Luciano Vasapollo in Ballando sul Titanic. Atti del convegno
1. Finanziarizzazione e indebitamento nell’attuale contesto della competizione globale
L’attuale crisi del capitale viene da lontano e mostra la sua strutturalità già dai primi anni ’70, con una tendenza al ristagno con forti e continue tensioni recessive, in parte attenuate da continui processi di ricomposizione della localizzazione dei centri di accumulazione mondiale del capitale, con una riduzione temporale dei cicli delle crisi finanziarie, che hanno evidenziato come le diverse forme di indebitamento crescente, interne ed esterne, pubblico e privato , abbiano di fatto in qualche modo garantito la sopravvivenza degli storici centri di accumulazione del capitale del Nord America e dell’Europa Occidentale.
E’ per questo che in uno sporco gioco massmediatico si vuol far credere che l’attuale crisi sia di natura finanziaria e dovuta ad una eccessiva liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati, che ha provocato bolle speculative, finanziarie e immobiliari, la sostituzione dei profitti del capitale produttivo “buono” ai guadagni del capitale finanziario “cattivo”, con l’eccesso di rendite finanziarie, immobiliari e di posizione.
Ciò avrebbe influito notevolmente al cambiamento redistributivo del PIL fra capitale e lavoro, avvantaggiando però le forme retributive del capitale finanziario, quali gli interessi e le rendite, senza incrementare di fatto in termini generali i dividendi non ripartiti e l’autofinanziamento proprio e improprio.
Si vanno riducendo così le capacità delle imprese ad effettuare investimenti in capitale proprio, favorendo, invece, i processi di indebitamento, il tutto intaccando le capacità generali del processo di accumulazione capitalistico.
Scoppiate le bolle speculative, finanziarie e immobiliari, crollati i prezzi degli attivi finanziari del capitale fittizio con le conseguenti varie situazioni di insolvenza bancaria, si sono andate evidenziando le diverse crisi regionali, come ad esempio quella del Giappone nel 1992, nel Messico nel 1995, le tigri asiatiche nel 1997, la Russia nel 1998 ecc.; fino a quella del 2007, che viene erroneamente definita la crisi finanziaria degli Stati Uniti e che nel 2008, attraverso l’articolazione del sistema bancario internazionale, colpisce tutti i paesi a capitalismo maturo e non solo.
Tutto ciò farebbe pensare alla scelta della finanziarizzazione dell’economia come un processo momentaneo di riassestamento del capitale internazionale, mentre si tratta effettivamente di un illusorio tentativo di uscita dalla crisi strutturale, prendendo atto dell’incapacità e impossibilità del rilancio di un nuovo modello di accumulazione capitalista attraverso la possibilità di cambiamento del modello di produzione.
Si cerca così di sopravvivere alla meglio intensificando la sostituzione della funzione del capitale produttivo con finanziarizzazione, delocalizzazioni, esternalizzazioni, privatizzazioni e riducendo drasticamente i costi di produzione con un attacco violento al generale costo del lavoro, alle stesse garanzie e diritti del lavoro, al salario diretto, indiretto e differito, provocando disoccupazione strutturale, precarizzazione istituzionalizzata, uso ricattatorio della forza lavoro immigrata per espellere manodopera locale, più costosa e più esigente in termini di diritti e garanzie.
L’indebitamento generalizzato è parte di questa prospettiva finanziaria, che si è affermata con un lungo ciclo di bassi tassi di interesse, accompagnato da forme selvagge di deregolamentazione e con il ruolo centrale degli organismi internazionali, in particolare l’FMI che ha sostenuto un sistema di pagamenti internazionali in grado di garantire la continuazione di una voluta condizione di squilibrio, nella quale all’incredibile indebitamento statunitense potesse sopperire l’enorme surplus di Giappone, Germania e Cina.
E’ ovvio che una tale struttura dei pagamenti internazionali immette nel sistema una gigantesca concentrazione di liquidità detenuta dalle grandi multinazionali e gestita dalle grandi banche e dalle grandi società finanziarie. Tali eccessi di liquidità sono stati incanalati nel sistema finanziario contraendo ancor più fortemente gli investimenti produttivi, riducendo così la capacità di reddito dei lavoratori. Tant’è che ormai dall’OCSE, e da molti altri organismi internazionali, viene evidenziato che gli ultimi 30 anni si è ridotta di oltre il 10% la partecipazione al PIL dei redditi da lavoro nel complesso dei paesi a capitalismo maturo con un corrispondente aumento dei redditi da capitale, quindi della massa del plusvalore; a ciò non si accompagna un equivalente svime ad esempio quella del Giappone nel 1992, nel Messico nel 1995, le tigri asiatiche nel 1997, la Russia nel 1998 ecc.; fino a quella del 2007, che viene erroneamente definita la crisi finanziaria degli Stati Uniti e che nel 2008, attraverso l’articolazione del sistema bancario internazionale, colpisce tutti i paesi a capitalismo maturo e non solo.
Tutto ciò farebbe pensare alla scelta della finanziarizzazione dell’economia come un processo momentaneo di riassestamento del capitale internazionale, mentre si tratta effettivamente di un illusorio tentativo di uscita dalla crisi strutturale, prendendo atto dell’incapacità e impossibilità del rilancio di un nuovo modello di accumulazione capitalista attraverso la possibilità di cambiamento del modello di produzione.
Si cerca così di sopravvivere alla meglio intensificando la sostituzione della funzione del capitale produttivo con finanziarizzazione, delocalizzazioni, esternalizzazioni, privatizzazioni e riducendo drasticamente i costi di produzione con un attacco violento al generale costo del lavoro, alle stesse garanzie e diritti del lavoro, al salario diretto, indiretto e differito, provocando disoccupazione strutturale, precarizzazione istituzionalizzata, uso ricattatorio della 72 forza lavoro immigrata per espellere manodopera locale, più costosa e più esigente in termini di diritti e garanzie.
