Coordinamento Nazionale Rete dei Comunisti (in Contropiano anno 28 n° 1 – marzo 2019 Metodo. Formazione. Organizzazione)
Come abbiamo affermato nel testo “Approcciando la questione del Metodo” per la RdC si pone direttamente la necessità formativa per tutti i quadri dell’organizzazione al fine di poter procedere verso una omogeneizzazione del metodo a partire da quello dell’analisi della realtà, passando a quello dell’organizzazione fino alla definizione di un metodo sul rapporto di massa.
Va detto subito che non vogliamo fare un ABC metodologico per dire come comportarsi nelle diverse situazioni, in realtà la questione è molto più complessa, pone problemi di lettura del mondo ed evidenzia una nostra ulteriore difficoltà. Infatti i partiti comunisti nella loro storia hanno sempre dato un ruolo centrale alla formazione dei quadri, sia sul piano dei fondamentali della teoria che su quello del metodo ovvero della dialettica.
Per noi questa difficoltà ulteriore consiste nel fatto che non siamo un “partito” verificato nella storia sul suo approccio complessivo, anche se una storia l’abbiamo, e dipende anche dal fatto che il contesto complessivo in cui siamo chiamati ad operare, dai caratteri dell’imperialismo moderno fino a quelli della classe, sono radicalmente diversi dall’esperienza storica del movimento comunista del ‘900.
D’altra parte non possiamo non affrontare questo nodo se non vogliamo che, pur nella condivisione dell’analisi generale e della linea A proposito del Metodo politica, si manifestino divaricazioni e contraddizioni dovuti proprio ad una scarsa omogeneità nell’analizzare e nell’operare nella realtà. Rischio che può frenare la nostra capacità di intervento in un momento storico in cui invece la funzionalità politica è legata anche alla capacità di tenere i ritmi e la velocizzazione che la situazione presenta. Dunque ci si pone, visto che non siamo in possesso di una risposta compiuta, il problema di quale metodo adottare nell’affrontare la questione del metodo.
Partendo dai nostri limiti, oggettivi dati dalla condizione e quelli soggettivi, non possiamo che procedere per tappe di riflessione e per approssimazione sull’obiettivo che ci stiamo ponendo riprendendo l’approccio che abbiamo usato all’inizio degli anni ’90. Concretamente si tratta di avviare una fase di elaborazione ed analisi, che oggi non sappiamo quanto possa essere lunga, in cui cerchiamo di individuare alcuni elementi “certi” da sviluppare nel procedere del lavoro che in parte va fatto direttamente dai compagni della RdC ma che deve saper utilizzare contributi esterni per evitare di cadere in una sorta di solipsismo teorico.
Negli anni ’90 siamo partiti dal testo di Lenin sull’imperialismo nel tentativo di individuare un “bandolo della matassa” che ci mettesse in condizione di tracciare una linea di ricerca e ricostruzione di un punto di vista comunista nel nuovo contesto storico. Oggi per certi versi ed in altro modo si tratta di fare lo stesso percorso su un piano indubbiamente più complesso e che ha bisogno di una sua “logica” per il raggiungimento dell’obiettivo che ci siamo posti. Per questo il testo che presentiamo alla discussione dei nostri militanti ha una forma non definitiva, è costruito per la ricerca e l’approfondimento dei diversi punti che vogliamo affrontare e va visto come uno stimolo a tutto il nostro collettivo per misurarci con una questione che i partiti comunisti hanno affrontato in ben altre condizioni oggettive e con ben altro spessore teorico e culturale.
Bagaglio storico importantissimo questo purtroppo andato disperso nella sconfitta di fine secolo ma che dobbiamo tentare di ricostruire nel tempo e con una pazienza “rivoluzionaria” che non è più parte della cultura dei comunisti “moderni” e tantomeno della cosiddetta sinistra. Dobbiamo misurarci perciò con la costruzione di un pensiero organico sulla questione del metodo che sia allo stesso tempo definizione di parametri unitari, lavoro di formazione e di autoformazione per tutta l’organizzazione ed in tutte le sue articolazioni.
Definire un punto di partenza certo
Per definire un nostro approccio sul terreno scelto non possiamo che prendere le mosse dall’oggettività cioè dai caratteri dell’egemonia dell’avversario di classe che oggi è per noi la borghesia europeista. Su questo abbiamo fatto un lavoro analitico che è partito dagli anni ’90 che ha colto le basi materiali dell’affermazione di quella ideologia in conseguenza della crisi dell’URSS l’allargamento al mercato mondiale ovvero la cosiddetta globalizzazione. Infine, ci siamo misurati anche con l’analisi della crisi incipiente di questa egemonia che sta mostrando dal 2007 le proprie difficoltà in relazione alla crescita insufficiente per la valorizzazione del capitale mondiale. Su questo non ci dilunghiamo e il convegno fatto su il “Vecchio ed il Nuovo” a dicembre del 2016 ha cercato di fare un po’ di luce su questa crisi di egemonia che si intravvede.
La crisi c’è e si manifesta concretamente nella instabilità politicoistituzionale che coinvolge i maggiori capitalismi occidentali, questa comincia a creare una mancanza di fiducia nelle “gloriose” sorti del capitalismo anche se dai settori sociali non viene percepita in questo modo ma solo come crisi politica, di sfiducia nei partiti storici, di distacco dalla narrazione ufficiale che viene fatta sulla condizione, via via più degradante, delle società occidentali.
Non stiamo parlando solo dell’Italia ma anche dell’Unione Europea e degli Stati Uniti di Trump. Ma la percezione critica non arriva a rimettere in discussione i valori di fondo che hanno caratterizzato i capitalismi in questi ultimi decenni e che sono il “cordone ombelicale” ideologico che impedisce di concepire a livello di massa il superamento della società capitalista. Questo è stato l’humus in cui si è affermata una trasformazione profonda della società che ha condizionato, fino a produrre una vera e propria mutazione, anche il modo di pensare dei settori politici ed intellettuali comunisti. Partire dalla condizione ideologica contemporanea ci mette in condizione non di individuare un metodo in astratto ma di collocare questo nel contesto culturale e politico reale in cui viviamo.
La fine della Storia.
Questa teoria emersa a maggior gloria subito dopo la fine dell’URSS e proposta da Francis Fukuyama, “politologo” statunitense della RAND Corp. società in rapporto con il dipartimento della difesa USA, oggi appare in tutta la sua fallacia ma esprime molto bene i caratteri di fondo dell’ideologia borghese dominante. A smentire questa teoria oggi ci sono i fatti, la ripresa della competizione geopolitica tra grandi potenze, il processo di riarmo internazionale e gli innumerevoli episodi di guerra che attraversano quasi tutto il pianeta e che sono la vera Storia contemporanea. Ma dietro quella rappresentazione c’è un contesto che riproduce un modo di pensare che deriva, riflette, direttamente le relazioni sociali nel capitalismo; ovvero la scomparsa della percezione del tempo inteso come passato e come futuro cioè come processo in essere e dunque cambiamento continuo.
In realtà è la logica del profitto e la ipervelocizzazione della circolazione del capitale mondializzato che permea profondamente la società ed il pensiero fino a determinare la vita quotidiana collettiva e di ciascuno, vita che è ritenuta valida solo sulla base del risultato immediato nel lavoro e nei processi produttivi materiali ed immateriali.
Non è certo una novità nel capitalismo ma la pervasività ideologica e culturale che ha raggiunto oggi non è mai stata così intensa ed incontrastata.
Potremmo approfondire questo aspetto ma è già oggetto di analisi sociali molto più approfondite di quanto possiamo fare su queste pagine, quello che qui ci interessa mettere in evidenza è l’effetto politico-culturale che si ha a livello di massa. Infatti la Storia anche quella più recente viene rimossa sia dagli “apparti ideologici dello Stato”, che hanno la funzione di orientare il pensiero sociale, che nella vita quotidiana delle persone.
Apparati ideologici che non si muovono sulla base di “manovre o complotti” ma che sono il veicolo naturale dell’egemonia dominante; per fare un esempio bisogna fare riferimento alle molteplici e graduali riforme della scuola/università dove ad un approccio formativo di tipo universalistico si è sostituita gradualmente la logica della produzione, ovvero formazione individuale in funzione della produzione, produzione che non può che essere del profitto in quanto il soggetto dominante sono le imprese.
L’alternanza scuola lavoro, i tirocini per le università sono la prova più diretta di come le istituzioni più prestigiose dello Stato sono e agiscono appunto come apparati ideologici atti a determinare la coscienza delle masse. Ma anche la pressione quotidiana sulla vita delle persone prodotta dalla precarietà dominante sia nel lavoro che nella dimensione sociale rimuove, distrugge, ogni possibilità di emancipazione dal momento contingente caratterizzato da una condizione sociale sempre più insidiata dal peggioramento e dal degrado che non può permettersi il “lusso” di guardare, avere prospettive, di più lungo periodo.
