Franco Russo (in Contropiano anno 23 n° 1 – febbraio 2014)
Il mio non è un ringraziamento formale, che pure è doveroso, per l’invito a partecipare ai lavori di questo convegno. Tanto non è formale che proporrei di organizzare un Forum permanente sull’Unione Europea e delle alternative da costruire perché, così facendo, daremmo effettivamente una continuità a quella che è una nostra necessità: riflettere sulle vicende UE e rilanciare un processo di lotte, di rivendicazioni, di conflitti a livello continentale. Per questo vi sottopongo alcune questioni, naturalmente nello spirito del confronto e assolutamente pronto a rivedere le mie idee. Tratterò dunque di alcune questioni già sollevate e trarrò una possibile conclusione politica.
La prima di tali questioni è relativa a un’affermazione di Luciano Vasapollo sull’aristocrazia operaia. Vorrei richiamare la vostra attenzione su questo punto perché è sicuramente vero che sia nella Prima guerra mondiale, sia in questa fase storica, si verificano dei fenomeni di aristocrazia operaia, per cui una parte del proletariato inglese e tedesco usufruiva e usufruisce dei benefici delle politiche di potenza e di capacità produttiva dei rispettivi paesi. Però vorrei sottolineare che l’aristocrazia operaia non è un dato sociale spontaneo, quanto piuttosto una pratica sociale e politica che risponde al nome della socialdemocrazia e dei sindacati che hanno fatto della pratica della redistribuzione di alcuni benefici una pratica consapevole. Vorrei anche ricordare che dopo la tragedia della Prima guerra mondiale quella che si riteneva essere l’espressione massima dell’aristocrazia, cioè quella tedesca, fu in grado di mettere in moto conflitti rivoluzionari con le esperienze consiliari che hanno segnato la Repubblica di Weimar. Non è vero che ci sono dei processi spontanei per cui effettivamente milioni di persone si alleano col capitalismo: tale alleanza è il risultato di una scelta politica guidata dai sindacati e dai partiti socialdemocratici. Per cui credo che la vicenda dell’aristocrazia operaia oggi vada studiata e analizzata più approfonditamente.
A tal proposito vorrei esporvi la seguente tesi: se oggi nella Unione Europea non ci sono quei conflitti di natura continentale che avrebbero dovuto accompagnare gli scioperi generali della Grecia, della Spagna e del Portogallo, ciò è dovuto alla presenza di un’organizzazione sindacale europea la CES (Cofederazione Europea dei Sindacati, in inglese ETUC, European Trade Union Confederation, nata nel 1973), le cui organizzazioni afferenti hanno scientemente fatto in modo di mantenere la pace sociale in Europa. Che ciò sia vero non solo per il nostro Paese, lo dimostra il caso specifico tedesco. Infatti, in Germania non c’è oggi un’aristocrazia operaia, così come non c’è la presunta contrapposizione tra i ricchissimi operai tedeschi e gli affamati e poveri operai greci. Non metto in discussione che ci siano delle differenze relative, ma vorrei richiamare la vostra attenzione su due fatti.
Il primo è la vicenda del salario-orario, su cui si è svolta la trattativa tra la socialdemocrazia e la cancelliera Merkel per portare a 8,50 euro la paga oraria minima. Leggo una tabella pubblicata il 14 novembre scorso su Die Zeit, settimanale che, pur essendo socialdemocratico, è contrario all’unificazione del minimo orario salariale in Germania, perché ciò ne metterebbe in crisi la competitività. La tabella ci dice che il 37% delle aziende che occupano fra 1 e 4 operai ha una paga oraria di 4,50 euro. Le aziende che hanno fra i 5 e i 10 operai, e sono il 32% di questa categoria, hanno una paga oraria di 6 euro orari e le aziende tra l’1 e 19 persone, quindi aziende piccole ma già consistenti, e sono il 27% di questa categoria, hanno una paga oraria di un terzo netto meno dell’8,5 %, cioè 6/6,50 euro.