L’indebitamento generalizzato è parte di questa prospettiva finanziaria, che si è affermata con un lungo ciclo di bassi tassi di interesse, accompagnato da forme selvagge di deregolamentazione e con il ruolo centrale degli organismi internazionali, in particolare l’FMI che ha sostenuto un sistema di pagamenti internazionali in grado di garantire la continuazione di una voluta condizione di squilibrio, nella quale all’incredibile indebitamento statunitense potesse sopperire l’enorme surplus di Giappone, Germania e Cina.
E’ ovvio che una tale struttura dei pagamenti internazionali immette nel sistema una gigantesca concentrazione di liquidità detenuta dalle grandi multinazionali e gestita dalle grandi banche e dalle grandi società finanziarie. Tali eccessi di liquidità sono stati incanalati nel sistema finanziario contraendo ancor più fortemente gli investimenti produttivi, riducendo così la capacità di reddito dei lavoratori. Tant’è che ormai dall’OCSE, e da molti altri organismi internazionali, viene evidenziato che gli ultimi 30 anni si è ridotta di oltre il 10% la partecipazione al PIL dei redditi da lavoro nel complesso dei paesi a capitalismo maturo con un corrispondente aumento dei redditi da capitale, quindi della massa del plusvalore; a ciò non si accompagna un equivalente sviluppo della produttività del lavoro ma tutto va chiaramente letto attraverso un inversione strutturale nella redistribuzione dei redditi.
E’ proprio l’OCSE che evidenzia che tra il 1993 e il 2008 il numero dei lavoratori salariati è aumentato del 20% ( appunto nei paesi OCSE) e i redditi complessivi da lavoro sono aumentati di meno del 10%, mentre i consumi e gli investimenti non produttivi dei capitalisti nello stesso periodo sono aumentati del 211%.
Quindi tale liquidità in eccesso deriva proprio dalla modifica strutturale della redistribuzione del PIL ai redditi da lavoro e capitale, a forte vantaggio di quest’ultimo già a partire dagli anni ’80; a ciò va anche aggiunto che gli incrementi di produttività del lavoro degli ultimi 25 anni sono stati redistribuiti solo in piccola parte al monte salari complessivo; e in ultimo tale accumulazione di liquidità è stata dovuta anche ai processi di centralizzazione del capitale con fusioni, incorporazioni, liquidazioni, più o meno veri fallimenti e chiusure di imprese, che hanno ingigantito l’esercito dei disoccupati e dei precari.
2. Nuovi soggetti dell’indebitamento; cambiano i “musicanti” ma la musica è sempre contro i lavoratori
D’altra parte tale processo parte da lontano, già dai primi anni ’70, quando la crisi internazionale d’accumulazione assume caratteri così fortemente strutturali da far sì che il capitale internazionale scelga di finanziarizzare le economie; ciò prende particolare slancio già nei primi anni ’80 marginalizzando di fatto il ruolo delle banche commerciali.
Si invertono, così, i comportamenti e il ruolo del ciclo espansivo keynesiano; infatti in tale costruzione, che si rifà proprio al modello teorico di equilibrio della contabilità nazionale keynesiana, il ruolo dell’operatore bancario è quello di intermediare fra l’operatore famiglia, che ha come suo obiettivo istituzionale quello di realizzare consumo e risparmio, mentre l’operatore impresa, in quanto dedito all’attività produttiva deve sostenerla con l’autofinanziamento ma soprattutto con l’indebitamento.
In questo contesto il modello di keynesismo sociale gioca un ruolo di ammortizzatore nel conflitto capitale-lavoro, poiché atto a redistribuire redditi (quindi valore aggiunto e per aggregazione PIL) ai lavoratori Quest’ultimo, grazie alla forza espressa dal grande ciclo di lotte vincenti degli anni ’50 e ’60, conquistano maggiore capacità di acquisto e quindi una forte propensione al consumo sorretta dai propri salari; con tale alta capacità di acquisto si riesce addirittura a creare fonti abbondanti di risparmio da destinare attraverso l’intermediazione bancaria, a colpire l’indebitamento di impresa per effettuare investimenti e quindi sostenere il ciclo di accumulazione del capitale.
Con la finanziarizzazione dell’economia, e quindi con la messa a rendita dei profitti e con la compressione del monte salari complessivo, il modello precedente, chiamiamolo dell’era della crescita, viene a cadere e anzi si inverte il ruolo degli operatori economici.
La riduzione del monte salari complessivo nella redistribuzione del PIL ne diminuisce ovviamente la capacità di acquisto e la propensione al risparmio, tramutando l’operatore famiglia, quindi i lavoratori, da risparmiatori creditori a consumatori poveri indebitati, con l’aumento delle mille forme di ricorso al debito per sostenere i consumi anche di prima necessità.
Allo stesso tempo, la sempre più evidente redistribuzione del valore aggiunto ai redditi da capitale, e la trasformazione dei profitti in rendite, disincentiva di fatto la propensione all’investimento produttivo, anche per la diminuita propensione al consumo delle famiglie e anche perchè l’aumentata incorporazione di profitti rende meno importante e strategicamente rilevante il ricorso all’indebitamento d’impresa.
Si viene, così, a configurare un nuovo equilibrio fra soggetti economici nel quale l’operatore famiglia e, quindi, i lavoratori sono coloro che più ricorrono al debito e quindi ai prestiti bancari e delle società finanziarie; l’operatore impresa, invece, diventa il nuovo soggetto risparmiatore che indirizza le sue risorse in continuazione alla speculazione finanziaria; mentre il sistema bancario indirizza i grandi flussi di liquidità provenienti dalla speculazione finanziaria non più ai crediti alla produzione ma si trasforma in erogatore di prestiti al consumo. Tutto ciò realizza un forte indebitamento dell’operatore famiglia e dall’altra parte un blocco strutturale nei processi di accumulazione del capitale che porta a indirizzare l’aumento nella redistribuzione ai redditi da capitale verso la realizzazione di rendite finanziarie [1].