E’ chiaro che non interessa in tale contesto avere persone che abbiano coscienza della dinamica sociale e storica complessiva ma tutto deve essere subordinato alla logica produttivistica anche quelle istituzioni più importanti per la vita sociale.
Vivere perciò qui ed ora, dimenticare che siamo stati un popolo di emigranti e permettere le campagne stampa della canea razzista, magari con il pretesto di attaccarla, ma farla diventare comunque l’elemento di discussione e formativo di massa. Oppure rimuovere la storia repubblicana eliminando e criminalizzando il conflitto politico e sociale di classe che è stato quello che dal dopoguerra ha promosso l’emancipazione di enormi masse nel nostro paese perché il conflitto è oggi dannoso alla produzione e realizzazione di profitto. Il punto è perciò il “Qui ed Ora” perché tutto il resto, il passato ma anche il futuro, sono elementi che inceppano la produzione materiale della massa dei profitti e quella ideologica necessaria al mantenimento del potere delle classi dominanti.
Tutti contro Tutti.
Se la condizione permanente di vivere il momento è un aspetto che determina un modo di leggere la realtà da parte delle masse anche il prevalere indiscusso dell’individualismo nei valori di riferimento generale ha una funzione fondante nell’ambito delle relazioni sociali capitaliste. Non vogliamo qui cogliere l’aspetto etico della questione che è ben evidente a tutti e che riceve critiche non solo da parte della cultura di sinistra ma anche da parte di quella cattolica; quello che vogliamo mettere in evidenza è la strutturalità di un tale comportamento, le sue basi concrete, per trarne delle conseguenze politiche per il nostro agire.
Se sulla competizione sociale, sul tutti contro tutti, viene fatto un pesante indottrinamento tramite gli strumenti di formazione delle coscienze, a cominciare dagli strumenti di comunicazione di massa, bisogna avere molto chiaro che la base materiale che produce la disponibilità a questo tipo di ideologia sta direttamente nei caratteri della produzione attuale. Il periodo fordista aveva come “sottoprodotto” indesiderato la concentrazione di masse di lavoratori e dunque una possibilità per la ricomposizione sociale, culturale ed infine politica, della classe antagonista alla borghesia. L’attuale produzione flessibile, precaria, decentrata, immateriale nasce negli anni ’80 proprio dalla necessità di impedire e smontare nei paesi imperialisti quella ricomposizione politicamente anticapitalista ed in prospettiva, poi da loro per ora sventata, rivoluzionaria.
La frammentazione sociale avuta a causa di un determinato carattere delle forze produttive non è stato un prodotto neutro dello sviluppo “scientifico” ma è stato profondamente segnato dalla lotta di classe del ‘900.
A questa nuova relazione nei rapporti sociali ha corrisposto l’accettazione di una correlata ideologia dove l’individuo non trova nessun ambito collettivo di riferimento per la propria condizione di classe e fa propria l’ideologia, la filosofia, del suo antagonista. Il massimo del risultato culturale fino ad oggi ottenuto viene prodotto dalla diffusione dalle reti telematiche/social funzionali innanzitutto alla produzione flessibile ed internazionalizzata ma che esaltano l’individualismo delle persone in funzione del consumo di massa. Questa è la vera funzione materiale, utile al profitto, delle reti ma che per riflesso si riversa poi nella dimensione culturale e sociale degli individui provocando comportamenti sociali patologici di cui siamo ben a conoscenza. Questo anche a dimostrazione che la scienza non è neutra ma è il prodotto di una determinata formazione economicosociale, cioè è oggi capitalisticamente determinata. Inoltre questo sviluppo individualista mette in crisi politica l’alleato mondiale del capitale nella lotta al comunismo che è stata per tutto il ‘900 la Chiesa Cattolica accrescendo la laicità ed il materialismo “rozzo” dell’attuale società allontanandola dalla narrazione chiesastica.
Ancora una volta quello che ci interessa mettere in evidenza è la relazione tra i dati strutturali dello sviluppo capitalista, le sue relazioni sociali ed i riflessi ideologici che questo produce nella testa delle persone e come questa ideologia, visione del mondo, agisce politicamente, si riproduce e si afferma nella società. Oggi questo lo possiamo verificare con l’estrema fluidità delle opinioni politiche, con la continua modifica culturale condizionata dai processi generali e, conseguentemente, con una instabilità politico-istituzionale, non solo italiana, che apparentemente rende la società politicamente incontrollabile ma che in realtà viene molto condizionata e orientata sul piano economico e produttivo, che è il vero “trait d’union” dell’egemonia capitalista.
Questa è la crisi dei partiti che viene sbandierata dall’intellighenzia borghese e che per noi invece ripropone per intero il nodo strategico della soggettività organizzata e delle sue forme nel contesto sopra descritto.
Più Mercato e meno Stato.
Questa è stata l’operazione ideologica riuscita meglio e più in profondità in quanto pianificata a livello internazionale ed in collaborazione con le forze politiche e di governo borghesi resisi responsabili del degrado generalizzato dello Stato Sociale costruito nel dopoguerra. L’operazione parte dalla Thatcher in Inghilterra, passa per Reagan negli USA e, dopo la fine dell’URSS, assume la dimensione globale attuale. Grandi analisi su questo aspetto non sono necessarie in quanto questa visione politica ed economica ha contagiato in occidente tutta la sinistra inclusa quella ex comunista, anche se va detto che in Francia e Germania, il nucleo duro attuale della UE, l’effetto è stato parziale mentre in Italia le scelte fatte soprattutto dai governi di centrosinistra, a cominciare da Prodi, sono state molto più filo anglosassoni.
L’effetto avuto tra i settori sociali subalterni è stato politicamente devastante in quanto la critica masochistica al “pubblico” è stata fatta propria da questi, è ancora sistematica ed ha incrinato la credibilità dello Stato Sociale anche nel nostro paese in modo forte limitando una possibile spinta alla lotta per i diritti sociali e per il mantenimento delle tutele generali.
Certamente oggi gli effetti devastanti delle privatizzazioni si fanno vedere sia in termini di efficienza e degrado dei servizi pubblici, che in termini di costi dei servizi privati ed infine anche con il moltiplicarsi della corruzione prodotta dagli appalti generalizzati e da interessi privati legati ai diversi rappresentanti eletti in tutte le forze politiche attuali.
Un altro effetto di questo pluridecennale processo tenuto ben nascosto è stato la rivalutazione dello Stato ma non di quello Sociale ma di quello a sostegno delle banche resosi evidente con la crisi del 2007 che ha dimostrato, alla faccia di tutti gli innovatori della sinistra ex comunista, che lo Stato è tornato ad essere il comitato di affari della borghesia ben individuato da Lenin all’inizio del ’900.
Oggi questo ha per noi la dimensione della UE con i suoi apparati burocratici che determinano le politiche dei singoli Stati indipendentemente dai parlamenti nazionali e da quello di Bruxelles e direttamente in rapporto con le lobby finanziarie e con le multinazionali europee.
Effetti politici a sinistra
Nel tentare di valutare correttamente tale questione non possiamo che partire dai caratteri della presente formazione economicosociale, questa infatti si può definire cosi perché ha una sua organicità tra i presupposti materiali, la produzione, le classi sociali, lo Stato, ed i suoi effetti ideologici sul modo di pensare che si determina nella mente delle persone. A questo va aggiunto che probabilmente mai come oggi questa ideologia è stata più pervasiva, mai come oggi l’assetto sociale è stato considerato naturale, immodificabile. Ciò è indubbiamente vero per i paesi imperialisti mentre nel resto del mondo le contraddizioni spingono verso altre concezioni e prospettive.
Rompere una simile gabbia, nel senso di poter concepire una prospettiva alternativa, non è facile e significa individuare le contraddizioni materiali su cui operare e costruire una soggettività forte, non formalmente radicale ma che divenga forte nel misurarsi con la realtà, che sappia esprimere antagonismo al sistema attuale ed una indipendenza politica e culturale a tutto tondo. Altrimenti l’essere recuperati, riciclati o repressi ed eliminati, sono solo tappe di un percorso già scontato e visto moltissime volte nel nostro ridotto nazionale. Questa prospettiva di rottura è esattamente l’opposto del percorso fatto dalla sinistra in genere e, aggiungiamo, anche dalla maggior parte dei comunisti nel nostro paese che con il PRC ha segnato la storia dei comunisti nella seconda repubblica riuscendo pure a raggiungere con la segreteria bertinottiana soglie di rappresentanza istituzionale non indifferenti ed in controtendenza ad altri partiti europei.
