Giorgio Gattei in Ballando sul Titanic. Atti del convegno
1.
Nel pieno della Grande Crisi del ‘29 Benito Mussolini s’era chiesto se si fosse in presenza di «una crisi ciclica nel sistema, e sarà risolta», oppure di «una crisi del sistema, ed allora siamo davanti ad un trapasso da un’epoca di civiltà ad un’altra». L’anno dopo aveva risposto che «la crisi è penetrata così profondamente nel sistema che è diventata una crisi del sistema. (Vivi applausi). Non è più un trauma, è una malattia costituzionale. Oggi possiamo affermare che il modo di produzione capitalistico è superato» [1]. Certamente esagerava il duce del Fascismo perchè poi, come s’è visto, il capitalismo non s’è fatto per niente superare e ha perfino sconfitto l’antagonista sovietico. Tuttavia Mussolini in qualcosa aveva detto il giusto, e cioè che con la Grande Crisi sarebbe finita una forma storica di capitalismo, quella che fino ad allora s’era incarnata nell’egemonia della Gran Bretagna (la “perfida Albione” della propaganda). Invero Londra ce l’avrebbe ancora fatta a resistere all’assalto manu militari del nazi-fascismo, ma poi ha dovuto cedere lo scettro del comando (per la forza delle cose economiche, verrebbe da dire) al nuovo pretendente all’egemonia imperialistica: quel supercapitalismo americano che al termine della seconda guerra mondiale si affacciava sulla scena planetaria diversamente strutturato secondo un nuovo regime di “regolazione economica” fatto di produzione di massa (= fordismo) e consumo di massa (= keynesismo) [2].
Anche la Grande Crisi che stiamo vivendo minaccia di seguire il medesimo percorso. Iniziata in sordina nel 2007, s’è platealmente manifestata nel 2008 come crisi finanziaria globale a cui s’è provato a porre rimedio con un deciso intervento pubblico a dimensione smisurata [3] . Se in questo modo banche ed assicurazioni sono state messe al riparo, ciò ha portato in sofferenza il sistema produttivo (la dimensione della disoccupazione è sintomo straordinario del malessere), mostrando come la crisi, piuttosto che una crisi “nel sistema” («e sarà risolta»), assomigli piuttosto ad una crisi del sistema che «segna il trapasso da un’epoca di civiltà ad un’altra». Ovviamente non è però che il modo capitalistico di produzione sia prossimo alla fine come s’immaginava Mussolini, perchè oggi come allora non è affatto in gioco il capitalismo in quanto tale (che, dopo la sconfitta dell’URSS, sembra avere proprio «i secoli contati», come maliziosamente ha scritto Giorgio Ruffolo [4] ), bensì quella sua forma storica a dominanza americana sotto cui abbiamo vissuto dal 1945 in poi.
2.
E’ stato il grande storico economico Fernand Braudel a ricordarci come il modo capitalistico di produzione, nell’invarianza della sostanza di sfruttamento, sia passato finora attraverso tre figure storiche specifiche che sono state, nell’ordine, il capitalismo olandese (di cui abbiamo perso perfino il ricordo), il capitalismo britannico che Marx ha conosciuto e il capitalismo americano che abbiamo visto noi. Ogni volta la nazione capitalistica egemone s’è imposta a livello internazionale come “centro imperialistico” grazie alla straordinaria capacità di produzione e commercio che possedeva, salvo venire sostituita da un’altra nazione economicamente più “giovane” quando all’imperativo della produzione è venuta a sostituirsi la logica della finanza e alla “fatica” dello sfruttamento della manodopera è subentrata la comodità del “far soldi coi soldi”. Infatti «la sorte d’ogni capitalismo dominante è di essere preso negli ingranaggi di una evoluzione… che finisce, a causa del suo stesso successo, per arenarsi sulla soglia di attività o di acrobazie finanziarie» [5] . Ciò è storicamente successo all’Olanda all’inizio del Settecento e alla Gran Bretagna all’inizio del Novecento: in entrambi i casi al prevalere dei “finanzieri” sugli “industriali” è seguita la perdita dell’egemonia imperialista. All’inizio del terzo millennio sono gli Stati Uniti ad essere avviati lungo quella «china delle rendite speculative» la cui «evoluzione complessiva sembra annunciare, con lo stadio del rigoglio finanziario, una sorta di maturità; è il segnale dell’autunno» [6] . In termini marxiani si potrebbe dire che, giunto all’età senile questo o quel capitalismo storico sogna il miracolo del «feticcio automatico D-D’» [7] in cui il danaro vorrebbe valorizzarsi senza passare per il lavoro. Ma non si può, e allora giunge il momento di cedere lo scettro ad un nuovo capitalismo della produzione, come fu la Gran Bretagna rispetto all’Olanda e gli Stati Uniti nei suoi confronti. Ora sono agli Stati Uniti a dover essere soppiantati, ma da chi? Nel proseguire l’analisi storica di lungo periodo che aveva impostato Braudel Giovanni Arrighi, alla fine del suo Lungo XX secolo, aveva suggerito come possibile sostituto il Giappone, ma poi ha dovuto ricredersi ed in Adam Smith a Pechino ha indicato invece il caso, ben più concreto, della Cina “rossa” (qualunque cosa l’aggettivo voglia significare) che, come gli olandesi a cavallo del XVIII secolo, gli inglesi nell’Ottocento e gli americani nel Novecento, ha già preso ad inondare il mondo delle proprie merci più convenientemente prodotte. Ma per arrivare dove?