Se si considera che nel 2008 le rendite da capitale superavano l’1,7 miliardi di euro, mentre nei paesi OCSE l’investimento totale privato in capitale fisso per lo stesso anno è stato di 8 miliardi di euro, si comprende in maniera chiara quanto le rendite finanziarie, a cui vanno aggiunte quelle immobiliari e di posizione, sottraggano le risorse alla produttività reale, incanalandosi soltanto in processi di accelerazione speculativa che necessariamente trovano poi il momento di esaurimento del ciclo nel rappresentarsi dello scoppio delle bolle speculative stesse.
E se qualche paese come l’Italia al momento si è salvato dall’applicazione di queste politiche, non è grazie all’operato delle tanto osannate politiche economico-finanziarie del Governo attuale e precedenti, ma semplicemente perché strutturalmente l’operatore famiglia italiano aveva una forte propensione al risparmio che in piccola parte ancora incide; inoltre risulta evidente che i titoli del debito pubblico italiano non si trasformano in debito estero ma rimangono nel paese, realizzando quei grandi flussi di riciclaggio di denaro sporco in mano alle organizzazioni mafiose e criminali.
E’così che in Italia continua l’effetto domino del perverso intreccio politica-malaffare-criminalità, che sostiene l’altra forma attuale del keynesismo, cioè quello a carattere criminale; la messa a produzione dell’economia criminale, che, insieme a tutta l’altra fetta dei economia nera e sommersa, realizza in termini percentuali una quantità pari a circa il 50% del PIL italiano.
Risparmi dell’economia familiare, autoproduzione economica familiare, economia nera e sommersa, economia criminale e il sostenimento dei mille “lavoretti” legittimi, legali, illegittimi, illegali, spiegano il perché l’Italia non è ancora diventata la Grecia.
In tutti i casi, e ciò vale per l’Italia e per tutti gli altri paesi dell’area, la costruzione dell’Europa di Maastrich, con l’imposizione dei suoi parametri di sostenibilità in cui fondamentali sono il mantenimento di un basso deficit fiscale e di un basso debito pubblico , hanno fatto sì che l’operatore Pubblica Amministrazione , in questo caso cioè lo Stato, abbia tentato di ridurre l’offerta complessiva di titoli del debito pubblico contraendo così ulteriormente le possibilità di creare reddito aggiuntivo per le famiglie attraverso appetibili interessi.
3. Debito sovrano e keynesismo del privato
La chiusura del ciclo speculativo dell’estate 2007, con il connesso crollo del mercato del credito mondiale porta ad un rigenerato interventismo degli Stati dei paesi a capitalismo maturo, indirizzato però non al rilancio della produttività nell’economia reale, ma al salvataggio del sistema bancario e finanziario.
Tali operazioni, che puntano a ridare ossigeno alle banche, innalzano pesantemente il deficit fiscale dei paesi centrali, sia per l’entità delle somme impiegate (la Commissione Europea indica che nel 2009 i paesi dell’Unione Europea si sono letteralmente giocati il potenziale di circa un terzo del loro PIL nell’aiuto delle banche in crisi, considerando complessivamente le immissioni di capitale, le garanzie per le banche e il ripristino di liquidità e la bonifica di quegli impieghi finanziari di cattiva qualità) sia per la diminuzione degli introiti fiscali, dovuta alla decelerazione degli investimenti produttivi causati dalla riduzione del credito alla produzione, che di fatto blocca i processi di crescita dell’accumulazione capitalista.
Si tratta in effetti di una gigantesca operazione a favore di banche, sistema finanziario e imprese, per lo più medie e grandi, per trasformare il debito privato in debito pubblico; si porta così la crisi del capitale in una direzione più pesante che è quella relativa alla crisi economica e politica degli Stati sovrani sotto forma di crisi del debito pubblico.
In tal modo il processo di privatizzazione, in atto dall’inizio della fase neoliberista come ulteriore tentativo a occultare gli effetti della crisi di accumulazione del capitale, accompagnata ai processi di finanziarizzazione e di attacco generale al costo del lavoro, vede la sua ultima puntata piegando gli Stati in una crisi di natura fiscale. Si va così abbattendo definitivamente il ruolo interventista , mediatore e occupatore dello Stato, facendo sì che lo Stato sia presente in economia solo con interessi dichiarati di parte (quello che in vari articoli e libri già dal 1997 chiamiamo Profit State) [2]; uno Stato che con risorse fortemente carenti deve trasferire fette consistenti di spesa sociale sul privato, le grandi imprese e il sistema bancario e finanziario, cioè sostenendo chi è primo artefice della crisi economica generale.
Si realizza così quello che in varie occasioni abbiamo chiamato il rilancio del keynesismo, il cosiddetto keynesismo del “privato”, che in ultima istanza significa la solita via della socializzazione delle perdite. Ciò significa sottrarre ette consistenti di spesa pubblica al salario e al welfare per dare soccorso a quel sistema criminale delle banche, che dopo i disastri provocati vengono sostenute con denaro pubblico, quindi con imposte e tasse sottratti alla spesa sociale e destinati a quell’ultima forma di privatizzazione che è quella del “debito sovrano”. Si tratta semplicemente di incremento del debito pubblico assorbito per il salvataggio del sistema privato di banche e finanziarie.
E’ evidente che è in atto un vero e proprio attacco politico e speculativo dei mercati finanziari internazionali dominati dalle grandi banche e dai fondi pensione e di investimento, per screditare il ruolo dello Stato. E’ la stessa logica un po’ come quando iniziarono i processi di privatizzazione e si dovevano convincere tutti i cittadini che le imprese pubbliche erano parassitarie ed assistite e solo con la privatizzazione si sarebbe raggiunta efficacia ed efficienza; ma la storia economica ha dimostrato il contrario.