Più si sale nelle fasce delle aziende forti, con più operai, e meno è presente il problema dell’adeguamento del salario orario agli 8,50 euro. Anche se, bisogna dirlo, c’è una parte, circa l’8-10% delle aziende che ha più di 2000 operai, che dovrebbe comunque adeguare la paga al minimo indicato. Si tratta dunque di operai che percepiscono tra i 5 e gli 8 euro orari come stipendio. Possiamo parlare di aristocrazia operaia senz’altra specificazione? Certo, in Germania si è messo in atto un patto corporativo tra padroni e sindacati (e quindi anche tra operai), con il quale si sono salvati fondamentalmente e semplicemente i livelli di occupazione, ma non i livelli salariali, tanto è vero che è proprio sull’arretramento rispetto alla produttività del salario che la competitività delle aziende tedesche è andata avanti. E la testimonianza di questo si ha in questo: mentre per esempio in Italia e nei Paesi cosiddetti PIGS la flessibilità del lavoro ha colpito soprattutto i livelli occupazionali, in Germania si è affermata quello che i giuristi del lavoro, come Maria Teresa Carinci, denominano una flessibilità nel rapporto di lavoro. Che cosa è dunque successo ad esempio alla Siemens e alla Volkswagen? Semplicemente c’è stata la riduzione dell’orario di lavoro con la conseguente riduzione del salario, sino a certi livelli. Ne viene che i padroni tedeschi hanno conservato la forza lavoro, professionalizzata, hanno ridotto gli orari di lavoro, hanno ridotto i salari e poi hanno assorbito come una spugna questa riserva di forze lavoro interne alle aziende, per cui, quando serviva aumentare i livelli di produzione, loro non dovevano ricorrere al mercato esterno all’azienda ma al mercato interno. Dunque i giorni lavorativi, che per esempio erano stati ridotti a 4, vengono ora riportati 7. Appare chiaro che pure in Germania si sono applicate formule di flessibilità, pur dentro il monte orario di lavoro. Per non parlare poi della vicenda dei “mini job”, che interessano 4 o 5 milioni di lavoratori in Germania. Con questo voglio dire che il lavoratore tedesco è pagato come quello italiano o quello greco? No, voglio semplicemente mettere in dubbio la presenza di un’omogenea aristocrazia operaia a livello europeo, evidenziando la peculiarità di una politica sindacale corporativa che, con il consenso dei lavoratori, ha stipulato specifici accordi con gli imprenditori.
Quindi il problema – è il secondo punto che vorrei toccare – è che nel nostro continente abbiamo bisogno di ricostruire un sindacalismo di classe a livello dell’Unione Europea. Un sindacalismo di classe che in questo momento non c’è, come non c’è nel nostro Paese, perché la CES, in virtù dei famosi articoli, 152-156, 152 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, garante del cosiddetto dialogo sociale, ha sacrificato le condizioni di lavoro di milioni e milioni di persone per difendere il proprio status di soggetto contrattuale legittimato dai padroni e dall’UE. La stessa vicenda che si vive in Italia con CGIL-CISL-UIL. Che cosa facciamo per costruire un sindacalismo di classe e democratico nel nostro Paese e in Europa? Che si possa fare è testimoniato, lo dico non per demagogia, da quanto è successo a Taranto in questi giorni con la strepitosa vittoria dell’USB, dopo due anni di mobilitazioni intorno alle vicende dell’Ilva. Con questo non voglio dire che si stia già aprendo la via al sindacalismo nuovo nel nostro continente, quanto piuttosto che si pone la domanda fondamentale di un sindacalismo democratico e conflittuale in grado di contribuire alla formazione di un’organizzazione nuova a livello europeo.
Terza questione. Esiste davvero uno scontro tra borghesie europee? Certo, verrebbe da dire, c’è lo scontro tra la borghesia greca e la borghesia tedesca. Ma si tratta di vera lotta, oppure noi stiamo assistendo a un processo di unificazione delle borghesie europee? Io penso che l’Unione Europea sia proprio l’espressione di questa tendenziale unificazione, per quanto ovviamente nulla è nella storia politica e sociale immediatamente già dato. Penso che l’Unione Europea da cinquanta anni a questa parte, soprattutto in questa fase, abbia rappresentato gli interessi unitari, dove per unitari s’intende che essa ha mediato, tra l’agricoltura e l’industria ecc., componendo gli interessi delle diverse borghesie nazionali. E vorrei citarvi solo due fatti a dimostrazione di questa affermazione. Negli ultimi anni, nell’ultimo decennio sicuramente, c’è stata una riorganizzazione delle filiere produttive con una nuova redistribuzione geografica delle produzioni. In questo processo la Germania, ovviamente, ha giocato il ruolo di capofila. Intorno al blocco industriale tedesco non si muove solo l’industria tedesca ma anche le industrie di tutti i Paesi – chiamiamoli così – periferici. Si configura così un’area che va dall’Emilia Romagna alla Romania, dal Belgio a un pezzo della Francia che ruota intorno alla Germania. E su questo mi consento di smentire l’economista Vasapollo: le industrie legate a questi settori tedeschi non sono industrie arretrate. Non è vero che l’industria italiana sia arretrata e che nella divisione internazionale del lavoro essa è posta nei livelli bassi: non è vero affatto, perché le industrie farmaceutiche, metalmeccaniche, ingegneristiche italiane sono legate al blocco tedesco e sono industrie altamente avanzate. Io credo che noi faremo molto bene a riflettere, non per condividere le posizioni di Marco Fortis, sulle sue ricerche sulla distribuzione delle produzioni e sulle filiere produttive in Europa perché appunto in Europa si sono riorganizzate le produzioni di merci e servizi intorno alla Germania. In questo blocco produttivo che ruota intorno alla Germania c’è l’unificazione tendenziale delle borghesie europee, perché tutti concorrono alla competitività tedesca. Tanto è vero che la Germania, quando è stata accusata dalla Banca federale americana di squilibrare, attraverso il suo surplus produttivo, la bilancia degli scambi produttivi internazionali, essa ha risposto che il proprio livello dell’esportazioni verso l’Europa eguaglia quello delle importazioni. Le importazioni della Germania dall’Unione Europea sono molto alte. Infatti nelle filiere produttive sovranazionali si scambiano beni non-finiti o servizi che rientrano nelle statistiche export-import, ma sono scambi tra industrie finalizzate alla produzione di un singolo bene attraverso dislocazione di siti produttivi in differenti paesi. La seconda controprova, più politica, viene da quanto emerso dall’incontro svoltosi a Bolzano fra la Confindustria italiana e la BDI, la confindustria tedesca, il 21 ottobre 2013: nel comunicato finale, stilato da Squinzi e da Ulrich Grillo, il presidente della BDI, si afferma: «Il rafforzamento delle catene del valore industriale è una questione chiave per migliorare la competitività europea. […] L’industria europea e la sua competitività devono essere poste al centro del processo decisionale europeo ed è necessario un approccio globale e integrato». E infatti le ‘confindustrie’ nazionali e quella sita a Bruxelles, la ERT (European Round Table of Industrialists), stanno puntando a far divenire il manifatturiero il centro della ripresa economica nel nostro continente. Da che deduco che non ci sia questa grossa divaricazione di interesse fra le borghesie europee e, d’altro canto, l’Unione Europea non starebbe in piedi se le borghesie non avessero degli interessi comuni.