3.
Si può capire qualcosa di quanto sta avvenendo se si considera la trasformazione che nel tempo ha subito il rapporto internazionale tra il “centro” e la “periferia” [8] . Nel suo “farsi mondo” il capitale seleziona una parte del pianeta quale “nucleo imperiale” attorno al quale viene a ruotare tutto il resto. La selezione si esprime economicamente attraverso la divisione internazionale del lavoro che al tempo di Marx, al tempo di quel primo imperialismo che lui stesso ha descritto nel Capitale, vedeva il “centro” posizionato in Gran Bretagna, perchè luogo privilegiato della produzione di fabbrica, da cui venivano esportati i manufatti verso la “periferia” agricola che dava in cambio le materie prime necessarie all’industrializzazione. Nei fatti era una sorta di colossale baratto internazionale che trasformava «una parte del globo terrestre in campo di produzione prevalentemente agricolo per l’altra parte quale campo di produzione prevalentemente industriale» [9] . Al tempo però della Grande Depressione di fine Ottocento sono venute a mancare al “centro” dell’impero propri le occasioni convenienti di profitto, che invece c’erano in “periferia”. Così i capitali hanno preso ad esservi esportati per costruire nella “periferia” un apparato industriale capace di produrre manufatti da vendersi sullo stesso mercato periferico, mentre i profitti sarebbero stati rimpatriati al “centro”. E’ stato questo il nuovo imperialismo che Lenin ha analizzato e in cui si è consumato il passaggio d’egemonia dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti: La novità stava in questo: che, in aggiunta alla vecchia esportazione di merci, «per il più recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è diventata caratteristica l’esportazione di capitale» [10] o, per meglio dire, dal “centro” non si esportavano «più le merci, ma la stessa produzione di merci» [11].
Oggi però le cose sono ancora cambiate perché, a seguito degli accordi che hanno condotto alla costituzione del WTO (che sono equivalenti per importanza alla leggi sul libero commercio dei grani che vennero introdotte in Inghilterra nel 1848), si è autorizzata l’apertura del mercato del “centro” ai manufatti industriali prodotti dalla “periferia”. L’effetto è stato quello di rovesciare letteralmente la relazione imperialistica commerciale perchè adesso non è più il “centro” bensì la “periferia” ad esportare i manufatti, potendoli produrre a costi straordinariamente più bassi. Di conseguenza viene meno al “centro” la convenienza di produrseli in casa (a meno che non siano manufatti d’eccellenza o “di nicchia”) inducendo a quelle dismissioni e delocalizzazioni che sono ben servite per “spiazzare” le rivendicazioni salariali che avevano afflitto il “centro” nell’ultima stagione della produzione fordista. Così al centro si può anche smettere di produrre, bastando che si accolgano le importazioni (che al tempo delle leggi sul grano erano importazioni di beni agricoli, mentre adesso sono anche di prodotti industriali). E’ stato così che negli Stati Uniti gli interessi della Wal-Mart, la più grande catena di distribuzione commerciale, hanno preso il sopravvento su quelli della General Motors – e la Wal-Mart «è anche in assoluto il maggior cliente della Cina» [12].
Ma come paga il “centro” quei manufatti esteri che acquista senza più dare in cambio le proprie merci? Paga inizialmente con la sua moneta che costituisce la va luta mondiale (dollari nella fattispecie), ma che poi recupera in termini finanziari vendendo titoli di credito propri (i tresaury bonds) che la “periferia” acquista con il ricavato della precedente vendita dei manufatti. La “periferia” restituisce così la moneta ricevuta nello scambio di merci, ma diventando creditrice del “centro”. E’ così che in questo terzo imperialismo (come m’è venuto di chiamarlo) la novità della relazione internazionale consiste in una esportazione di manufatti dalla “periferia” verso il “centro” (e non più dal “centro” alla “periferia”) ed in un indebitamento finanziario del “centro” nei confronti della “periferia” (e non più della “periferia” nei confronti del “centro”).
4.