Quindi, oggi, creare nell’opinione pubblica l’idea che gli Stati siano sull’orlo del fallimento, significa occultare la crisi economica generale di accumulazione del sistema capitalistico, il disastro dei mercati creditizi e finanziari, creando al contempo la necessità della socializzazione delle perdite del sistema bancario attraverso il denaro delle imposte e tasse dei lavoratori e il taglio dello Stato sociale e del costo del lavoro. Un po’ come quando durante le crisi borsistiche si convincono i lavoratori e i poveri pensionati al minimo che bisogna continuare a fare sacrifici altrimenti il sistema implode a danni di tutti; e quindi anche il povero pensionato al minimo deve subire altri tagli perché con la sua misera pensione deve salvare addirittura l’intero sistema finanziario e creditizio, le Borse, e non badare invece a quanto è vuota la propria borsa della spesa! Sono quindi le banche che realizzano la maggior parte delle transazioni nei mercati dei prodotti finanziari derivati, sono le banche e i fondi pensione e di investimento i maggiori speculatori, e la crisi finanziaria non ha affatto rallentato le transazioni su questi mercati ma le ha moltiplicate in maniera frenetica. Ad esempio sono state le banche in Europa che con la forte riduzione dei tassi di interesse hanno finanziato la bolla speculativa dei prezzi degli immobili; sono le banche che hanno chiuso l’accesso al credito per le imprese e rendendolo sempre più oneroso per le famiglie. Ma guarda caso sono le banche che hanno ricevuto gli aiuti pubblici dal keynesismo “privato statale”, gli aiuti fiscali, perfino beneficiando del carry trade, cioè hanno ottenuto denaro dalle banche centrali a meno dell’1% di tasso di interesse per poi ricomprare i titoli del debito pubblico a più o meno il 5%; e la Banca Centrale Europea non comprerà debito pubblico ma accetta dalle banche private i titoli del debito pubblico per farle continuare a ricevere liquidità e così comprare debito pubblico.
Un gioco al massacro, in cui la vittima ( gli Stati) forniscono l’arma, la corda dell’impiccagione ( la liquidità) al proprio carnefice ( il sistema bancario e finanziario), per essere così impiccati e derisi dal proprio boia! Ma se il gioco è così evidente, perché le banche e i mercati finanziari convincono l’opinione pubblica che i due punti deboli dell’economia europea sono l’alto costo del lavoro e il deficit fiscale con il connesso dato di stock del debito pubblico? Per capire, ciò come abbiamo evidenziato già in nostri scritti di oltre dieci anni fa [3], bisogna ritornare alle modalità di costruzione del polo imperialista europeo che si è realizzato intorno all’asse franco-tedesco ma in funzione specifica degli interessi della Germania ; non è un caso che i criteri di stabilità facciano riferimento al deficit fiscale, al debito pubblico, all’inflazione e ai tassi di interesse; cioè tutte variabili che devono essere tenute sotto controllo per favorire le esportazioni.
Da ciò si capisce chiaramente perché la Germania controlli tali variabili, in quanto la sua crescita è incentrata sull’export e perché necessita il deficit dei paesi europei dell’area mediterranea, i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda , Italia, Grecia , Spagna), compresa anche la Francia, in quanto l’acquisto da parte della Germania dei titoli del debito pubblico di questi paesi rappresentano una forma di investimento dell’eccedente tedesco accumulato. Insomma, il surplus della bilancia commerciale tedesca è reso redditizio dall’investimento del debito dei paesi europei con bilancia commerciale in deficit. Ed è proprio il sistema bancario tedesco che gestisce tale eccedente compreso quello di altri paesi del Nord Europa.
D’altra parte operazioni simili avvengono nei mercati finanziari internazionali per risolvere agli Stati Uniti il problema di liquidità necessaria per finanziare un gigantesco deficit della bilancia commerciale dovuto alla fortissima esposizione in importazioni. E in questo caso il sistema di operazioni finanziarie è gestito da banche di investimento USA, svizzere, francesi e tedesche.
In pratica salvare l’Unione Europea e quindi salvare il modello di export tedesco significa semplicemente distruggere le possibilità autonome di sviluppo dei paesi europei dell’area mediterranea.
E’in questo senso che va interpretata l’azione dell’Unione Europea, che non dotata di una autonoma capacità politica, impone ai paesi deficitari le stesse regole dei piani di aggiustamento strutturale che l’FMI ha applicato in tutti gli ultimi 30 anni per fare “strozzinaggio” sui paesi dell’America Latina e condizionarne le modalità di sviluppo, facendo così giocare ora in Europa come allora in America Latina, un ruolo centrale alle regole della Banca Mondiale oltre a quelle del Fondo Monetario Internazionale.
E’ in questo ambito che si scatena la speculazione dei mercati finanziari internazionali sui titoli dei paesi volgarmente chiamati PIIGS, in particolare di Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda poiché ormai le scommesse migliori sono quelle al ribasso proprio sulle obbligazioni di tali economie-paese; ciò rende impossibile ridurre i già molto alti livelli assunti per questi paesi dei rapporti deficit-PIL e debito pubblico–PIL.
4. Debito sovrano: l’interventismo statale per socializzare le perdite
Il nuovo ruolo delle banche ridà ossigeno al sistema finanziario e mette in mano l’intera economia al “maledetto” gioco delle multinazionali e transazionali private; il tutto con il denaro da imposte e tasse gravante soprattutto sui lavoratori che in contropartita avranno solo ciò che da tanti anni abbiamo definito “Welfare dei miserabili”. [4] Ecco il contesto nel quale a partire dal 2009 si scatena la crisi del debito sovrano e delle connesse politiche pubbliche e governo dell’economia, che hanno visto l’emorragia del denaro pubblico; ad esempio con gli Stati Uniti che hanno speso oltre 2.500 miliardi di dollari per intervenire a sostegno del loro sistema finanziario (con operazioni di ripristino di liquidità, intervento sulla solvibilità bancaria, garanzie, bonifica degli attivi finanziari di cattiva qualità con spese in finanziamenti diretti sul capitale azionario di banche e finanziarie sull’orlo del fallimento, ecc.); con la Gran Bretagna che per le stesse operazioni ha impiegato oltre 1000 miliardi di dollari.
In realtà in termini quantitativi la questione del debito pubblico occupa una parte quasi secondaria rispetto ai problemi generali del debito estero complessivo; ad esempio nell’Eurozona il debito estero sovrano rappresenta circa il 45% del PIL mentre il debito bancario privato, quasi tutto a breve termine, equivale a circa il 90% del PIL.