Per entrare nel merito delle scelte e mantenendo i soli tre punti di riferimento sopra descritti possiamo vedere come in realtà l’antagonismo dichiarato nascondeva una subalternità che probabilmente per una parte del gruppo dirigente era chiara oltre che considerata inevitabile ma che vedeva l’incapacità di lettura dei militanti che potremmo definire “in buona fede”. Innanzitutto l’eterno presente che si è vissuto senza mai porsi il problema delle prospettive ovvero della strategia e dei tempi da adottare in funzione di quella. Si è parlato della “rifondazione” di un pensiero, e si presuppone di una teoria, comunista ma in realtà il piano teorico è stato utilizzato solo per strumentalizzare o aggregare intellettuali più o meno alla moda oppure per sostenere con una retorica radicale le continue svolte a destra che sono state fatte nell’arco di venti anni circa. Il corollario di una scelta di questo tipo è stata l’assoluta prevalenza data ai passaggi elettorali che sono divenuti “l’alfa e l’omega” di una organizzazione che continuava a chiamarsi comunista.
Altra cartina tornasole di questo stato delle cose è stata la vicenda sindacale che ha visto la totale subalternità alla CGIL come estensione prima del PDS, poi dei DS ed infine del PD. Storicamente i partiti comunisti si sono sempre dati strategicamente una linea di intervento sindacale visto che si sono sempre candidati ad essere rappresentanza politica del mondo del lavoro, su questo invece c’è stata la massima improvvisazione e approssimazione.
Talvolta, infatti, si è dato peso anche a movimenti di lavoratori indipendenti o extraconfederali ma rapportandosi sempre con un carattere strumentale e solo a fini elettorali. Ma non c’è stato solo questo, infatti che ancora oggi si cerchi di stare con un piede in più staffe dimostra la miopia teorica di una cultura politica abbarbicata alle proprie concezioni e non comunicante con la società reale. Ovviamente tutto ciò ci rimanda alla mancata rifondazione di un pensiero forte e non subalterno che sia in grado di proiettarsi nel tempo con una strategia di collegamento con la classe che non sia meramente il prodotto della condizione contingente.
La sconfitta negli anni ’90 c’è stata, la classe lavoratrice ed i settori popolari sono stati disgregati materialmente e culturalmente, il tutti contro tutti, si sono modificati radicalmente i rapporti di forza avuti precedentemente nella società e a sinistra questo è stato paradossalmente recepito quasi come una opportunità positiva per rilanciare il conflitto. Questa valutazione non dichiarata e per certi versi anche inconscia è alla radice della cultura “basista” dilagata dagli anni ’90 sia sul piano sociale che sindacale che politico.
Una contraddizione grande come una casa non veniva vista perché gli occhiali ideologici della rimozione subalterna della reale storia del movimento comunista trasmettevano immagini false. Infatti bisognerebbe oggi spiegare perché di fronte ad una sconfitta storica non solo dei comunisti ma della classe in generale si sarebbe potuto rilanciare il conflitto e l’organizzazione in assenza di una ipotesi politica alternativa e credibile.
Anche qui bisogna riandare al “Che Fare” di Lenin dove descriveva lucidamente il carattere tradunionista del conflitto sociale il quale è una condizione ineludibile nello scontro tra le classi ma da solo può fare battaglie condannate o a rifluire o ad essere riassorbite dall’ideologia dominate. Certamente questo può essere in determinate condizioni una punta avanzata ma alla modifica delle condizioni generali, e avendo ben presente l’interazione incessante tra il generale ed il particolare, non può che rifluire nella sua dimensione contrattualista trascinando con se, come poi è accaduto da noi nell’ultimo quindicennio, le soggettività politiche che hanno fatto del basismo teorico l’avanguardia del conflitto. Do you remember i centri sociali? Anche la visione a sinistra del ruolo dello Stato è stata sostanzialmente subalterna alla logica delle privatizzazioni, infatti di fronte a dichiarazioni o battaglie fatte contro le privatizzazioni, non bisogna scordarsi la furia privatizzatrice del centrosinistra sostenuto dal PRC ma anche dal variegato associazionismo, in realtà ci si è adeguati accettando la logica “democratica” del No Profit e delle ONG cercando di raccogliere i frutti materiali che ne derivavano.
Associazioni, cooperative, centri sociali ed altro ancora sono diventate delle opportunità da cogliere per sentirsi socialmente attivi ma anche per trarre profitto o un minimo di reddito da questo ulteriore arretramento ideologico. Questa dimensione, sociale ed economica allo stesso tempo, è oggi cresciuta molto dentro le politiche pubbliche di esternalizzazione e privatizzazione, tanto da essere coinvolta in vari episodi corruttivi e di aver prodotto una ulteriore evoluzione ideologica esaltando il volontariato e rimuovendo quella che è stata l’importanza della militanza politica ovvero del vero strumento che ha prodotto l’emancipazione delle classi lavoratrici e popolari.
E noi?
E’ necessario farci questa domanda in quanto se è vero che strategicamente e politicamente abbiamo sempre perseguito la linea dell’indipendenza politica netta avendo chiaro l’errore di rompere nelle nostre concezioni con il movimento comunista storico è anche vero che non siamo mai stati ideologici ed abbiamo sempre fatto i conti con la realtà politica e sociale. Se questo è stato ed è per noi un valore fondante non possiamo nasconderci che nella relazione, sempre dialettica, con la realtà siamo noi stessi condizionati e modificati più che nei ragionamenti formali nelle convinzioni più profonde, spesso non razionalizzate ed espresse, introiettando giudizi e valutazioni anche in modo acritico da una mondo che di neutrale non ha nulla.
Siamo, dunque, chiamati a ragionare su noi stessi proprio perché non stiamo parlando di linea politica, omogenea in modo verificato nel tempo, ma di metodo e di gestione cosa che abbiamo spesso lasciato al “buon senso” dei militanti ma che ora nella complessità della situazione obiettiva e dei nostri campi di intervento potrebbe ingenerare problemi. Non siamo una monade che vive nel mondo delle idee di Platone ma siamo con i piedi ben piantati sulla terra e non possiamo pensare di non essere condizionati nell’agire pratico pensando ad una nostra immutabilità, verginità, nel pensiero e nell’azione. Andare a fondo sulla questione del metodo, che ripetiamo non essere la definizione di un ABC delle cose pratiche da fare, significa scavare in convincimenti radicati nel tempo che però ora devono essere verificati e fare i conti con il cambiamento di condizione materiale.
Cambiamento che nasce da una modifica generale sia nella dimensione europea che internazionale e che a sua volta è prodotto da un passaggio storico che stiamo cercando di analizzare ed interpretare da più anni. Per non rimanere nel generico ed entrare nella concretezza dei nostri problemi è bene fare degli esempi dei nostri limiti e difficoltà.
Un primo problema da evidenziare è quello che riguarda il “tempo” ovvero spesso il nostro modo di pensare è concentrato su momenti specifici, sul “qui ed ora”, dalle assemblee alle manifestazioni ed altro ancora, ma non è collocato dentro la visione di un arco di tempo programmato, dentro un processo orientato che abbia come obiettivo politico la questione della sedimentazione delle forze. Questo è l’obiettivo principale in una condizione di sostanziale stagnazione, abbiamo detto di equilibrio delle forze, anche se di estrema velocizzazione nelle forme in cui si esprimono le contraddizioni.
Certamente un tale atteggiamento parziale rispetto agli interventi di massa politici e sociali nasce non da una scelta ma dalle condizioni materiali, ed è proprio su questo che dobbiamo andare a fondo. Una simile constatazione veritiera, infatti, fa emergere da una parte il nostro condizionamento dal reale e dunque una subordinazione alle condizioni date, ma una subordinazione che può essere per noi solo il dato di partenza e che nel momento in cui, con la nostra soggettività, non operiamo una forzatura con un approccio progettuale di fatto l’accettiamo. D’altra parte la forzatura soggettiva è quella che fa avanzare i processi partendo sempre ed inevitabilmente da una situazione data ma comunque non immutabile.