Questa relazione imperialistica è però anche dinamica, nel senso che si sviluppa nel tempo. In quale direzione si sta muovendo, soprattutto a seguito della Grande Crisi del Debito scatenatasi nel “centro” imperialista dal 2007 in poi? Nell’introduzione al Convegno si è accennato alla questione della composizione di classe ricordando che a seguito della specificità della industrializzazione fordista, che aveva richiesto operai specializzati e lavoro impiegatizio, essa ha cambiato struttura rispetto alla precedente forma a piramide che aveva ai tempi di Marx quando c’erano pochi grandi borghesi, più piccoli borghesi ma soprattutto tanto proletariato miserabile. Col passaggio alla produzione fordista essa ha preso invece la forma di una trottola dove sono ancora pochi i capitalisti, ma poi segue un ampio settore centrale di salariati “fordisti” e ceto medio impiegatizio ad alto livello di consumo ed infine un numero ridotto di lavoratori poveri (per visualizzare l’immagine si pensino due piramidi unite per la base). Nel “centro” imperialistico questa forma di composizione di classe subisce però oggi i colpi della deindustrializzazione/delocalizzazione post-fordista che colpiscono il lavoro, costringendo i salariati e gli impiegati “fordisti” ad ascendere (se ci riescono) al gradino sociale superiore della “aristocrazia salariata” oppure, se falliscono, a precipitare nella “moltitudine” crescente dei lavoratori precarizzati, decontratualizzati od espulsi dal processo di produzione [13]. La composizione di classe viene così ad assumere una forma a clessidra, geometricamente visualizzabile come due piramidi, di dimensioni diseguali e con la più grande in basso, che sono unite per la punta [14].
Tuttavia in quella “periferia” pesantemente coinvolta nel processo d’industrializzazione fordista dalle modalità del “terzo imperialismo”, si sta appena uscendo dalla composizione di classe a piramide. Quando le Zone Economiche Speciali, inaugurate da Deng Xiaoping nel 1978, sono riuscite ad attirare in Cina i capitali stranieri per svilupparvi la produzione più conveniente di manufatti per l’esportazione negli Stati Uniti e in Europa, l’economia globalizzata si è ristrutturata «secondo una divisione internazionale del lavoro assurda: le aziende dell’Ovest (che) producono a costi stracciati in Oriente ciò che consumano i mercati occidentali» [15]. In effetti non si trattava di una divisione del lavoro per niente “assurda”, rispondendo alle necessità di convenienza economica del rapporto imperialistico di quel momento. Essa però richiedeva il pendant di una manodopera adeguata che è stata richiamata nelle “città-fabbrica” della costa del Pacifico dalle campagne interne dando luogo «alla più grande migrazione nella storia dell’umanità» [16] (si parla dello spostamento di 200 milioni di persone). Masse di contadini sono così stati coinvolti in un processo d’industrializzazione forzata che ha dato alla composizione di classe una forma a trottola, con la fascia centrale di operai salariati e nuovi ceti medi geograficamente posizionata in quelle città costiere che seguono un modello di sviluppo che gli economisti definiscono “trainato dalle esportazioni” (export-led) [17].
Però la crisi finanziaria ed economica di cui soffre l’Occidente sta costringendo il governo di Pechino a cambiare il proprio modello di sviluppo per aggirare il rischio di una caduta delle esportazioni. Si è decisamente puntato alla sostituzione della domanda estera per i propri manufatti con una domanda interna mediante un corposo programma di stimoli economici [18], con l’introduzione di una nuova legislazione del lavoro più favorevole agli operai [19], mentre alcune proteste di fabbrica amplificate dalla stampa (alla Foxconn e alla Honda) si sono risolte con l’esempio che è possibile che i salari addirittura raddoppino (ma il livello di partenza era miserabile) [20]. Eppure il maggior costo del lavoro non sembra suscitare preoccupazione perchè lo si intende più che compensare con le maggiori vendite interne sostenute dal più alto potere d’acquisto guadagnato dalla popolazione, soprattutto metropolitana. In risposta alla crisi finanziaria si è quindi proceduto a sostenere la domanda di consumo interno con una politica mirata all’aumento del reddito della fascia centrale della composizione di classe “a trottola” che verrebbe generalizzata a tutto il paese. La conseguenza è quello di richiamare verso il mercato nazionale le produzioni manifatturiere costiere distogliendole dalla necessità dell’esportazione verso il mercato del “centro” imperialista. Ed in prospettiva si può pensare che ciò possa portare al passaggio anche della Cina “rossa” da paese produttore export-led a mercato “ad alto consumo interno”, come già sono i mercati americano ed europeo, a quello stadio del consumo di massa che Walt Rostow ha indicato come il punto terminale della crescita capitalistica fordista [21].