E’ la Grecia che ha evidenziato un debito estero sovrano fuori media e particolarmente ingente, poiché per esempio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna il debito estero privato di impresa (comprensiva del debito intrafirm) è superiore al debito sovrano dei paesi dell’Eurozona.
La Spagna a inizio 2010 aveva un debito estero di circa 2 miliardi di euro per la maggior parte maturato dopo il passaggio dalla peseta all’euro; il debito pubblico estero è di circa 300 miliardi di euro mentre quello privato è di 400 miliardi di euro, quello delle imprese ammonta a 475 miliardi di euro, entrambi per lo più a lungo termine, mentre il debito delle banche è 800 miliardi di euro di cui oltre il 50% è a breve termine.
Evidenzia bene J. Arriola [5] che, in quello che viene individuato come il prossimo paese sotto attacco dalla speculazione finanziaria la situazione è che per ogni euro di debito sovrano estero le imprese private devono agli stranieri un euro e mezzo e le banche quasi tre.
La situazione è certamente molto differente da quella della Grecia dove il debito pubblico rappresenta il 53% del debito estero complessivo, mentre in Spagna solo il 17% e la parte del leone di chi detiene i titoli del debito estero spagnolo sono proprio le banche che operano sui mercati speculativi internazionali seguite dai fondi pensione e i fondi di investimento.
“Il deficit italiano e’ relativamente basso, circa il 5%, ma il debito e’ il terzo nel mondo, 115% del PIL. Il deficit del Portogallo e’ al 9,3%, quello dell’Irlanda all’11,5%. La decisione folle di perseguire la riduzione del deficit nella tempistica dettata dall’UE ‘’’ entro il 2011-2013 ‘’’ fornisce agli speculatori un parametro di riferimento, e potendo utilizzare i derivati dispongono di una leva finanziaria superiore a quella degli stati sotto attacco. Ironicamente, le munizioni stesse vengono fornite dalla BCE, che accetta i titoli di Stato come garanzia per le emissioni di contanti!” [6]
E’ chiaro dai dati della tabella come la fetta predominante del totale del debito estero dei singoli paesi sia quella delle banche e delle imprese, con un peso sempre più alto rispetto al debito pubblico sovrano estero; tant’è che nell’Eurozona complessivamente a fronte di un totale di debito estero del 183 % del PIL solo il 44% è il debito sovrano dei governi mentre l’83% è quello delle banche e il 51% quello delle imprese ( compreso quello intrafirm). E non è assolutamente vero che la situazione peggiori nel computo dell’Europa a 27, poiché su un totale debito estero del 152% del Pil solo il 37% è il debito sovrano governativo, mentre il 101% è quello bancario, il 40% quello privato di impresa e il 20% quello intrafirm.
Dalla tabella precedente è evidente la diversificazione delle forme di debito e come nella struttura del debito estero non sia certo la percentuale del debito governativo o sovrano quella maggiormente preoccupante. Ciò che è in atto è semplicemente lo spostamento dei debiti dai bilanci da alcuni grandi mostri bancari, assicurativi, industriali e finanziari a quelli pubblici. Tant’è che l’FMI stima un rapporto tra debito pubblico e PIL delle economie dei dieci maggiori paesi a capitalismo maturo del G20 che può arrivare a sfiorare il 120% complessivo e oltre il 100% dei paesi del G20 nel 2014, con il Giappone che può arrivare nello stesso anno al 220% e con il debito pubblico dell’Europa al 100% con Francia, Germania e Regno Unito al 90%.
Si consideri inoltre che continuerà la politica di spostare risorse dei bilanci pubblici per sostenere imprese, banche e finanza, in un contesto in cui la stessa crisi peggiorando le condizioni sociali dovrebbe aumentare la quota di risorse destinate al welfare; che quindi avrà tagli difficili da attuare per non esporsi a vere e proprie ribellioni sociali e costi per la spesa sociale sempre più alti.
E non è certo l’inflazione che può in qualche modo ridurre il peso del debito pubblico, poiché laddove si rendesse “insostenibile” la BCE interverrebbe immediatamente per ridimensionarlo.
Si capisce chiaramente perché la campagna di terrorismo massmediatico, sul debito pubblico e il debito sovrano ha semplicemente un obiettivo politico che è ancora quello di “accollare” sullo Stato la critica feroce dell’opinione pubblica e allo stesso tempo salvare il sistema di impresa e bancario con la socializzazione delle perdite, a carico dello Stato e quindi tagliano salari e Welfare, e infliggendo un altro duro colpo alle capacità di acquisto di lavoratori e pensionati.
Ma le politiche di strozzinaggio in chiave europea non necessariamente possono funzionare in tutta la loro capacità espansiva poiché oggi anche nei paesi a capitalismo maturo la produttività è stagnante da oltre 35 anni, facendo sì che l’accumulazione di capitale, con l’annessa produzione fordista, si sia spostata nei paesi delle semiperiferia e periferia in particolare dell’Asia Orientale dell’America Latina.
Ma la prospettiva futura non può prevedere altro che una crescita forte dell’indebitamento dei paesi a capitalismo maturo per tentare così di mantepoiché su un totale debito estero del 152% del Pil solo il 37% è il debito sovrano governativo, mentre il 101% è quello bancario, il 40% quello privato di impresa e il 20% quello intrafirm.
Dalla tabella precedente è evidente la diversificazione delle forme di debito e come nella struttura del debito estero non sia certo la percentuale del debito governativo o sovrano quella maggiormente preoccupante. Ciò che è in atto è semplicemente lo spostamento dei debiti dai bilanci da alcuni grandi mostri bancari, assicurativi, industriali e finanziari a quelli pubblici. Tant’è che l’FMI stima un rapporto tra debito pubblico e PIL delle economie dei dieci maggiori paesi a capitalismo maturo del G20 che può arrivare a sfiorare il 120% complessivo e oltre il 100% dei paesi del G20 nel 2014, con il Giappone che può arrivare nello stesso anno al 220% e con il debito pubblico dell’Europa al 100% con Francia, Germania e Regno Unito al 90%.
