Giorgio Gattei (in Contropiano anno 21 n°1 – maggio 2012)
Nel 1990 Vera Zamagni ha pubblicato un bel libro sulla storia economica italiana dall’Unità in poi dal titolo azzeccatissimo Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia 1861-1990 (Il Mulino, Bologna, 1990) descrivendo come, a partire da una posizione di partenza che oggi si direbbe da Terzo Mondo, il Bel Paese fosse riuscito ad agguantare, nel corso dei 130 anni successivi, il sentiero di crescita delle grandi nazioni capitalistiche. Era questa una storia di successo che doveva essere presa ad esempio da altri paesi in via d’industrializzazione. Nel 2011 si teme però di dover tirare altri bilanci. Non è un caso che, ad un secolo e mezzo dall’Unificazione, nel libro curato da Giovanni Vecchi, In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità ad oggi (Il Mulino, Bologna, 2011) un paragrafo dell’introduzione venga curiosamente intitolato «Dalla periferia al centro, e poi?» (p. XII), quasi ad insinuare che quella conquistata posizione di centralità dallo sviluppo possa pure venire a mancare.
Il libro, scritto con lo stile più accattivante possibile, commenta una massa di dati statistici che nella prima parte provano come, nel corso di quei 150 anni, gli italiani si siano fatti più sani, più alti, più longevi, più istruiti e più ricchi. E questo certamente non per dono di natura, bensì per l’adozione di un meccanismo d’accumulazione capitalistica le cui performances economiche vengono esaminate nella seconda parte del volume. Qui si considerano gli andamenti del reddito, della disuguaglianza e della “vulnerabilità”, che non è altro che la probabilità che si ha oggi di finire in povertà domani «essendo vulnerabile non solo chi è già povero, ma anche chi è a rischio di povertà» (p. 342). Come si capisce, è quest’ultima una misura statistica assai intrigante perchè, invece di misurare a cose fatte, si azzarda ad essere in anticipo nel considerare l’andamento a venire di un sistema economico. E proprio da questo indicatore emerge la preoccupazione che ci riguarda perchè il “grado di vulnerabilità” per l’Italia sta pericolosamente peggiorando. Ma perchè mai? Se il libro, constatato il rischio, non s’interroga sulle cause, qui mi viene da dire che ciò è la conseguenza di una modifica, qualitativamente in peggio, di quello stesso meccanismo d’accumulazione che in precedenza aveva dato così tante soddisfazioni.
C’è un tabella (con grafico relativo) che risulta illuminante al proposito. Vi si mostra la serie complessiva, dal 1861 al 2010, del PIL pro-capite (misurato in euro a prezzi costanti 2010) che, pur con tutte le riserve del caso, resta il migliore indicatore statistico del successo o meno di un sistema-paese. Ora da quella tabella emerge che l’Italia ha vissuto tre distinte epoche di sviluppo economico.
All’inizio, dal 1861 al 1951, c’è stato un incremento tendenziale, ma moderato, del PIL pro-capite che dai 2000 euro del 1861 è passato ai 5000 euro del 1951 (e questo nonostante le due guerre mondiali a cui, come si sa, l’Italia ha partecipato sopportando costi enormi di vite e di reddito). Poi è seguita una stagione di «ascensione straordinaria» (p. XVI) che ha portato dai 5000 euro del 1951 ai 27.000 del 2001 in una maniera praticamente ininterrotta, tanto che non si segnala alcun arresto nemmeno nei tanto vituperati anni 1970–90 (forse per la forza d’inerzia del precedente “miracolo economico”?). Infine è subentrata una inversione di tendenza statisticamente significativa col PIL pro-capite che si è ridotto dai 27.000 euro del 2001 ai 25.000 del 2011. A considerare il grafico nel suo insieme si ha proprio l’impressione che quella macchina d’accumulazione, faticosamente assemblata dopo il 1861 e poi messasi a correre in maniera accelerata fino al 2001, abbia poi preso (come si dice) a “battere in testa”.
E siccome «i più importanti indicatori sociali del paese stanno muovendosi in direzione preoccupante» (p. 254), è giustificato che Giuliano Amato, in una (inutile) prefazione al volume, abbia potuto concluderne che «l’ipotesi di un ritorno dell’Italia fra le retrovie del mondo di domani non è affatto da escludere» (p. IX). Se però ciò dovesse rivelarsi esatto, allora alla domanda avanzata nella introduzione al volume sul futuro economico del sistema-Italia si dovrebbe rispondere: Dalla periferia al centro – e ritorno.
