banlieu metropolitane assicurandone ovviamente la stabilità anche attraverso la militarizzazione.
Il Meridione dunque rappresenta una delle contraddizioni potenziali dell’imperialismo italiano che dovremo cominciare a prendere in esame con più rigore perché è una delle aree insieme alle aree metropolitane del resto del paese in cui le conseguenze dell’internazionalizzazione dell’economia può essere in grado di concentrare con più forza quantità e qualità del conflitto sociale in una economia imperialista come quella dell’Italia.
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Autore: frank mckenna, 5 maggio 2017
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