Si consideri inoltre che continuerà la politica di spostare risorse dei bilanci pubblici per sostenere imprese, banche e finanza, in un contesto in cui la stessa crisi peggiorando le condizioni sociali dovrebbe aumentare la quota di risorse destinate al welfare; che quindi avrà tagli difficili da attuare per non esporsi a ve82 re e proprie ribellioni sociali e costi per la spesa sociale sempre più alti.
E non è certo l’inflazione che può in qualche modo ridurre il peso del debito pubblico, poiché laddove si rendesse “insostenibile” la BCE interverrebbe immediatamente per ridimensionarlo.
Si capisce chiaramente perché la campagna di terrorismo massmediatico, sul debito pubblico e il debito sovrano ha semplicemente un obiettivo politico che è ancora quello di “accollare” sullo Stato la critica feroce dell’opinione pubblica e allo stesso tempo salvare il sistema di impresa e bancario con la socializzazione delle perdite, a carico dello Stato e quindi tagliano salari e Welfare, e infliggendo un altro duro colpo alle capacità di acquisto di lavoratori e pensionati.
Ma le politiche di strozzinaggio in chiave europea non necessariamente possono funzionare in tutta la loro capacità espansiva poiché oggi anche nei paesi a capitalismo maturo la produttività è stagnante da oltre 35 anni, facendo sì che l’accumulazione di capitale, con l’annessa produzione fordista, si sia spostata nei paesi delle semiperiferia e periferia in particolare dell’Asia Orientale dell’America Latina.
Ma la prospettiva futura non può prevedere altro che una crescita forte dell’indebitamento dei paesi a capitalismo maturo per tentare così di mantenere i propri livelli di vita. La nuova struttura della divisione internazionale del lavoro porterà ad un gioco al domino finanziario del debito in cui ad esempio i nuovi paesi emergenti del cosiddetto BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) continueranno a comprare titoli occidentali aumentando la concorrenza tra euro e dollaro.
Dalle cartine seguenti si può notare come sia cambiata in pochi anni la mappatura del rapporto debito pubblico-PIL su scala planetaria.
Si consideri che Cina e Giappone insieme detengono oltre il 50% del debito statunitense, e se solo tali paesi decideranno di diversificare il loro possesso titoli pubblici si determinerà un riassetto definitivo del risparmio e delle riserve mondiali inasprendo la competizione internazionale. E in ciò si consideri che molti pensano ormai ad una strutturazione del debito non sui singoli paesi europei ma per un complessivo debito sovrano europeo, che si dice possa portare maggiore stabilità , crescita e una struttura e ruolo politico all’Unione Europea.
Ma si insiste sulla necessità di tagliare la spesa sociale evocando il falso problema che l’Europa in generale è un sistema in deficit mentre invece risulta chiaro l’opposto cioè l’assenza di un debito estero europeo, anche se ciò è il risultato di partite compensatorie in cui il creditore per eccellenza, cioè la Germania insieme a qualche paese del Nord Europa, è il detentore dei titoli del debito dei PIIGS e di altri paesi fortemente indebitati. E’ altresì vero che le banche tedesche che detengono tali titoli del debito, insieme ai mutui subprime statunitensi ed i titoli speculativi immobiliari fanno sì che il potenziale crediti sia in parte sostanziale probabilmente inesigibile. Ecco perché la Germania continua a mantenere prezzi e salari moderati in termini relativi per favorire il proprio modello di sviluppo basato sull’export tentando di aggredire i partner con un rilancio delle esportazioni extraeuropee. Ma Cina e USA non stanno certo lì ad aspettare in un ruolo passivo di osservatori; la guerra continua!
5. Le strategie a perdere dei keynesiani di sinistra
In questo quadro di accentuata competizione globale sembrano prevalere tre strategie europee di uscita dalla crisi.
La prima è la ricetta tedesca, verso quella che considerano la periferia europea, che punta alla destrutturazione del mercato del lavoro a maggiore austerità e maggiore liberalizzazione riducendo le forme anche di protezione sociale. In questo senso le politiche di aggiustamento strutturale in chiave europea hanno come unico obiettivo quello di salvare banche, imprese private e mercato, attraverso un indebitamento pubblico sempre crescente che vede poi come sua cura la privatizzazione dei servizi pubblici di base per creare un nuovo spazio di accumulazione attraverso la nuova catena del valore che si realizza proprio sulle privatizzazioni dei servizi sociali profitti e rendite finanziarie e di posizione.
Quindi un’idea di stabilità dentro i rigidi parametri europei imposti dalla Germania favorendo i processi recessivi con un forte condizionamento negativo sul mondo del lavoro, in termini di costi di specializzazione e di diritti. Ma c’è da dire che ciò potrebbe provocare un impatto negativo sulla produttività favorendo quelle imprese meno produttive che utilizzano manodopera a basso costo e perdendo capacità in termini di innovazione tecnologica.
Una seconda ipotesi è quella più a guida britannica e di settori di una parte dei potentati della cosiddetta sinistra euroscettica che auspicano la creazione di un “secondo euro”, puntando a svalutare e a ristrutturare il debito pubblico complessivo, cercando di attuare anche politiche di nazionalizzazione di alcune imprese e politiche industriali di miglioramento della produttività. Questa strategia radicale di fuoriuscita dall’”euro 1” è priva al momento di reali possibilità attuative sia per le forti pressioni protezionistiche sia per una sicura connessa fuga dei capitali e quindi condizioni che abbasserebbero le capacità di investimento interno al sistema europeo.
La ultima ipotesi è quella della sinistra europea, anche di quella cosiddetta radicale e di alternativa, che partendo da una ipotesi di analisi della crisi come sottoconsumistica, ripropone una nuova stagione per le illusioni dei keynesiani di sinistra di superamento della crisi attraverso il sostenimento della domanda e un impossibile rafforzamento delle spese di carattere sociale e di investimento in infrastrutture pubbliche, tecnologie, educazione, ecc.