Questo problema lo possiamo riscontrare non solo a livello di intervento di massa ma anche rispetto alla stessa RdC. E’ un nodo che stiamo mettendo in evidenza da tempo ma spesso si continua a vedere la RdC come elemento di supporto agli altri interventi cosa che implica una sottovalutazione dell’importanza della strategia. Questa modalità più volte evidenziata oggi ha una effetto ancora più problematico se andiamo a vedere la condizione reale nostra, non stiamo parlando di linea o condizione politica ma stiamo parlando, per essere concreti, di una organizzazione che va avanti da circa quarant’anni. Al punto in cui siamo giunti, non si può non porre il problema della continuità ovvero della progettualità relativa alla stessa organizzazione politica. Stiamo parlando di tutti i nostri militanti, da quelli di più lunga pezza a quelli più recenti, rispetto ai quali dobbiamo ricollocare ruoli e funzioni. Alla luce di questa necessità ormai evidente, se non altro per i risultati positivi raggiunti, diviene chiaro che la questione “tempo” è anche un nostro problema; non concepire un processo di adeguamento, con modi e tempi definiti, non individuare la dinamica in cui noi siamo collocati e non oggettivarla ai nostri stessi occhi può significare avere brutte sorprese da una realtà in estremo movimento che rischiamo di rimuovere nella nostra coscienza.
Un ultimo esempio da fare, anche se potremmo continuare su altri aspetti, è quello della tendenza a “specializzarsi” negli specifici di intervento, sia settoriali che locali, in questi anni ci siamo dati una strategia che sembra abbia funzionato e cioè quella dei tre fronti che ci ha permesso di affrontare anni difficili con un riferimento analitico e teorico che ad oggi si è dimostrato valido. Va detto anche che è stato possibile definire quella strategia in quanto abbiamo assunto negli anni ’90 un approccio realistico che ha fatto i conti, ancor prima che con la nostra identità e storia, con una modifica della situazione caratterizzata da una discontinuità radicale, molto simile a quella che ci troviamo oggi sul piano politico a livello internazionale da Salvini fino a Trump.
Questa strategia, proprio perché partiva da una constatazione della realtà, ha generato un sottoprodotto involontario che per tutto un periodo è stato in realtà il prodotto principale della nostra attività complessiva. Stiamo parlando della specializzazione nei vari interventi che ha generato spesso contraddizioni ed incomprensioni pericolose per la continuità della stessa organizzazione. Il processo di politicizzazione in atto oggi ci fa vedere chiaramente questo “sottoprodotto” anche se come un rischio da gestire e non eliminabile in via volontaristica, ma questa evidenza ci deve obbligare a modificare i nostri parametri di giudizio perché l’accettazione implicita, naturale, della specificità è una modalità di introiezione della frammentazione ovvero della forma ideologica che l’avversario propone. Ciò pone un ulteriore problema nel momento in cui la politicizzazione invece spinge verso un processo di ricomposizione dei tre fronti.
Sono questi alcuni motivi concreti per cui siamo chiamati ad affrontare la questione del metodo sapendo che l’humus politico culturale in cui siamo immersi non aiuta il nostro progetto ed un pensiero comunista.
L’ANALISI E’ DINAMICA
Come già detto il recupero di categorie di analisi teorica del marxismo, del leninismo e del movimento comunista negli anni passati ci hanno permesso di anticipare gli sviluppi della situazione sia a livello internazionale che nazionale, qui però non vogliamo parlare di questo tipo di analisi oggettiva anche perché questa ricerca non è mai stata interrotta ed è un’analisi che appartiene al “collettivo” e non certo a capacità di singoli individui per quanto questi possano essere “bravi”. In realtà nella storia il ruolo individuale dei dirigenti politici ha pesato e non poco ma anche in quei casi determinante è stata la condizione storica e le potenzialità che questa aveva in se, infatti i dirigenti del movimento operaio più capaci hanno avuto la possibilità di esprimersi e di lasciare il proprio segno nel tempo perché c’erano quelle potenzialità e da loro erano state colte. Detto in parole più semplici in questa epoca di regressione sociale e culturale, oltre che politica, e di egemonia del capitale è difficile che possano sorgere dei Lenin o dei Mao in quanto sono le attuali condizioni generali che rendono improbabile l’affermazione di una espressione politica e culturale compiuta, non parziale, di rottura rivoluzionaria.
Il punto che qui va evidenziato è, invece, quello relativo al metodo ed agli strumenti da utilizzare nell’azione quotidiana anche dei singoli militanti, cioè di dotarci di un approccio in grado di orientare il pensiero e l’azione individuale nel e in dialettica con il collettivo. In questo senso va detto che la realtà che abbiamo obiettivamente di fronte si manifesta e viene da noi percepita sempre come fatto concreto e specifico e mai esplicitamente come parte di un processo più generale; questa è la condizione materiale in cui ci troviamo ad agire e che sta a noi riuscire ad interpretare solo attraverso un processo soggettivo di astrazione dalla concretezza delle forme che ci permetta di riconnettere quello specifico fatto ad altri fatti specifici.
Ciò al fine di individuare un contesto ed una dinamica implicita, possibile, che non si manifesta, non si può mai manifestare, direttamente nella sua organicità e in funzione delle nostre finalità. Questo approccio rimanda alla necessità di recuperare nella nostra ricerca una “teoria della conoscenza” che da tempo è stata rimossa dalla formazione dei militanti politici comunisti, necessità che il testo di Carchedi sul lavoro mentale ci ha messo di nuovo fortemente in evidenza.
In altre parole la capacità da coltivare e sviluppare è quella di avere sistematicamente una visione organica della realtà in cui i singoli fatti vengono collocati dentro un contesto, dal particolare dei fenomeni fino alla dinamica generale dell’attuale forma economico-sociale del capitalismo, ricorrendo alla capacità di analisi ed astrazione che ci permetta di riconnettere cause ed effetti. Infatti la realtà che ci circonda è il prodotto di infinite connessioni e relazioni che si condizionano reciprocamente esprimendo una determinata dinamica come risultante finale. Se non riusciamo ad interpretarla nella sua complessità, quantomeno per approssimazione, saremo ridotti ad essere noi stessi oggetto e mero fatto pratico. Inoltre, poiché abbiamo anche la velleità di modificare la realtà, a partire anche dai suoi aspetti più semplici ed elementari, non è sufficiente fare gli “scienziati” sociali studiandola ma dobbiamo anche capire come inserirci con l’azione nella oggettività per modificarla ed orientarla nel senso da noi voluto e razionalmente scelto, sempre a condizione di saper cogliere le sue potenzialità più intime.
Individuare forme e relazioni del mondo reale è fondamentale ma lo è anche individuare le contraddizioni di fondo che producono il movimento perciò quello che dobbiamo interpretare e capire è il processo e non solo i singoli fatti, da sottolineare ancora il processo e non i singoli fatti, ed anche il fattore tempo strettamente connesso alle modalità di manifestazione delle contraddizioni e dei loro effetti generali.
Anche qui vale ricordare che quando parliamo di contraddizioni e di fattore tempo lo dobbiamo fare tenendo conto sempre anche del ruolo della nostra possibile azione e dunque la sempre presente relazione tra oggettività e soggettività la quale diviene, nella sua concretizzazione, anch’essa oggettiva.
Poiché dobbiamo formare i nostri quadri e militanti che vivono il contesto attuale è bene fare esempi che hanno a che fare con le nostre scelte ricostruendo il percorso politico e logico che ci ha portato a quelle. Si deve tentare di sollecitare, produrre, la percezione concreta che ognuno di noi ha per capire il merito delle questioni che si pongono in quanto la sola “informazione” sugli eventi non permette un effettivo passaggio formativo. Ricostruiamo cosi tre momenti della nostra attività teorica e politica degli anni passati, quella fatta attorno alla questione del Partito/Organizzazione, quella sul sindacato, la teorizzazione e la pratica sui tre fronti cercando di trasmettere un metodo di analisi quale condizione preliminare all’azione.
PARTITO E ORGANIZZAZIONE, LA RdC
Sebbene abbiamo ancora una dimensione ridotta rispetto alla nostra proposta strategica possiamo affermare con certezza che negli anni abbiamo costruito una struttura articolata che a tutt’oggi ha dimostrato capacità di resistere nel tempo ed anche di crescere. Questo è stato il frutto della concretezza del nostro lavoro di classe generato dal conflitto politico e sociale che abbiamo sostenuto fin dagli anni ’70. Va detto, però, che questi risultati sono stati ottenuti in un contesto, appunto quello degli anni ’70 ed ’80, “ricco” quantitativamente e qualitativamente dal punto di vista del movimento comunista che produceva spontaneamente una molteplicità di espressioni politiche e sociali, anche se queste poi non sono state capaci di pervenire ad una sintesi generale e non sono riuscite ad affermare una strategia politica efficace lasciando al PCI l’egemonia nella classe ed a sinistra.
