in Questione settentrionale, questione meridionale. Il prodotto di un modello distorto
All’appuntamento dello scorso luglio ci aveva condotto una domanda: perché il Covid-19 si è diffuso prima e per lo più al Nord per dilagare successivamente al Sud, quali sono le origini della situazione sulla quale il virus si è abbattuto facendo esplodere le contraddizioni con una forza devastatrice, sia in termini di vite umane che di costi sociali?
Gli aspetti più evidenti sono certamente l’alta urbanizzazione del Nord e la necessità di concentrare un gran numero di esseri umani nei luoghi della produzione, spostandoli in mezzi di trasporto sovraffollati, condizioni queste che hanno favorito la diffusione dell’epidemia; presumibilmente, inoltre, i livelli di inquinamento di queste regioni e la conseguente diffusione di malattie polmonari e cardiache hanno rappresentato fattori di indebolimento delle difese naturali contro il virus. Ma se urbanizzazione selvaggia e inquinamento sono da sempre visti come il rovescio della medaglia, il “lato negativo” dello sviluppo, il sistema sociosanitario avrebbe dovuto rappresentare il “lato positivo”, una delle “eccellenze” del Nord che giustificava tutto il resto. Ed ecco che invece la cura dei contagiati è stata ostacolata proprio dal fatto che il servizio sanitario è stato orientato (con tagli e privatizzazioni) alle eccellenze foriere di profitto, piuttosto che alla cura della salute pubblica. Inoltre, le strutture di assistenza agli anziani, delegate ai privati, sono diventate i principali focolai dell’epidemia.
Allargando però il nostro punto di vista, tutti questi fattori che hanno favorito la diffusione dell’epidemia sono a loro volta prodotto della contraddizione Nord/Sud e di quello sviluppo diseguale che ha portato arretratezza nel meridione, ma anche una crescita distorta nel settentrione.
Una crescita che mentre illudeva milioni di persone di vivere in una società avanzata anzi “eccellente”, ha danneggiato l’ambiente, i lavoratori e le lavoratrici e infine le relazioni sociali di quel grande arcipelago metropolitano che è diventata la pianura padana nei decenni dal dopoguerra a oggi, creando le condizioni idonee per l’esplosione di una pandemia che sicuramente è stata imprevista, ma si è sviluppata dentro un contesto di collasso di sistema ampiamente prevedibile.
I 4 mesi di epidemia acuta a inizio del 2020 hanno strappato molti veli e hanno evidenziato tante vulnerabilità di sistema che prima di oggi erano state rimosse o coscientemente occultate. Tra queste vi è anche la “Questione settentrionale” sulla quale è necessario avviare una riflessione. L’espressione “Questione settentrionale” si afferma nel dibattito pubblico a cavallo del secolo, affiancandosi e quasi sostituendosi alla storica discussione sulla problematica nazionale della “Questione meridionale”. L’emergere del tema manifesta la presa di consapevolezza di come le trasformazioni del sistema produttivo del paese e in specie del Nord che erano già iniziate con i primi episodi di crisi di sovrapproduzione capitalistica globale agli inizi degli anni settanta, abbiano cambiato il volto e le relazioni sociali del Settentrione. La ristrutturazione capitalistica che si attua a livello globale in quegli anni, sia in reazione alla crisi ma anche alla necessità da parte del capitale di contrastare il conflitto di classe che in quel momento storico aveva raggiunto le punte più avanzate, conduce nel nostro paese a una diversa strutturazione e dislocazione geografica delle attività produttive. Il progressivo indebolimento del modello della grande industria fordista determina il passaggio dal cosiddetto “Triangolo industriale”, imperniato sulle grandi città del Nordovest, Genova, Torino, Milano, al sistema dei distretti produttivi in cui emerge prepotentemente il ruolo delle piccole e medie imprese concentrate soprattutto nel Nord Est. La necessità per le nuove aree più dinamiche del paese di sostenere la competizione economica globale, agganciandosi ai punti alti dello sviluppo capitalistico europeo, conduce alla definizione appunto di una “questione settentrionale”: si reclama a gran voce l’esigenza di liberare le aree dinamiche del Nord dalle pastoie e dai lacciuoli costituiti dalle rigidità dello Stato nazionale che impedirebbero a queste aree di sviluppare tutte le loro potenzialità per svolgere un ruolo di volano economico e sociale. È importante sottolineare come questa narrazione dominante si sia imposta a tutti gli effetti nel dibattito pubblico, con la complicità dei media e anche del ceto intellettuale. Se infatti la manifestazione più retriva della questione settentrionale è stata senza dubbio incarnata dalla Lega, non sono mancati esponenti politici e intellettuali di “sinistra” che ne hanno sostanzialmente offerto una visione “progressista” e politicamente accettabile anche per l’universo cosiddetto democratico a cominciare dagli articoli di Giorgio Bocca su La Repubblica alla fine degli anni ’70 in cui si esaltava la Padania produttiva coniando un termine, per quei tempi, nuovo, e fino ad arrivare alle affermazioni contemporanee di Cacciari ed altri.