E’ l’ipotesi dell’ “euro2” cioè dell’ “euro buono” Ma come dice anche Tony Negri in un suo articolo “Il pensiero danzante di Lord Keynes”, “Globalizzandosi ed unificandosi il capitale ha in certo qual modo vinto, ma nel medesimo tempo ha in certo qual modo perso: perché, di sicuro, il vecchio ordine è stato distrutto ed un nuovo ordine è davvero molto difficile da costruire. Keynes è andato a male su questo terreno. Per questo Keynes è oggi irrecuperabile. Non è difficile spiegare perché. Il New Deal keynesiano era stato l’esito di un assemblaggio istituzionale basato sull’esistenza di tre presupposti: uno Stato-nazione capace di sviluppare in maniera indipendente politiche economiche nazionali; la capacità di misurare profitti e salari dentro un rapporto di ridistribuzione democraticamente accettato; relazioni industriali che permettevano una dialettica legalmente accettata fra interesse imprenditoriale e movimenti (rivendicazioni) della classe operaia….In più, l‘unico elemento che accomuna gli interessi capitalistici, è in primo luogo il perseguimento di un profitto a breve termine, in secondo luogo lo sfruttamento radicale delle possibilità di godimento delle rendite fondiarie, immobiliari e di servizio. Sicché tutto questo rende praticamente impossibile la formulazione di riforme progressive. Il risultato complessivo è che nel capitalismo attuale non vi è spazio per una politica istituzionale di riforme. L’instabilità strutturale del capitalismo di oggi è definitiva, nessun New Deal è possibile”.
L’errore di tali keynesiani di sinistra che si prestano al servizio degli interessi del capitale europeo, sta non solo nell’identificare questa crisi come da sottoconsumo, senza intenderne il carattere sistemico e negando qualsiasi impostazione teorica di origine marxista, ma la loro ipotesi dell’”euro buono” si scontra con la loro stessa impostazione di crescita nella compatibilità capitalista. Infatti ecco che si moltiplica in questo senso l’idea di alzare il denominatore del rapporto debito pubblico-PIL per ridurre l’impatto di tale indice attraverso stravaganti idee dei keynesiani di sinistra per stimoli alla crescita: green economy e progetti ambientali, e progetti infrastrutturali tanto fantascientifici quanto inutili; e per tutto ciò le soluzioni di finanziamento potrebbero derivare da l’emissione di nuovi strumenti finanziari, come gli eurobond per attrarre liquidità dal resto del mondo e sostenere tale modalità di investimenti in una nuova crescita che porterebbe come conseguenza anche alla messa a privatizzazione della stessa spesa sociale (ospedali privati , università private, fondi pensione, ecc.).
Tale ipotesi necessariamente indebolirebbe fortemente l’euro sui mercati internazionali innescando una competizione internazionale che potrebbe risultare mortale per l’unione monetaria europea e per il futuro dell’area valutaria dell’euro.
Ma i keynesiani di sinistra, molti nostrani, continuano incredibilmente a dirsi marxisti nel voler far sopravvivere un cadavere volutamente si dimenticano che non c’è il capitalismo “buono” e che la crisi del capitale è sistemica” La competizione globale è sempre più viva e acuta! La crisi è sistemica! La soluzione è solo politica ed è in mano alla soggettività di classe capace di organizzarsi per la fuoriuscita dal modo di produzione capitalista!
6. Conclusioni: la crisi è sistemica, la soluzione è nella politica per il superamento della società del capitale
La crisi economica del capitale internazionale, che sta manifestando la sua profondità in questi ultimi due anni, ma che origina dai primi anni ’70 come crisi generale di accumulazione, è stata da noi identificata in vari lavori [7] già da oltre dieci anni come crisi strutturale, e pertanto diversa dalle “normali” crisi in cui si dispiega il modo di produzione capitalista proprio a partire dalla sua condizione intrinseca di disequilibrio [8].
Indipendentemente dal fatto che la sua profondità si sia evidenziata nelle Borse e nelle pratiche speculative dei grandi sistemi bancari, da sempre abbiamo avvisato che non si trattava della classica crisi finanziaria [9], poiché in tale “normale” situazione non si interrompono i processi internazionali di accumulazione del capitale. Può anche avvenire che la crisi finanziaria si accompagni a un radicale mutamento del modello di accumulazione capitalista e l’annesso sistema produttivo; ciò è avvenuto probabilmente solo in un caso nel 1929, determinando radicali cambiamenti politico-istituzionali che si associano alla definizione di un diverso modello di produzione e di sviluppo. Ed ecco che in questo caso la crisi assume connotati di strutturalità e può nascere un nuovo modello di accumulazione capitalista, come è avvenuto nel dopo ’29 con la complessità del modello keynesiano nelle sue diverse forme ed esplicitazioni.
Nel caso della crisi attuale abbiamo evidenziato da tempo che sicuramente convive l’aspetto di strutturalità con quello di una vera e propria crisi globale; infatti in quanto contemporaneamente alla crisi economica generale di accumulazione e ai suoi fenomeni connessi di natura finanziaria, è chiaro a tutti, anche ai non addetti ai lavori, come il modo di produzione capitalista evidenzi un inasprirsi del conflitto capitale-lavoro che sempre più mette in luce le drammatiche conseguenze di una contemporanea crisi ambientale, crisi energetica, crisi alimentare, crisi dello Stato di diritto e delle stesse forme di rappresentanza democratica. Si arriva così ad una vera e propria globalità di crisi anche degli stessi valori etici fondanti la teoria e la pratica dell’era capitalista, che pur in passato aveva svolto una sua funzione evolutrice.
Va altresì sottolineato che parliamo da tempo di crisi sistemica poiché la strutturalità e globalità della crisi rende evidente la tendenza alla caduta del saggio di profitto nei paesi più sviluppati, o meglio da noi sempre definiti paesi a capitalismo maturo. E’ chiara l’evidenza in questo caso dell’enorme distruzione di “forze produttive in esubero”, siano esse forza lavoro o capitale come esplicitazione di forma di lavoro anticipato, e quindi non vi non siano più le condizioni per ripristinare un nuovo modello di valorizzazione del capitale che sappia dare la “giusta” redditività agli investimenti e quindi creare possibilità per un nuovo processo di accumulazione capitalista, anche attraverso il cambiamento del modello di produzione.