Su questa condizione prodotta dalla inefficacia della sinistra rivoluzionaria abbiamo orientato il nostro lavoro di massa sviluppando l’intervento tramite il sindacalismo indipendente ed il conflitto sociale dandoci una identità direttamente comunista ed antimperialista facendo riferimento al movimento comunista internazionale, alla pensata “inevitabilità” della rivoluzione, ai movimenti di liberazione che si andavano affermando nel mondo.
Su questo rimandiamo al testo “Una storia anomala, dall’Organizzazione Proletaria Romana alla Rete dei Comunisti” da utilizzare nella presente formazione in particolare nel suo primo capitolo in cui si analizza la condizione storica complessiva del tempo.
La crisi del campo socialista creato attorno all’URSS a cavallo degli anni ’90 e quella dei Partiti Comunisti occidentali, incluso il PCI nonostante che questo con la segreteria Berlinguer avesse preso da tempo le distanze (la cosiddetta fine della spinta propulsiva della rivoluzione bolscevica) da quelle esperienze, ha rimesso in discussione tutta la nostra impostazione nell’agire politico e nei caratteri stessi dell’organizzazione. Ci siamo trovati in quel periodo con un “capitale” politicoorganizzativo significativo trasportato dalla fase precedente ma che non aveva più capacità di traino sul progetto complessivo nella nuova condizione.
Situazione questa aggravata dalla nascita della Rifondazione Comunista che con il suo bagaglio di ambiguità e contraddizioni impedì una vera riflessione su quello che stava accadendo svolgendo così un ruolo di tappo politico anche nei nostri confronti che pure ci eravamo coscientemente chiamati fuori da quella esperienza.
Tale passaggio generale non ha significato la fine del conflitto di classe in senso stretto, infatti in quegli anni si riuscì a sviluppare ulteriormente la nostra dimensione sindacale ed a livello generale si sviluppò il movimento dei centri sociali e quelle esperienze che poi sfociarono nei Social Forum con l’esperienza al G7 di Genova del 2001 anche in una dimensione internazionale, da Seattle negli USA nel ’99 fino a Porto Alegre in Brasile. Questa nuova situazione ci portò correttamente alla conclusione che in quella fase il conflitto sociale fosse più avanzato di quello politico, questo peraltro segnato dal PRC bertinottiano, ma l’espressione politica e strategica fu penalizzata fino a mettere in secondo piano la finalità rivoluzionaria dell’azione dei comunisti.
Il punto metodologico che va oggi evidenziato è che in quelle evoluzioni si manifestava un limite teorico del movimento comunista che non era stato capace di sostenere l’offensiva borghese degli anni ’80 e che aveva portato non solo alla crisi materiale ma anche alla crisi di una teoria della trasformazione sociale che era stata sempre presente nel pensiero rivoluzionario. Per una organizzazione limitata, teoricamente e praticamente, come la nostra la scelta più diretta e semplice, ma anche la più sbagliata, sarebbe stata quella di ritirarsi nel nostro ridotto sociale e vertenziale e da li pensare di resistere all’ondata controrivoluzionaria politica e culturale che si manifestava a livello mondiale. Non abbiamo fatto questa scelta perché sapevamo benissimo che quella sarebbe stata una strada senza ritorno e saremmo inevitabilmente ricaduti nell’orbita del PRC, perché era quella la scelta che al tempo ci si poneva concretamente di fronte, che avrebbe “macinato” la nostra pur positiva esperienza. La coscienza della nostra difficile condizione ci ha spinto certamente a continuare nel conflitto di classe salvaguardando e facendo crescere la dimensione organizzata ma la scelta principale, strategica e decisiva, è stata quella di tentare di recuperare una dimensione teorica adeguata che era la sola che poteva permettere di recuperare una nostra funzione politica nel conflitto di classe che si andava prefigurando nel nuovo contesto internazionale.
Per questo abbiamo avviato un nuovo percorso teorico che, analizzando le nuove contraddizioni del capitale nella fase post sovietica, ha messo al centro una riflessione teorica e storica sui partiti comunisti e sulla funzione di questi nelle nuove difficilissime condizioni. Anche qui rinviamo ad un testo del 2011 in cui abbiamo cercato di fare una sintesi del lavoro di ricerca fatto negli anni precedenti titolato “Organizzazione e Partito, una base di discussione per i comunisti nell’Italia del XXI° secolo”. In questo testo si mettono in relazione le potenzialità di crescita del modo di produzione capitalista fin dalla sua affermazione, gli effetti sulla composizione di classe e le esperienze delle organizzazioni operaie e le evoluzioni, nel pensiero e nelle forme d’organizzazione, dei partiti comunisti in relazione ai processi innestati dal capitale a livello mondiale. Questo fino ai problemi che ci si pongono oggi come organizzazione comunista e rispetto alle prospettive della crisi sistemica attuale.
IL SINDACATO TRA PRATICA E TEORIA
Il conflitto di classe, sia nelle forme più spontanee che in quelle strutturate in sindacato, nasce, è prodotto “endemicamente” dalle contraddizioni che genera il modo di produzione capitalista. Assume forme specifiche, vertenziali che in determinate condizioni possono assumere una valenza che va oltre gli specifici delle lotte e dunque causano un processo di generalizzazione che inevitabilmente impatta sulla sfera pubblica e politica.
Quando parliamo di politicizzazione non ne intendiamo una necessariamente di carattere “rivoluzionario” o di rottura in quanto la relazione della sfera sindacale con quella della politica ha un segno che può essere anche subalterno alle classi dominanti, vedi la CISL e la UIL nel nostro paese negli anni ’50 e ’60 a cui oggi si aggiunge anche la CGIL, oppure addirittura organico allo sviluppo delle imprese capitaliste. La storia del sindacalismo americano, ad esempio, da questo punto di vista è significativa in quanto strutture nate a difesa dei lavoratori sono state poi sussunte addirittura dal sistema mafioso. Per stare più vicini a noi in Italia basta guardare alcune strutture della logistica dove la forza lavoro è soprattutto immigrata, e fortemente ricattabile, in cui si stanno riproponendo meccanismi molto simili al modello americano di connivenza tra rappresentanti sindacali ed aziende per gestire la forza lavoro.
Dunque la politicizzazione può essere una evoluzione della dimensione sindacale organizzata che può avere un segno di classe e rivoluzionario ma che può essere anche riformista o corporativa con un segno addirittura reazionario.
Se è questa la condizione del mondo del lavoro è evidente che il punto centrale su cui elaborare e lavorare è sul tipo di rapporto che deve esistere tra una forza comunista e la dimensione sindacale e tra questo rapporto e la condizione politica e storica contingente. Ovvero come finalizzare il conflitto ad una prospettiva di cambiamento sociale dove la condizione di classe non si presenta mai omogenea e dunque i processi di ricomposizione sociale, organizzata ed infine politica devono avere come obiettivo l’unità più forte possibile tra i “reparti” avanzati della classe, operaia o lavoratrice a seconda del periodo storico, con quelli medi ed arretrati. Su questo aspetto bisogna rinviare al documento della RdC fatto per l’Assemblea Nazionale della RdC del 2002 in cui è stato fatto un tentativo di teorizzazione anche sui passaggi storici del movimento sindacale con un allegato specifico che ora fa parte anche della presente formazione.
L’approccio contenuto in quell’allegato è oggi ancor più attuale in quanto la frammentazione della produzione e della classe lavoratrice, la diversificazione delle condizioni sociali, la pressione ideologica prodotta dall’egemonia dell’avversario di classe rende ancora più evidente il ruolo centrale della soggettività progettuale in quanto questa è l’unica che può riportare ad unità, politica ed organizzativa, una classe che vive solo la sua contingenza quotidiana e la sua frammentazione individualistica.
Lenin parlava a ragione della coscienza naturalmente tradunionistica dei lavoratori, Parlare dunque di metodo per una forza comunista, ora e nel passato, significa innanzitutto capire i caratteri e la dimensione dei processi oggettivi determinati dal capitale e poi lavorare per costruire, sedimentare, stabilizzare, quel rapporto che passa tra la soggettività strategica, i settori di avanguardia che nel tempo vengono determinati dalle contraddizioni agenti e la massa della classe che è spontaneamente subalterna all’egemonia borghese, appunto tradunionistica.
UNA VERIFICA DIRETTA, LA TEORIA DEI TRE FRONTI
Se sugli altri punti portati ad esempio ci siamo potuti basare su esperienze storiche che ci hanno “mostrato” percorsi interpretabili e verificati che sono stati riferimenti fondamentali per definire un nostro punto di vista complessivo, per il nostro progetto sulla questione dei tre fronti la nostra impostazione ha dovuto, e deve ancora, fare i conti con se stessa in quanto la nostra impostazione è in discontinuità netta con il pensiero e la pratica dei comunisti italiani. Rimane dunque una teoria di fase, dell’attuale fase storica, sulla quale dobbiamo continuare a fare verifiche sistematiche nella realtà sapendo che, in quanto di fase, verrà superata dalle evoluzioni di questa nel tempo.