2.
In una esagerata intenzione di restare confinato alla descrizione dei fenomeni senza “inquinarli” con interpretazioni peregrine, il libro In ricchezza e in povertà non si pone alcuna domanda sulle ragioni che possono aver prodotto quel lento decollo, la crescita successiva e, soprattutto, la “pausa di riflessione” che si prospetta. Mi ci provo allora io a spiegare proprio a partire dalla suggestione della inedita scansione temporale (1861- 1951, 1951-2001, 2001-2010) suggerita dalla serie continua delle statistiche del PIL procapite.
Nel primo periodo si può dire che l’Italia ha provato a fare lo sviluppo da sola, cercando di agguantare il sentiero della crescita economica con i propri mezzi. E’ stata una rincorsa faticosa che comunque alla fine è riuscita perchè la crescita c’è stata e, se non fossero intervenute le due guerre mondiali con la Grande Crisi nel loro mezzo, si sarebbe potuto fare anche di più. Nel secondo periodo (1951-2001) l’Italia è invece diventata atlantica, inserita a pieno titolo nel sistema difensivo della Nato. Ed è da questa sua posizione d’avamposto occidentale contro la minaccia sovietica che essa ha tratto i maggiori vantaggi economici perchè ha goduto dell’aggiunta, da una parte, della spinta delle esportazioni (sia che risultassero per genuino “vantaggio competitivo” delle merci prodotte oppure per “svalutazioni competitive” della lira) e, dall’altro, del sostegno della spesa pubblica che allora veniva giustificata dalle nuove dottrine keynesiane provenienti dagli Stati Uniti. Nella terza fase (2001-2010), con l’adesione alla “moneta unica”, l’Italia si è fatta invece europea ed è da questo momento che sono cominciati i guai. Siccome però non si può parlare male dell’Europa (come non lo si può fare di Garibaldi), è ovvio che nel libro si auspichi per il futuro «una partecipazione sempre più stretta all’Europa unita, la sola in grado di ridare a tutti gli italiani – del Nord, del Centro e del Sud – la change di partecipare a un futuro di benessere, oltre che di civiltà, nelle pensabili ed impensabili evoluzioni dell’economia mondiale dei prossimi decenni» (p. XXII).
Tuttavia c’è da dubitare che l’Europa di Maastricht sia stata la miglior collocazione per il nostro paese a considerare l’organizzazione economica di “sistema” che essa comporta.
3.
C’è stato un fatto nel 2011 che avrebbe dovuto dare a pensare: improvvisamente l’Italia si è vista precipitare, insieme a Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, tra i paesi “maiiali” (PIIGS). Ma qual’è il connotato specifico per una simile collocazione? Secondo l’opinione corrente sono “maiiali” le nazioni che hanno una esagerata incidenza di debito pubblico sul PIL e non c’è dubbio che l’Italia, col suo 120%, ci sta proprio a meraviglia. Peccato però che alla verifica empirica quel criterio non regge: perchè il Belgio, che ha un debito pubblico sul PIL peggiore dei PIIGS, non è “maiiale” e il Giappone, che è il paese più indebitato al mondo, non soffre degli attacchi speculativi che mettono invece in croce l’Europa mediterranea? La ragione vera – come spiegano Emiliano Brancaccio e Marco Passarella in L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa (Laterza, Bari, 2012) – sta nella “salute” della bilancia commerciale per cui sono “maiiali” i paesi che importano più di quanto esportano. Ecco allora il discrimine tra le due Europe che convivono sotto il comune Patto di Stabilità: da una parte stanno i PIIGS con la bilancia commerciale in deficit e dall’altra la Germania che, con Austria, Olanda e Finlandia, è invece in avanzo. «In altri termini, non è l’eccesso di spesa pubblica sulle entrate fiscali a preoccupare tanto, quanto piuttosto l’eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni, un eccesso che si concentra nei paesi periferici dell’Unione europea e che rappresenta l’immagine speculare del surplus di esportazioni tedesco» (p. 67).