Ciò significa che la costante sovrapproduzione di merci e capitali nei paesi a capitalismo maturo non trova più soluzione né nelle varie forme di presentarsi e di fuoriuscire dalle crisi congiunturali né di quelle di natura più strutpagnata da crisi sistemica. Ciò perché le stesse relazioni di produzione entrano in conflitto con carattere endemico, distruggendo per la prima volta anche la stessa forzata convivenza padrone –lavoratore.
La crisi è sistemica perché sempre più ampia è la divaricazione fra sviluppo delle forze produttive e modernizzazione e socializzazione dei rapporti di produzione, al punto che sono ormai intaccati non solo questi ultimi ma le stesse relazioni sociali in tutti i paesi a capitalismo maturo; al punto che i nuovi soggetti del lavoro , del non lavoro e del lavoro negato, cioè quel soggetto che si fa classe proletaria sfruttata nonostante la modernità delle forme, non accetta più e non vede possibilità di emancipazione politica, culturale, sociale ed economica nella società del capitale. Vengono cioè meno le stesse mediazioni motivazionali del soggetto di classe del lavoro, anche se la sua ribellione contro la società del capitale assume forma fuori dall’organizzazione di classe nelle mille modalità del disagio giovanile, dell’illegalità metropolitana, del suicidio attraverso l’uso delle droghe, delle rivolte contadine in Asia e in America Latina, delle “follie “ stragiste dell’insoddisfazione del vivere.
La fine del rapporto sociale schiavo-padrone evidenzia ancor più una crisi sistemica, poichè ne colpisce gli stessi elementi di convivenza sociale e civiltà. E’ una crisi irreversibile per il capitale internazionale che va al di là dell’esaurimento di un modello di accumulazione capitalista, come è successo nel ’29, che nel provocare una profonda rottura anche in termini di relazioni politiche apre grandi possibilità di cambiamento non al semplice modello di produzione ma alle stesse prospettive generali dell’umanità, poiché si rompe definitivamente l’aspirazione alla relazione e al divenire altro soggetto di classe. Come sempre le sorti della classe lavoratrice non sono in mano alle varie ricette economiche, comprese quelle edulcorate dalle varie facce di un nuovo keynesismo anche di sinistra, ma la soluzione rimane tutta e solo politica e come sempre la parola va alle soggettività politiche organizzate in campo, capaci di proporsi come forze di un cambiamento totale radicale, quindi come forze rivoluzionarie.
NOTE
[1] ↑ Per quanto precedentemente esposto si confrontino alcuni articoli di Rossi S., in particolare “Il ruolo delle banche è mutato”, 12 febbraio 2010 , Università di Friburgo , Svizzera, http://www.economiaepolitica.it/index.php/moneta-banca-finanza/il-ruolo-delle-banche-e-mutato/
[2] ↑ Cfr. Martufi R., Vasapollo L., “Profit State, redistribuzione dell’accumulazione e Reddito Sociale Minimo”, casa editrice La Città del Sole, Napoli ,1999, AA.VV., “No/Made Italy Eurobang/due: la multinazionale Italia e i lavoratori nella competizione globale”, Mediaprint- Ediz. Roma, 2001
[3] ↑ Cfr. AA.VV., “No/Made Italy Eurobang/due: la multinazionale Italia e i lavoratori nella competizione globale”, Mediaprint- Ediz. Roma, 2001; Martufi R., Vasapollo L., “EuroBang. La sfida del polo europeo nella competizione globale: inchiesta su lavoro e capitale”, Mediaprint- Ediz. Roma, 2000
[4] ↑ Cfr. Martufi R., Vasapollo L “Le Pensioni a Fondo”, MEDIAPRINT- EDIZ. Roma, 2000, Martufi R., Vasapollo L, “Vizi privati… Senza pubbliche virtù. Lo stato delle privatizzazioni e il Reddito Sociale Minimo”, Mediaprint- Ediz. Roma, 2003, Casadio M., Martufi R., Vasapollo L., Viola F., “La coscienza di Cipputi”, Mediaprint, Roma, 2002
[5] ↑ Cfr. Arriola J. , La banca juega,…y gana” Deja , Iritzia, 13 maggio 2010 e altri suoi articoli sullo stesso giornale nel mese di giugno 2010
Vasapollo L., “La crisi del capitale compendio di Economia Applicata: la mondializzazione capitalista”, Jaca Book, Milano, 2009; approfondimenti su questi argomenti e su molti temi macroeconomici presentati su questo articolo sono presenti sul libro di prossima pubblicazione di Vasapollo L., con la collaborazione di Arriola J. e Rodriguez J.L. , “Percorsi storici della pianificazione socio-economica. Problemi della transizione per il socialismo nel XXI secolo”, in corso di pubblicazione.
[6] ↑ Tratto da Movisol http://www.criticamente.it/globalizzazione/9364-la-crisi-del-debito-sovrano-si-allarga
[7] ↑ Cfr. Casadio M., Petras J., Vasapollo L., Veltmeyer H., “Competizione globale. Imperialismi e movimenti di resistenza”, Jaca Book ediz., ottobre 2004; Casadio M., Petras J., Vasapollo L. “Clash! Scontro tra potenze. La realtà della globalizzazione”, Jaca Book ediz.,Milano, 2004.
[8] ↑ Cfr. Vasapollo L. “Trattato di Economia Applicata. Analisi Critica della Mondializzazione Capitalista”; Jaca Book , Milano, marzo 2007, Martufi R., Vasapollo L., “EuroBang. La sfida del polo europeo nella competizione globale: inchiesta su lavoro e capitale”, Mediaprint- Ediz. Roma, 2000
[9] ↑ Cfr. Arriola J., Vasapollo L. “Crisi o Big Bang?”, Eprint Edizioni, Roma, 2009