Non è stata per noi una condizione facile ma certamente non siamo entrati in crisi come le altre organizzazioni comuniste ed in questo senso la questione del metodo adottato nel cambiamento radicale delle condizioni avvenuto negli anni ’90 è stato fondamentale per consolidare le basi della nostra prospettiva. Su questo aspetto del metodo avuto è bene rifare il percorso teorico-politico tenuto proprio per fornire una lettura che sia vicina alla pratica politica quotidiana che adottiamo nel nostro lavoro e all’esperienza diretta dei nostri militanti.
La scelta fatta nasce ed è stata prodotta in un contesto di sconfitta del movimento comunista, non totale ma rilevante per quello che era stato nel ‘900, che all’improvviso ci ha messo di fronte ad una situazione imprevista, impensabile fino a poco tempo prima.
Noi come le altre organizzazioni comuniste pensavamo che il socialismo fosse inevitabile anche se in tempi e modi non definibili, dunque l’impatto fu fortissimo, con ripercussioni diversificate anche a livello personale dei militanti, e ci obbligò ad una scelta nella quale l’alternativa era tra la scomparsa della nostra esperienza che procedeva dagli anni ’70 ed una ridefinizione complessiva della nostra prospettiva obiettivamente difficilissima da individuare in quel contesto di crisi profonda.
Non solo ma ci trovavamo di fronte alla nascita della Rifondazione Comunista nella quale confluirono praticamente la totalità di chi proveniva dal PCI, e non condivideva la scelta occhettiana di chiudere quel partito, e buona parte del movimento extraparlamentare che era stato un po’ l’acqua politica in cui noi avevamo nuotato negli anni precedenti. Dovevamo decidere, insomma, se scioglierci in quella nuova formazione che nasceva sul rifiuto della liquidazione dei comunisti in Italia, dunque su una base positiva di tenuta, oppure se continuare su una strada di indipendenza politica a prima vista obiettivamente del tutto velleitaria.
La scelta fatta è stata quella della indipendenza per una serie di motivi teorici, politici e pratici che in questa sede è superfluo ricordare mentre è necessario ripercorrere le scelte fatte per affrontare quella difficilissima prospettiva.
Se la nostra esperienza degli anni precedenti era stata caratterizzata da un impianto ideologico comunista netto contro il riformismo e da una pratica della lotta di classe radicata ed articolata, dove erano stati ottenuti risultati importanti che ci hanno poi permesso di tenere in quel frangente drammatico, la crisi del movimento comunista richiamava la necessità di reindividuare una teoria, una prospettiva, rimessa in discussione dalla realtà che si stava prefigurando.
Dunque in discontinuità con le scelte fatte fino a quel tempo ci siamo impegnati in un lavoro sulla qualità durato anni di analisi e di costruzione di una ipotesi politica con un processo di astrazione e di ricostruzione storica all’epoca tutto da verificare in un clima politico e sociale completamente nuovo ed incognito per noi.
L’ipotesi di ricostruzione di una organizzazione comunista e di classe nasce in quel contesto dove la riproposizione di un partito comunista cosi come si era prodotto in Italia nei decenni precedenti ci sembrava impraticabile nonostante la nascita e l’affermazione del PRC. Quello che, invece, ci sembrava fosse necessario era la ricostruzione di una organizzazione /partito dentro un contesto molto più complesso ed articolato che non permetteva di riproporsi in modo automatico come sintesi complessiva cosi come lo era stato il PCI in quanto partito di massa, ma per certi versi anche i gruppi alla sua sinistra.
La proposta sui tre fronti nasce da una nostra presa d’atto che la ricostruzione di un partito comunista non poteva che essere il prodotto di un processo in cui agivano le condizioni, gli spazi possibili per una ipotesi rivoluzionaria e, assieme, una soggettività capace di cogliere nel modo corretto quegli spazi. Sul merito di questa elaborazione rinviamo al materiale già prodotto e specificamente al testo sui tre fronti. D’altra parte anche il PCI era arrivato a quel punto di forza negli anni ‘70 dopo molte modifiche politiche e strutturali prodotte dall’avvento del fascismo in poi.
Va detto anche che questa impostazione già era presente nel movimento comunista di quello che era allora definito terzo mondo; le ipotesi di un’articolazione politica ed organizzativa del conflitto politico e di classe e di costruzione di fronti era uno scenario già esistente e che avevamo presente. In particolare evidenza c’era l’esperienza Sudafricana dove il partito comunista, come entità indipendente organizzata, faceva parte dell’ANC quale fronte politico e del COSATU, sindacato all’epoca all’avanguardia del conflitto di classe ed antiapartheid. Ed anche nelle Filippine il partito comunista aveva adottato un simile impianto politico.
Quello che avevano in comune quelle realtà era una condizione sociale dove la classe operaia era minoranza, la classe in generale era disgregata e la piccola borghesia contadina in crisi sociale. Per certi versi era una condizione che si andava profilando, in modalità ovviamente diverse date dallo sviluppo produttivo, anche nel nostro paese con la riduzione del precedente forte nucleo operaio fordista. Contemporaneamente eravamo difronte all’incremento di una piccola borghesia imprenditoriale, ma subalterna al grande capitale, tramite il lavoro autonomo e con la disgregazione prodotta dalla diffusione del precariato e delle condizioni sociali sempre più degradate.
Questo impianto sui tre fronti, quello strategico, politico e più direttamente di classe, è stato il prodotto di una riflessione sulla nuova condizione storica determinatasi che ci ha portato a divaricare dalla cultura prevalente tra i comunisti a cavallo del secolo, sostanzialmente il PRC ma non solo, questo anche in contrapposizione sul piano più direttamente politico e sindacale ma comunque ci ha costretto ad una verifica certosina di tutti i passaggi che venivano fatti in quanto quello che ci stavamo giocando era la credibilità della nostra ipotesi. Questo continuo, e non può che essere cosi, infilarsi nella concretezza terrena ed il risalire nei passaggi al cielo della teoria non è stato fatto senza pagare un prezzo anche sulla tenuta organizzativa ma la nostra impostazione “impopolare” ci ha comunque costretto ad un rigore analitico ed organizzativo che è stato molto utile nella tenuta ed è ancora utile nella fase di possibile rilancio progettuale che stiamo vivendo.
Con l’ipoteca e la coscienza di non avere nessuna garanzia sulla validità di quello che avevamo elaborato abbiamo cominciato ad reimpostare il lavoro complessivo dell’organizzazione cercando di rafforzare la struttura politica e logica della nostra ipotesi.
Ciò sapendo che la verifica avrebbe richiesto tempo, e quello era a disposizione in quanto il momento non era certo rivoluzionario, ed un bagno nella nuova realtà, sia delle dinamiche generali che di quella della classe, che ci permettesse di verificare le nostre idee. A circa un ventennio dalla nostra reimpostazione complessiva ci sembra di poter dire, sempre con la dovuta cautela, che l’orientamento espresso al tempo è stato confermato, certamente ne nei modi ne nei tempi che avevamo ipotizzato e voluto, dagli sviluppi successivi agli anni ’90.
Inoltre l’avvento della crisi sistemica del 2007 ha approfondito e velocizzato le contraddizioni dell’assetto imperialista attuale producendo un effetto “collaterale” nel nostro ridotto nazionale in quanto i tre fronti, che abbiamo gestito fino a ieri in modo “parallelo”, stanno subendo un processo di riavvicinamento che può essere interpretato come possibilità nel tempo di ricostruzione di una sintesi da parte della soggettività da verificare comunque nella nuova condizione.
L’aspetto metodologico che va colto da questo percorso reale, vissuto direttamente e non solo “studiato”, è capire che non c’è un nesso consequenziale diretto, automatico, tra le teorie elaborate e la pratica da tenere in rapporto con il reale; questo, infatti, ci si presenta sempre come fatto esterno, concreto, isolato, a se stante che non ci mostra mai in modo palese le relazioni che esistono tra questo ed il contesto generale. La ricostruzione di queste connessioni è il prodotto solo della nostra capacità di analisi ed astrazione che tende, naturalmente come qualità intrinseca del pensiero umano, a individuare i nessi generali e dunque il contesto e conseguentemente le dinamiche possibili, potenziali, implicite ma non scontate. Nella concretezza delle scelte legate alla costruzione dei tre fronti l’intuizione teorica avuta negli anni ‘90, legata alle analisi fatte sulle caratteristiche del nostro paese, è dovuta passare dentro un percorso pratico che di per se non alludeva spontaneamente a questa prospettiva, anzi spesso si mostrava, come descritto prima, divaricante o sul piano del prevalere degli specifici o dell’accentuazione “dell’autonomia del politico”.
