Massimiliano Piccolo (in Contropiano anno 21 n°1 – maggio 2012)
La pasquinata è uno scritto breve e satirico che vuole mettere nudo il Re.
E questa di Pasquino, che un tempo era stato un giovane funzionario di belle speranze assunto presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri grazie a uno di quei concorsi da far tremare le vene ai polsi, è una pasquinata che non vuole rinunciare agli strumenti critici di analisi elaborati dal CESTES e il rimando al Risveglio dei maiali (giunto alla seconda edizione) appare evidente.
Il racconto della vicenda di Pasquino è un breve segmento della storia personale di un italiano medio che scopre accidentalmente la trama di inganni che lo hanno irretito nell’immediato e che grazie a questo inaspettato travaglio si riappropria, o forse si appropria per la prima volta, della sua esistenza. Il Presidente del consiglio parla in TV di un paese sull’orlo del baratro e con qualcuno pronto a spingerci giù: ma Pasquino, ha i piedi ben piantati per terra, se ne guarda la punta e non vede nessun baratro, si guarda le spalle e non scorge nessuna mano pronta a spingerlo.
D’altra parte, in verità, un baratro c’è ed è quello cui andiamo incontro se non modifichiamo radicalmente il piano d’appoggio che ci fornisce questa scellerata santa alleanza tra padroni e false opposizioni.
Sembra di vederlo l’intero contorno del Concorso di Pasquino: schiere di ventenni diplomati o laureati in cerca di una ‘sistemazione’.
Molti avevano, come suole dirsi, un ‘santo in paradiso’ altri lo cercavano. Il ‘santo’ di Pasquino – ci dicono gli autori di questo pamphlet [“Pasquino”, Se cento giorni di Monti vi sembran pochi…, da un lavoro di Paolo Graziano, Rita Martufi, Jaca Book, Milano, 2012.] – era stato il cognato: “un cognato che aveva voce nella corrente dei Dorotei”.
Nella pochezza di oggi anche quei nani e quell’Italia mediocre e provinciale di allora, assumono una vesta nuova e, per molti versi, grande.
Da allora, dalla sua assunzione, Pasquino è stato testimone, dall’interno del Palazzo, di mutamenti epocali. Ma, come spesso accade, chi vive dentro un processo ne coglie difficilmente il senso simultaneamente al verificarsi dei fatti. È accaduto anche a Pasquino: ha assistito al mutamento delle forme e, dunque, anche della sostanza del suo paese.
Provando a entrare nello spirito delle pagine, lo stesso Palazzo, con questo nome austero che spesso evoca intrighi e congiure, appare meno distante e più familiare quando è plasticamente modellato per l’Italia che fu. Non è il solito refrain di chi percepisce il passato sempre confortante, perché più sicuro del presente: i corridoi che trasudano storia fanno sentire Pasquino partecipe di una storia che, però, adesso gli sembra spezzarsi (anche se in realtà era già spezzata, ma questo, forse, lo capirà solo alla fine).
Ma che ne è della Storia, cosa rimane di essa, quando terminati gli effetti delle azioni che ne hanno edificato i segni della grandezza, i corridoi rimangono vuoti e, sotto i soffitti alti e sontuosi di Palazzo Chigi, Pasquino può ascoltare il fruscio dei suoi mocassini? Il reale del paese si faceva visibile anche con quella maestosità; ma oggi? Il governo Berlusconi ha lasciato il posto a Mario Monti, classe 1943, come si evidenzia nel libro. La data era beneaugurante per chi credeva che fosse ancora il tempo dei fronti popolari: in Italia segnò, infatti, l’inizio ufficiale della Resistenza e, dunque, del riscatto, della Liberazione, della ricostruzione. Sarà una coincidenza ma molti italiani hanno vissuto il passaggio di consegne da Berlusconi a Monti come una liberazione seppur senza un biennio ’43-’45 e un 25 aprile. D’altra parte l’artefice di tutto non è stato il Presidente, ex-comunista, Giorgio Napolitano? Pasquino, però, non era un partigiano delle Brigate Garibaldi: fino all’ultimo aveva anche creduto nel Presidente Berlusconi e la fine del suo Governo gli sembrava avvolta in un alone di mistero. Eppure Monti gli appare come l’uomo giusto al posto giusto: sebbene quel posto non sembra esserselo sudato è accolto come il salvatore della patria. Con semplicità e informalità ma anche con rigore e continui richiami alla crescita; qualcuno dissentiva ma Pasquino rimaneva sordo. I sindacati, tranne USB e FIOM, balbettavano, poi arriva la ‘grande manovra’ e le lacrime amare non sembrano più solo evocate: il capitale finanziario in agonia e, con esso e prima di esso l’intera produzione economica, impone tagli alla spesa pubblica e tasse di rilievo minimo ai capitali illecitamente all’estero. Tutto questo non è, però, sufficiente a far ripartire un meccanismo di accumulazione.
I contestatori aumentano e, per Pasquino, l’inizio del nuovo anno assomiglia a un bollettino di guerra con il paese che è fisicamente bloccato dalle file di camion e tir o dalle serrate dei benzinai. E poi, oltre ai salariati e ai precari, i taxisti.
Pasquino comincia a meditare sull’opportunità di arrabbiarsi: il 27 gennaio è il giorno del primo sciopero generale contro il Governo Monti e all’assemblea sindacale la vicinanza col suo ‘datore’ lo imbarazza sempre meno. Ormai il guado di questo breve viaggio di formazione è stato superato e con qualche soldo in meno e qualche timore in più per il futuro e meno illusioni sui ‘tecnici’, ha anche qualche sogno in più.
Nella Lettera a Ruge del settembre del 1843, Marx scriveva: “Apparirà allora chiaro come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente. Apparirà chiaro come non si tratti di tracciare un trattino fra passato e futuro, bensì di realizzare i pensieri del passato.”