Però questa maggior produzione di manufatti in “periferia”, necessaria a soddisfare un proprio mercato interno in crescita, richiede l’approvvigionamento delle materie prime prodotte dalla “periferia” stessa, che verrebbero deviate dalla precedente destinazione verso il “centro” imperialista, come già stanno ad indicare gli accordi commerciali particolari della Cina nel continente africano ed in America Latina. In una prospettiva estrema si può immaginare che la “periferia”, forte di una produzione di manufatti per il suo mercato interno e rifornita di materie prime dalla “periferia” stessa, possa abbandonare la propria dipendenza dal “centro” imperialista per costituirsi come luogo di produzione e smercio autosufficiente con un rovesciamento di fronte che relegherebbe il vecchio “centro” imperialistico alla periferia della storia. Resterebbe ancora la dipendenza finanziaria dalla moneta e dai titoli di credito degli Stati Uniti (il dollaro e i treasury bonds). Ma non è difficile immaginare che la “periferia”, mediante una accorta strategia di mancato rinnovo dei titoli alla scadenza e di utilizzo della moneta incassata dal “centro” per acquistare oro, possa arrivare a dare una tale consistenza alle proprie riserve di moneta, addirittura metallica, da fare di una valuta periferica come lo yuan il nuovo denaro mondiale.
Sarebbe così realizzata la profezia espressa all’alba del Novecento da John Hobson, primo studioso del “nuovo (ma non ultimo) imperialismo”, secondo cui la Cina avrebbe potuto finire per «rovesciare i termini del rapporto con le nazioni industriali dell’Occidente e impiegando i capitali e gli organizzatori di queste nazioni – o più probabilmente sostituendovi i propri – inondare i loro mercati con i suoi manufatti a buon mercato, rifiutare le loro esportazioni esigendo di essere pagata mediante la concessione di privilegi sul loro capitale ed invertire così il precedente processo d’investimento fino ad assicurarsi gradualmente il controllo finanziario dei suoi ex-padroni e civilizzatori» [22].
NOTE
[1] ↑ Cfr. G. GATTEI e C. MINGARDI, Crisi nel sistema o crisi del sistema? Gli economisti italiani leggono la Grande Crisi (1929-1934), “Società e storia”, 1993, n. 59, p. 112.
[2] ↑ Cfr. R. BOYER, Fordismo e post-fordismo. Il pensiero regolazionista, Università Bocconi Editrice, Milano, 2007.
[3] ↑ Cfr. A. BURGIO, Senza democrazia, Un’analisi della crisi, DeriveApprodi, Roma, 2009
[4] ↑ G. RUFFOLO, Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino, 2009.
[5] ↑ F. BRAUDEL, I tempi del mondo, Einaudi, Torino, 1982, p. 255.
[7] ↑ K. MARX, Il capitale. Libro terzo, Editori Riuniti, Roma, 1965, p. 464.
[8] ↑ Cfr. G. GATTEI, Tre maniere dell’imperialismo, in L. VASAPOLLO (a cura di), Il piano inclinato del capitale, Jaca Book, Milano, 2003, pp. 207-218.
[9] ↑ K. MARX, Il capitale. Libro primo, Editori Riuniti, Roma, 1964, p. 496.
[10] ↑ V. I. LENIN, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma, 1964, p. 99
[11] ↑ R. HILFERDING, Il capitale finanziario, Feltrinelli, Milano, 1961, p. 406
[12] ↑ G. ARRIGHI, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 339.
[13] ↑ Cfr. M. GAGGI e E. NARDUZZI, La fine del ceto medio, Einaudi, Torino, 2006.
[14] ↑ Cfr. G. GATTEI, La “piramide, la “trottola”, la “clessidra: tre figure di composizione di classe, in L’Europa superpotenza. I comunisti, la democrazia e l’Europa, Quaderni di Contropiano per la Rete dei comunisti, Roma, 2005, pp. 59-82.
[15] ↑ L. NAPOLEONI, Maonomics, Rizzoli, Milano, 2010, p. 48.
[17] ↑ Cfr. B. BORRETTI, L’attualità della Cina tra riforme economiche e nuova composizione di classe, “Proteo”, 2008, n. 2
[18] ↑ A. GABRIELE, La risposta della Cina alla crisi globale del capitalismo, “L’Ernesto”, 2008, n. 6
[19] ↑ M. GRAZIOSI, Cina: alla ricerca di nuovi diritti del lavoro, “L’Ernesto”, 2008, n. 1.
[20] ↑ G. VISETTI, Lo sciopero dell’operaio cinese, “La Repubblica”, 1.6.2010
[21] ↑ W. ROSTOW, Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino, 1962.
[22] ↑ J. HOBSON, cit. in T. KEMP, Teorie dell’imperialismo, Einaudi, Torino, 1969, p. 78.
CREDITS
Immagine in evidenza: Battaglia tra l’esercito britannico e quello dei Sikh, forse Sobraon
Autore: sconosciuto, 1904
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