In comune queste visioni hanno il presupposto della centralità delle regioni del nord come motore dell’economia (capitalistica) italiana. Affermano la necessità di assecondare gli spiriti animali dell’imprenditoria del nord, unica soluzione per permettere di mantenere le posizioni del nostro paese nella competizione internazionale e negli equilibri dell’Unione Europea. Nei fatti, entrambe le posizioni cercano di risolvere i problemi creati dal modello produttivo italiano attraverso un’ulteriore accentuazione di quel modello stesso. Di fatto è il ragionamento che è ha portato alle riforme del Titolo V e all’autonomia differenziata supportate in campo politico trasversalmente dalla Lega, dal PD e infine anche dal M5S.
Una visione ideologica quindi che ha messo al centro la necessità per il Nord di sviluppare pienamente il mercato capitalistico anche attraverso il “meno Stato e più mercato” (avviandosi oggi forse a diventare “più Stato per il mercato”), contribuendo così a dare un’ulteriore spallata al sistema del welfare universalistico che era stato il compromesso a cui il capitale era stato costretto nel nostro paese dall’avanzata del conflitto di classe nel secondo dopoguerra.
Occorre invece, dal nostro punto di vista, ribaltare i termini della questione e mostrare come proprio la disastrosa gestione della pandemia abbia dissolto ogni illusione sulle eccellenze; lo sviluppo del Nord non solo è necessariamente connesso allo sfruttamento del Sud del paese, ma oggi rivela la sua natura di modello insostenibile e che produce sfruttamento, disuguaglianza, regressione sociale e civile anche nello stesso Nord. Sta qui, a nostro avviso, la “questione settentrionale”.
Per quanto ci riguarda, da comunisti, il problema è quindi mettere sotto accusa il modello stesso e chi l’ha costruito e per farlo è necessario porre in relazione la questione settentrionale con quella meridionale e l’evoluzione storica del sistema capitalistico nel nostro paese. Questo modello di sviluppo aveva fatto del dualismo nord/sud il suo “punto di forza”: la concentrazione e lo sviluppo nel Nord era in grado di garantire la tenuta sociale complessiva e la posizione dell’Italia all’interno delle potenze capitaliste. Il sud, nonostante le gravi arretratezze riceveva una certa redistribuzione tramite l’intervento dello Stato e il riassorbimento della manodopera in eccesso da parte delle industrie settentrionali. Nel Nord i vantaggi occupazionali, dei servizi, del tenore di vita e di consumo, parevano superare i lati negativi: dall’emigrazione a cui si era costretti, allo sfruttamento del territorio, all’inquinamento e allo sviluppo caotico delle aree metropolitane, urbane e industriali.
La nostra tesi è che sia stato proprio questo modello di sviluppo ad aver creato le condizioni per la diffusione del virus e soprattutto a dare forza distruttiva al Covid in termini di contagi e vite umane.
Questo sviluppo portava infatti con sé gravi deficienze, improntato al profitto immediato e privo della progettualità necessaria a sostenerlo nel tempo. I segnali di cedimento dell’intero modello sono quindi inediti e avranno conseguenze dal Sud a Nord: si rivela come il modello di sviluppo capitalistico italiano sia un modello antisociale per l’intero paese.
Un modello distorto non capitato “per caso”, ma della cui costruzione è stata protagonista la classe dominante, imprenditoriale e finanziaria, che ieri come oggi rimane predatoria e arraffona, priva di quella capacità delle borghesie più avanzate di avere un’idea che vada al di là dei profitti “qui e ora” proponendosi una pianificazione generale anche attraverso la protezione dei settori strategici e l’intervento dello Stato a favore dello sviluppo complessivo, come invece è avvenuto per esempio in Francia e Germania.
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Autore: Valter Milanato. 13 giugno 2018
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