Questo approccio deve però tenere conto che il nostro pensiero, la capacità di astrazione, è prodotta in una società divisa in classi e dunque, se noi vogliamo rappresentare una istanza di classe generale, la ricostruzione dei nessi è legata agli interessi ultimi di questa classe. Per la borghesia è il profitto come fatto oggi immanente ed attuale, per il proletariato è una società di eguali ovvero modificare lo stato di cose presenti come tensione verso il cambiamento.
Siamo chiamati perciò ad una continua verifica delle ipotesi fatte, verifica non solo concettuale ma che viene fatta sulla base della pratica nella realtà oggettiva e che può modificare anche le ipotesi di partenza, come ad esempio sta avvenendo per quanto riguarda il processo generale di politicizzazione delle contraddizioni che sta portando ad un “ riavvicinamento” dei tre fronti.
Questo implica una evoluzione nei diversi passaggi di fase che siamo chiamati ad affrontare che non è solo prettamente politica ma anche materiale, ovvero dobbiamo sapere che tale evoluzione può rimettere in discussione anche le forme organizzative che la struttura politica si da con le conseguenti “torsioni” che questa modifica produce operando sugli assetti decisi in precedenza. Non è facile rinunciare a quello che si è costruito oppure cambiare gli assetti acquisiti nel tempo ma questa è anche la condizione per evolvere come progetto, in altre parole sintetizzando nel mantenimento dei fini strategici si rimane se stessi solo cambiando.
Se la teoria indica le prospettive possibili che emergono dalle contraddizioni dell’attuale Modo di Produzione e ci dice la direzione di marcia che dobbiamo tenere, cioè i fini, da questa non si possono trarre indicazioni di merito e specifiche sull’intervento reale; solo stando nella concretezza di quelle contraddizioni si può verificare prima le ipotesi fatte in precedenza ed eventualmente adeguare alle verifiche il progetto politico.
DEFINIRE ALCUNE BASI TEORICHE
A questo punto del testo è utile definire alcuni elementi teorici, a supporto del testo scritto, in relazione alla questione del metodo intesi non come verità assolute ma come punti, forse non ancora legati organicamente, che ci danno la possibilità di cominciare il nostro percorso di ricerca e approfondimento. Va detto subito che il lavoro che stiamo intraprendendo non è facile ne scontato nel senso che non possiamo limitarci a riproporre i “sacri principi” del movimento e del pensiero comunista ripresi dai classici.
Infatti in questo ambito si intrecciano varie e complesse questioni, intanto va affrontato un piano che ha a che fare con la concezione del mondo, detto in altre parole con un livello filosofico del pensiero marxista il che per noi non è cosa affatto facile vista la nostra storia ed il carattere concreto della nostra attività.
Questa dimensione filosofica è molto più complessa del lavoro di analisi teorica sulle dinamiche economiche e politiche del capitalismo che abbiamo iniziato dagli anni ’90, d’altra parte, adesso siamo chiamati a misurarci con la qualità di una soggettività comunista, il nostro intellettuale collettivo, cosa più complessa dell’analisi economica che deve fare i conti anche con l’evoluzione culturale e scientifica della nostra società. Ma questo solo aspetto non esaurisce le nostre necessità in quanto questa nostra elaborazione non si può limitare alle sole concezioni filosofiche da produrre ed evidenziare ma ha come obiettivo, politico e strategico, la formazione sul piano del metodo di lavoro cosa questa che rappresenta per tutti noi, inclusi coloro che scrivono, una novità ed un impegno finora mai affrontato.
Si tratta di cominciare ad individuare un percorso non breve, del quale allo stato non ne conosciamo gli esiti e dunque dobbiamo procedere con molta cautela costruendo attorno al nucleo strategico della nostra soggettività organizzata una struttura di pensiero che sia anche uno strumento di lettura e di lavoro per tutti i nostri quadri che andrà gestita ed approfondita nelle strutture sapendo che non stiamo parlando solo dei “principi” ma cercando di orientare anche l’azione concreta del nostro collettivo.
La Realtà è il presupposto del pensiero.
Capire questo snodo è un elemento fondante in quanto il pensiero non nasce nella nostra mente, né in quella di Giove, ma è il prodotto, diretto ed indiretto, del mondo che ci circonda che determina il pensiero e la concezioni delle cose. Per noi questa affermazione sembrerebbe scontata in quanto le visioni religiose o quelle totalmente idealistiche sono state smentite dall’evoluzione della storia e dal livello di conoscenza scientifica raggiunto. Su questo aspetto non entriamo nel merito in quanto il nostro ragionamento lo presuppone come condizione di partenza per la nostra elaborazione, ovvero le forme ideologiche borghesi, dall’idealismo fine ‘800 all’attuale pragmatismo, nel corso della storia vengono continuamente rimesse in discussione dalla stesso sviluppo prodotto dal capitale.
Se questa affermazione è valida nel considerare la tendenza storica oggi la situazione concreta non è affatto così in quanto se le diverse concezioni religiose sono obbiettivamente spiazzate dallo sviluppo generale è anche vero che questo sviluppo complessivo è stato fatto sotto il segno del capitale, in questo senso rimane ancora ben viva nella società la religiosità. Nella società capitalista il dualismo società civile-Stato rimane, ovvero se viene riconosciuta l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte allo Stato nella cosiddetta società civile le differenze non solo permangono ma, in un momento storico come quello attuale, aumentano. Gli esempi di questa “religiosità” insita nella società capitalista odierna sono moltissimi e quotidiani; dal primato del mercato inteso come entità metafisica alla quale siamo tutti sottoposti ad un “Dio” più recente che è quello dell’Unione Europea che decide il nostro futuro, che ci da i compiti casa, e non ci sono “sovranisti” che disobbediscano, che modifica dal cuore dell’apparato Eurocratico le nostre condizioni di esistenza. Per una visione filosofica più compiuta di questa impostazione possiamo rinviare al nostro testo fatto nel 2002 su l’attualità della “Questione Ebraica” di Marx; ma quello che ci interessa evidenziare in questa sede è che nella società del capitale le “religioni” concrete possono entrare in crisi ma la religiosità è la tendenza a sancire e legittimare una forma di vita sociale determinata da un sistema in cui l’uomo non decide nulla ma nel contempo ne modella le coscienze.
Nei decenni passati la società era strutturata ed aveva ambiti decisionali che andavano oltre le sedi statali, partiti e movimenti politici, sindacati, cooperative, associazionismo, etc. determinando una relativa indipendenza, a secondo del momento storico, insomma, in qualche modo, era l’ “uomo” che faceva la Storia. Oggi vediamo nei confronti dei diversi leader politici, da Berlusconi a Renzi fino a Salvini e Grillo, da parte delle “masse” comportamenti fideistici che credono sia necessaria la presenza dell’uomo della provvidenza al quale delegare le scelte ed in cui credere in modo appunto quasi religioso.
Questa premessa di carattere più strettamente filosofica serve a chiarire che la pretesa laicità, l’agnosticismo o il pragmatismo intesi come valori poggiano su una struttura che riproduce sistematicamente forme idealistiche che conformano le coscienze. Poiché noi siamo una struttura che agisce nella realtà politica e sociale non possiamo pensare di non subire, anche indirettamente, concezioni che possano deviarci e qui torniamo alla questione del nostro metodo che deve avere riferimenti ben saldi capendo volta per volta come sottrarsi al senso comune, alla coazione a ripetere o anche al semplice pragmatismo che può essere interpretato come un valore positivo in quanto può produrre, nell’immediato, risultati concreti ma contingenti.
Ribadire che la realtà, complessivamente e organicamente intesa anche negli aspetti apparentemente secondari, produce e condiziona le coscienze individuali e collettive in quanto si riflette sulle soggettività formandole attraverso canali che spesso non vengono percepiti è un punto di partenza per interpretare in chiave materialista le relazioni sociali, in tutte le società ed anche in quella capitalista, contrastando l’ idealismo che oggi si presenta sotto “mentite spoglie”. Questa affermazione rimanda al dibattito che c’è stato nel ‘900 sulla “Teoria della Conoscenza”, che è stata ripresa anche dal testo di Guglielmo Carchedi sul Lavoro Mentale, tra i marxisti in cui il riflesso sociale diventa una chiave di lettura delle dinamiche “soggettive” individuali e collettive.
