in Contropiano numero 0 – 2 Aprile 1993
IL GOLEM: quando il rabbi Low di Praga creò il suo ” golem ” non poteva immaginare che le forze che aveva messo in moto e la creatura che aveva preso forma non sarebbe più stato in grado di controllare. Il golem doveva accrescere il potere del suo creatore nei confronti degli altri, invece lo portò al caos e alla rovina. L’inchiesta su tangentopoli si presta ad un paragone con questa leggenda. I creatori del golem giudiziario e politico scatenato dalle inchieste giudiziarie non paiono più in grado di controllare tutti gli effetti. ma quali erano i loro obiettivi e quali saranno le conseguenze?
Cercare di mettere a fuoco tutti i fattori del processo esploso con le inchieste sulle tangenti non è semplicissimo. Semplificazioni sarebbero anche possibili (contraddizioni e resa dei conti fra le varie fazioni della borghesia italiana e gli apparati politici collegati), ma non servirebbero ad individuare una dinamica politica ed economica che condizionerà concretamente lo scenario del nostro paese.
Chiarito preliminarmente che ogni discorso sulla “autonomia della magistratura” appare del tutto fuori luogo come fattore determinante in questa vicenda, occorre provare a ricostruire i fattori reali, che collegati direttamente o meno agli uffici giudiziari di Milano, delineano il carattere politico e materiale della “resa dei conti” iniziata da anni ma portata alla luce dalle inchieste su Tangentopoli.
È evidente quanto questo scontro interno al blocco di potere in Italia abbia una stretta relazione con le dinamiche internazionali intervenute alla fine degli anni ’80.
Sarebbe banale ritenere il “crollo del muro di Berlino” l’elemento decisivo. In realtà è stato un complesso di avvenimenti legato e determinato dalla ridefinizione dei rapporti di forza internazionali.
La crisi economica mondiale ha ridotto via via ogni residuo di autonomia nazionale delle varie economie. In Europa e in Italia in modo particolare, le nuove regole del gioco economico stanno imponendo la rimozione dei meccanismi su cui si è retto l’equilibrio tra le varie componenti sociali nel paese. La rottura del “consociativismo economico” strettamente connesso al “conosciutissimo politico” era dunque inevitabile. Non ci sono più i comunisti a fare paura, dicono alcuni cercando di spiegare così lo smantellamento di un apparato sociale fondato sul clientelismo, i privilegi, il voto di scambio, la mafia.
Ma in realtà il PCI sono almeno venti anni che non faceva più paura, anzi, la cultura di governo emersa nella fase dell’unità nazionale ha dato linfa vitale al consociativismo.
Il PCI non è mai andato al governo ma in un certo modo vi partecipava.
L’opposizione è stata “leale” in politica estera (vedi la NATO), è stata “ragionevole” verso la politica economica e le esigenze degli imprenditori (con qualche strappo alla regola come nel 1984).
In compenso amministratori e funzionari del PCI sedevano nei consigli di amministrazione delle USL, delle Ferrovie, degli enti pubblici e le giunte di sinistra hanno puntato più a far quadrare i bilanci che a varare opzioni alternative di governo nelle città.
Ma il mantenimento di questo patto consociativo alimentava i costi del debito pubblico e costringeva il blocco di potere DC/PSI ad allargare i cordoni della borsa per finanziare la rendita parassitaria, garantire l’evasione fiscale ad un crescente ceto rampante nel terziario, alimentare la loro alleanza storica con i padroni attraverso i finanziamenti pubblici alle imprese, e il gonfiamento dei prezzi degli appalti in Italia e all’estero negando però ogni integrazione tra industria e finanza (da sempre obiettivo degli industriali) per mantenere nelle mani dell’apparato politico il controllo delle banche e del credito.
La brusca gerarchizzazione imposta dalle dinamiche internazionali dell’economia e del comando, ha fatto saltare questo patto consociativo sul piano economico e politico.
L’iniziativa dei magistrati milanesi è partita così parallelamente alla campagna per le riforme istituzionali e la privatizzazione dell’economia. Lo scenario sembrava abbastanza definito: il settore più internazionalizzato ed integrato del capitalismo apriva in grande stile la resa dei conti contro il settore clientelare, parassitario più integrato con il vecchio apparato politico.
Il primo a cadere sotto i colpi è stato l’anello più debole cioè il PSI di Craxi, forte di una rendita di posizione adeguata al vecchio equilibrio ma debolissima nel nuovo quadro emergente. Il partito che più degli altri aveva cercato di rappresentare i “rampanti” cresciuti sulla rendita parassitaria e l’affarismo, non era mai stato amato dagli industriali. Se negli anni 80 erano stati gli “anni del garofano”, negli anni
90 erano in molti a volerne spazzare via gli ingombranti petali.
Sembrava tutto lineare: Craxi doveva uscire di scena, Martelli e un impresentabile gruppo di rinnovatori dovevano guidare il nuovo PSI verso la formazione di un polo riformista insieme al PDS e al PRI, adeguando così il partito al nuovo sistema bipartitista da introdurre in Italia con le riforme istituzionali.
La convergenza di questi sviluppi con gli interessi degli imprenditori era abbastanza evidente. poi cade sotto i colpi delle inchieste un settore rilevante della Democrazia Cristiana legato ai grandi e piccoli boiardi dell’economia pubblica/privata italiana.
Per l’uomo simbolo della Confindustria nel mondo politico, Mario Segni, la strada appare ormai tutta in discesa. La vecchia DC all’angoletto e i “popolar/riformisti” di Segni pronti a sostituirla come interlocutori privilegiati del capitalismo “puro”.