E’ da questa disparità commerciale che originano i pressanti inviti ai paesi “maiiali” di mettersi in regola con i conti con l’estero prendendo ad esportare di più dentro la zonaeuro (ma senza contare sulle svalutazioni competitive per la comune moneta di cambio) e fuori dalla zona-euro (ma senza sperare su rivalutazioni prossime del dollaro). E’ ovvio che a tali condizioni il compito sia piuttosto improbo, ma gli “eurocrati” sono sicuri che basta la riduzione della spesa pubblica per far diminuire le importazioni e che il taglio dei salari fa guadagnar subito competitività alle merci nazionali accrescendone le esportazioni.
E’ questo il programma d’austerità che attualmente ci sta deliziando (si fa naturalmente per dire) e che purtroppo non darà l’esito sperato perchè in contrasto con le buone regole della contabilità nazionale.
Intanto, se è vero che la domanda effettiva, che trascina la produzione, dipende dalle esportazioni, queste però non ripartono a comando, ma secondo la volontà dei compratori stranieri che, a prescindere dal mercato del “lusso” (che ha regole sue), possono non trovare convenienza ad acquistare il made in Italy a meno che i prezzi di vendita non siano letteralmente “stracciati” (se sul mercato interno si auspicano salari “cinesi”, sul mercato estero ci vorrebbero prezzi altrettanto “cinesi”). Ma essa dipende anche dai consumi, dagli investimenti e dalla spesa pubblica e, ad escludere l’intervento dei consumi delle famiglie (a seguito dei tagli salariali) e della spesa dello Stato (in conseguenza del pareggio di bilancio), non restano che gli investimenti delle imprese che dovrebbero essere almeno sostenuti (ma sappiamo che comunque non basta) da una politica monetaria accomodante non soltanto da parte della Banca Centrale Europea verso le altre banche (come in effetti è), ma da parte dell’intero sistema bancario verso le imprese, cosa che invece al momento non è. Ecco perchè, con buona pace delle previsioni del Governo Monti, il Fondo Monetario Internazionale stima per l’Italia, in considerazione del fatto che nel biennio 2012- 2013 tutte le componenti della domanda interna saranno a calare mentre la domanda estera difficilmente aiuterà, un calo drammatico del PIL del 9,0%, esattamente -5,7% nel 2012 e -3,3% nel 2013 (cfr. S. De Nardi, Sarà recessione. E sarà grave, “lavoce.info”, 15.12.2011).
4.
Se ora si fa il confronto tra il meccanismo di produzione del reddito adottato dall’Italia “europea” rispetto a quello dell’Italia “atlantica” degli anni 1951-2001, si vede che nel trapasso del regime d’accumulazione sono andati perduti proprio i due strumenti operativi che l’hanno fatta grande, e cioè la spesa pubblica necessaria ad alimentare (oltre ai consumi e agli investimenti) il mercato interno e la svalutazione della lira (anche rispetto alle alte monete europee) che ne aveva sostenuto il commercio estero. E siccome la politica d’austerità imposta dai paesi dell’euro commercialmente in avanzo non vale per l’Italia soltanto, ma per tutti i paesi “maiiali”, sta qui la ragione profonda della deriva economica che si prospetta davanti a tutti loro. Come hanno denunciato Brancaccio e Passarella (qui non resta che lasciare a loro la parola), «questa gara a chi raggiunge per primo il pareggio di bilancio pubblico, a chi rende il mercato del lavoro più flessibile, a chi deprime più rapidamente le retribuzioni, rappresenta l’architrave formale dell’Unione monetaria europea, ma costituisce al tempo stesso il volano di una guerra distruttiva che farà precipitare il continente in una nuova depressione» (p. 71-72) al cui termine i paesi “maiiali”, invece di convergere verso il centro dello sviluppo, ne saranno allontanati sempre di più. Sotto il tallone di ferro dell’euro «le imprese dell’Europa del sud in concorrenza con quelle tedesche saranno progressivamente estromesse dal mercato.
Sopravvivranno soltanto le imprese acquisite o quelle che operano in subfornitura all’interno delle catene produttive coordinate dai capitali tedeschi. Le leve di comando del capitale si concentreranno sempre di più in Germania e nelle aree centrali dell’Unione, mentre le periferie dell’eurozona resteranno popolate da masse inermi di azionisti di minoranza e di lavoratori a basso costo» (pp.91-92). Sarà questo il ritorno alla periferia che attende l’Italia “maiiala” nel suo prossimo futuro, come lascia supporre il suo aumentato “grado di vulnerabilità economica” che le statistiche hanno cominciato a documentare?