Come abbiamo detto ora vogliamo mettere al centro la questione del metodo, ovvero di come in modo omogeneo ci mettiamo in condizione di fornirci di chiavi di lettura unitarie, ma sulla “Teoria del Riflesso” c’è anche una dimensione più direttamente filosofica, di concezione del mondo, che ha fatto emergere un dibattito dentro il movimento comunista sul quale ci prendiamo la responsabilità e l’impegno in futuro di riprenderlo anche perché una teoria della conoscenza è indispensabile per chi ha la “supponenza” di voler cambiare il mondo, anche sapendo bene le difficoltà che esistono nell’ “arare” un tale terreno.
Se il reale è il contesto in cui siamo formati ed agiamo per essere soggetto politico, ma anche compagna/o come militante cosciente, la prima cosa da fare è quella di produrre un processo di astrazione, di oggettivazione, ovvero di fornirci di tutti quegli strumenti analitici che ci indichino, nei limiti del possibile, quali sono le dinamiche che stiamo affrontando ed anche di come noi siamo collocati dentro queste dinamiche.
Prima abbiamo detto che i singoli fatti si presentano per quello che sono e non esprimono esplicitamente le molteplici relazioni che li hanno determinati ed abbiamo anche affermato che queste possono essere individuate solo con una capacità soggettiva di analisi e di elaborazione che collochi i singoli eventi dentro un processo che li determina ma che non si manifesta direttamente. Avere coscienza di questa necessaria, inevitabile, elaborazione da fare individualmente e collettivamente significa metterci in condizioni di stare dentro i processi, di comprenderli e, nella misura del possibile, gestirli o addirittura determinarli quando ce ne siano le condizioni.
Quando torniamo più volte sulla questione del rapporto tra generale e particolare e affermiamo che su questo abbiamo una difficoltà di comprensione tra di noi e diciamo che rimanere nel particolare significa impedirci lo sviluppo intendiamo che un tale comportamento è indice di un limite teorico e politico perché non si coglie la complessità e la dinamicità degli effetti del “riflesso” che ci viene da quello che possiamo percepire come “mondo esterno”. Si evidenzia così una nostra incapacità di comprensione della realtà nel suo insieme e in particolare nel suo divenire, in cui noi stessi siamo inseriti, e da questo limite può essere danneggiata la prassi politica, intesa in senso pieno cioè come progetto generale e non come semplice attivismo.
Inoltre rimuovere questo imperativo, per un militante comunista, significa anche non cogliere le potenzialità dell’azione collettiva in quanto se è vero che noi stessi siamo la realtà, perché da questa prodotti, abbiamo la possibilità di determinare la dinamica, in modo totale o parziale a seconda dei rapporti di forza tra le classi, della realtà stessa. In sintesi sfuggire da una analisi esaustiva delle relazioni che esistono nel mondo reale e nei reciproci condizionamenti significa depotenziate la nostra azione politica complessiva che, in caso di presenza di modifiche politiche negative per noi, rischia di farci trovarci spiazzati ed in crisi.
Ma la Soggettività modifica la Realtà.
Se abbiamo evidenziato come la realtà, nella sua complessità, conforma le coscienze e l’azione sia degli individui o dei soggetti collettivi nel suo procedere materiale peccheremmo di materialismo meccanicista se pensassimo che questo aspetto sia l’unico che possa determinare gli eventi.
Questa è stata anche una polemica che si è sviluppata nel corso del ‘900 sul testo di Lenin “Materialismo ed Empiriocriticismo” pubblicato nel 1908. Ma come abbiamo già detto se la realtà, sia nelle condizioni materiali che nelle relazioni sociali, si riflette nella società umana in diversissime forme non possiamo noi riprodurre una dicotomia in cui la realtà è cosa esterna all’uomo. Al contrario essendo l’umanità parte interna questa, nelle forme storicamente determinate, a sua volta modifica la realtà, questo è avvenuto nelle diverse formazioni sociali succedutesi nel tempo ma anche rispetto alla natura ed all’ambiente.
Insomma se esiste un riflesso “passivo” esiste anche il riflesso “attivo” che è quello che poi ha prodotto l’evoluzione della storia umana fin dalle sue prime forme di vita associata.
Questa dinamica è valida sia nelle dimensioni più ampie che in quelle più ridotte; per tornare al metodo per noi questo significa che la nostra azione, dentro il quadro strategico che ci siamo dati, non è affatto scontata nei suoi esiti ne può avere ripiegamenti meramente organizzativistici. Dunque la qualità politica con la quale svolgiamo il lavoro dell’ organizzazione e nelle sue articolazioni di massa diventa centrale in quanto la garanzia sui risultati che vogliamo produrre, definiti volta per volta nello sviluppo della situazione, non ci viene data da nessuno.
Ad esempio c’è stato un periodo in cui si dava per inevitabile la rivoluzione socialista, poi sappiamo come sono andate le cose, ed a questo è seguito un periodo in cui i buoi sono tutti fuggiti dalla stalla perché si pensava che ogni possibilità di cambiamento non poteva essere realizzata. Ma ora vediamo invece come il cambiamento sta divenendo nuovamente un problema non delle avanguardie politiche ma sempre più una necessità di massa anche a livello internazionale. Oggi siamo in una condizione in cui il modo di costruire progetto ed organizzazione deve fare i conti con la realtà inedita che abbiamo di fronte, in altre parole dobbiamo misurarci con una nostra “analisi concreta della situazione concreta” che ha ben sintetizzato il pensiero e l’azione di Lenin e del partito Bolscevico nel fare la rivoluzione ma che a noi ci si ripresenta in condizioni storiche del tutto diverse.
Per noi, dunque, si conferma centrale la nostra capacità di essere “riflesso attivo” che ci ha permesso, nonostante i nostri limiti, nei decenni precedenti di “sopravvivere” in un contesto inquinato dalla mistificazione ideologica e politica prodotta dalla sinistra ex PCI e, di conserva, dal PRC.
Nelle pagine precedenti del presente testo abbiamo cercato di descrive le analisi e le scelte fatte in altri momenti cercando di mantenere la “concretezza”, non pragmatismo, che ci ha caratterizzato e che oggi va ancor di più confermata e praticata. Ma questo aspetto che ci riguarda è una minima cosa, quasi impercettibile di fronte a quello che ha fatto il movimento operaio e comunista nel quale noi politicamente e storicamente ci riconosciamo.
Il processo di emancipazione dei popoli colonizzati, di crescita anche dei paesi imperialisti e della classe lavoratrice che in quei paesi si è conquistata diritti economici e democratici, la stessa ripresa del capitalismo negli anni ’80 hanno dimostrato che il conflitto del ‘900, seppure oggi messo in sordina, ha modificato radicalmente quella realtà che pure l’aveva prodotto con la nascita del capitalismo industriale e finanziario. Per questo nella formazione che stiamo organizzando andrà allegato il 5° quaderno di formazione su “Coscienza di Classe e Organizzazione” che tenta di ricostruire il percorso storico di quel riflesso “attivo” che ha cambiato nel ‘900 il Mondo.
PER CONCLUDERE
Nell’approfondire il lavoro per la formazione sul versante della “soggettività” il metodo che dobbiamo seguire è quello dell’approssimazione graduale ad una idea compiuta di come far crescere dei militanti dell’organizzazione che abbiano chiaro il quadro complessivo. Se il lavoro teorico è il prodotto del collettivo politico, cioè di tutta la RdC è altrettanto importante il livello di maturazione individuale in quanto è quello che ci permette, se le nostre analisi sono corrette, di crescere come organizzazione e come qualità politica della nostra elaborazione. Più concretamente il presente testo tenta di avviare questo processo formativo che però non può non avvalersi delle elaborazione avute nel movimento comunista e dunque vengono allegati una serie di testi che cercano di orientare nella lettura del documento.
Questo metodo lo abbiamo seguito nell’analisi delle tendenze oggettive e lo riproponiamo oggi con la coscienza che non è detto che funzioni nello stesso modo nell’ambito della soggettività, come abbiamo più volte detto gli esiti del nostro lavoro non sono scontati e vanno ogni volta sottoposti ad una verifica stringente. I testi che alleghiamo sono alcune introduzioni a dei testi classici, una parte dei quaderno filosofici di Marx ed un nostro testo, sul quale abbiamo già fatto dei cicli di formazione, che nel contesto dei ragionamenti fatti torna funzionale ed utile ovvero “Coscienza di Classe e Organizzazione”
CREDITS
Immagine in evidenza: V. I. Lenin in His Kremlin Study
Autore: Vladimir Lenin, 16 ottobre 1918
Licenza: Public Domain Mark 1.0
Immagine originale ridimensionata e ritagliata