I “rinnovatori” come Martelli, La Malfa, Occhetto gridano vittoria e impugnano le riforme istituzionali come una clava contro il vecchio sistema politico, ma qualche settimana dopo, il golem dell’inchiesta su Tangentopoli toglie anche a loro il sorriso e l’ipocrisia dalla faccia.
Gli imprenditori entrano direttamente in campo sul piano politico: sostengono il governo Amato che sta lavorando per realizzare i loro interessi (privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, blocco dei salari, ecc.); spingono per accelerare le riforme istituzionali; vogliono chiudere al più presto la partita contro gli apparati clientelari dell’economia e della politica. Gli uffici giudiziari di mezza Italia regalano ad Abete e alla Confindustria momenti di inusuale euforia e precipitosa arroganza.
Ma il Golem di Tangentopoli si sottrae alle indicazioni originarie e colpisce duro il gotha del mondo imprenditoriale e finanziario: dirigenti FIAT come Mattioli, Mosconi, Cozza, imprenditori come Pesenti e Garofano finiscono nella rete come il più sfortunato Ligresti. Il tempio del potere finanziario, MedioBanca, è circondato da soci illustri ma inquisiti. L’incanto è finito. “Tra industriali e giudici è guerra” commenta il settimanale finanziario “II Mondo”.
Nel frattempo la frattura tra la piccola imprenditoria del profondo Nord e la Confindustria si è andato allargando. Gli industriali non hanno simpatia per le Leghe ma sottovalutano la rabbia degli “esclusi” dal grande bottino degli anni `80 e che dentro la recessione economica rischiano di pagare prezzi pesantissimi.
È sfuggito a molti ma il tentativo del Comitato piccola industria della Confindustria di annettersi la CONFAPI (confederazione dei piccoli industriali) è fallito rilanciando una divaricazione su cui la Lega si sta imponendo come egemone. Lo Stato centralista privilegia i grandi e medi gruppi industriali, mentre uno Stato fondato sulle regioni sarebbe costretto a maggiore attenzione per il tessuto industriale locale. Su queste argomentazioni la Lega guadagna terreno al proprio progetto.
A questa ricostruzione un po’ schematica dello scenario di Tangentopoli, occorre affiancare l’altra questione strategica in gioco: le privatizzazioni.
La messa in vendita delle aziende pubbliche più redditizie (ENEL, AGIP, SNAM, STET) fa gola a molti, ma gli imprenditori puntano soprattutto alle banche e alle società di assicurazioni pubbliche (Credit, Comit, INA, Assitalia) perché consentirebbe di spezzare quella separazione tra industria e finanza su cui si è retto il potere democristiano (e in parte del PSI) verso gli industriali.
Da un lato sembrano i gruppi stranieri quelli in grado di rilevare quote decisive delle aziende e banche privatizzate; dall’altro lo smantellamento della (manza pubblica agevola le ambizioni dei maggiori gruppi capitalistici ma può anche rafforzare le opzioni disgregatrici del tessuto nazionale.
Quanto coincidono allora certi processi di delegittimazione del vecchio sistema di potere con le ipotesi di divisione del paese?
E quanto condizionano questo scenario poteri ed istanze sovranazionali?
Se all’inizio dell’affare Tangentopoli la polarizzazione appariva definita (il capitale più internazionalizzato contro quello clientelare e parassitario), lo scenario sembrerebbe indicare l’esistenza di un “terzo polo nel conflitto.
Seguendo una schematizzazione estremamente approssimativa, potremmo indicare questi tre poli e le conseguenti opzioni:
Un polo fortemente “europeista” che punta all’integrazione economica tout court con il resto dell’Europa.
Se ormai esistono l’Europa di serie A e di serie B che procedono a due velocità, perché non dovrebbe esistere una Italia divisa che procede a velocità diverse?
Un polo conservatore legato all’economia clientelare e mafiosa. Per costoro la rendita reale dell’Italia è stata quella di essere un paese di frontiera all’epoca della guerra fredda. Ma questa rendita è tuttora appetibile per il ruolo dell’Italia nel Fianco Sud della NATO e per gli interessi strategici degli Stati Uniti. Ha vissuto di rendita in funzione anticomunista per mezzo secolo, vorrebbe continuare a farlo in funzione antiaraba e anti-islamica.
Un terzo polo è quello che ha più interesse a mantenere sostanzialmente integro il tessuto nazionale e contrasta ogni avventurismo economico, politico ed internazionale.
Agnelli ha investito nel meridione e vuole stabilità. Molti altri industriali hanno seguito questa emigrazione produttiva. La Confindustria ha bisogno di un “sistema paese” efficiente ed integro per sostenere la competizione internazionale con le “spalle coperte” da uno stato funzionale ai suoi obiettivi.
Il Golem di Tangentopoli ha dunque portato alla luce la durezza dello scontro di potere in Italia, uno scontro destinato a modificare la mappa del potere economico e politico nel paese.
Ma questo scontro in cui sono state utilizzate inchieste giudiziarie e riforme istituzionali da parte di un settore contro l’altro, si è rivelato troppo avventuristico nella sua conduzione. Il terzo polo appare quello più deciso ad imporre nuovamente la mediazione come sistema di relazioni piuttosto che lo scontro.
Le riforme istituzionali e le privatizzazioni condotte con maggiore attenzione ad una ripartizione non squilibrata dei poteri appaiono il terreno di questa mediazione. È per questa ragione che tutti i contendenti voteranno SI al referendum del 18 Aprile. Sarà allora che il Golem, creatura di sabbia si sgretolerà.
CREDITS
Immagine in evidenza: statue of clay golem depicting Prague Golem. (Photo taken in the Czech Republic).
Autore: Michal Maňas, 24 novembre 2007
Licenza: Creative Commons Attribution 4.0 International
Immagine originale ridimensionata e modificata