La quarta considerazione è relativa invece a quello che ha detto Andrea Ricci circa la costituzione a “cerchi concentrici” dell’Europa: un cerchio concentrico dovrebbe essere costituito dai 27 paesi della Unione Europea, un altro dai 17 paesi dell’euro.
Proverò a confutare questa affermazione.
La teoria dei cerchi concentrici poteva essere vera fino al 2009, cioè fino al Trattato di Lisbona. Come hanno affrontato la crisi la Banca centrale, la Commissione europea e le borghesie europee? Modificando radicalmente il meccanismo di funzionamento dell’Unione Europea. E come l’hanno modificato? L’hanno modificato concentrando i poteri nella Commissione, nel Consiglio dei Ministri e nella Banca centrale europea.
Non mi dilungo su questo perché come Ross@ abbiamo prodotto molti documenti e volantini sull’argomento. Tuttavia sono assolutamente persuaso che dobbiamo affermare oggi di essere in presenza di un potere oligarchico nella Unione Europea dovuto alle nuove procedure che sono state sintetizzate nei famosi six-pack, two-pack e nel Fiscal compact che, al di là di questi nomi astrusi, sono semplicemente sette regolamenti, una direttiva e un trattato internazionale: essi hanno consentito di concentrare il potere decisionale sulle politiche pubbliche a Bruxelles. Basta seguire l’andamento dell’ultima legge di stabilità italiana in cui il governo italiano è stato costretto sulla base di queste procedure a inviare la legge di stabilità il 15 ottobre alla Commissione europea, la quale ha detto un nì a questa legge di stabilità. Il governo ha di conseguenza annunciato privatizzazioni e spending review, nuove semplificazioni amministrative per ottenere un via libera dall’Eurogruppo, riunitosi il 22 di novembre, pur non concedendole molti spazi di manovra. Non vi è più il potere dei parlamenti, nazionale o europeo; essi non decidono le politiche fiscali che, ricordo sempre, sono sempre state alla base delle rivoluzioni borghesi. Le rivoluzioni borghesi hanno sottratto al re assoluto il potere decisionale su entrate e spese pubbliche, assegnandolo al parlamento, rappresentanza degli stakeholder, per usare una parola moderna, cioè la borghesia che paga le tasse ed è interessata allo sviluppo economico attraverso le misure fiscali. Ne segue che è più facile dimostrare la presenza in Europa di un’oligarchia piuttosto che una diversificazione o di un conflitto ai vertici. Inoltre non è vero che l’Europa oggi produca delle spinte progressive, non lo fa più in nessun campo.
Nonostante gli interventi sulla parità uomodonna, sull’orario di lavoro e sul tempo determinato, dove l’Europa è intervenuta per sostenere alcune richieste dei lavoratori, oggi non è più possibile sostenere che questo ruolo progressivo è attivo ancora. Oggi il mantra dell’UE è consolidamento fiscale, tagli alle spese pubbliche, riforme strutturali (flessibilità del lavoro, tagli alle pensioni sociali e innalzamento dell’età pensionabile). Non si assiste più a nessuna contraddizione fra mercato e Europa sociale. Ha ragione Sergio Cararo quando dice che il cosiddetto modello europeo sociale, se mai è esistito, non c’è più e quindi non c’è più neanche questo doppio cerchio concentrico.
Concludo con due affermazioni.
Noi abbiamo sempre discusso se l’euro fosse più o meno forte, se stesse per crollare o meno. Luciano Vasapollo ieri, ma a anche nei suoi libri, ha fornito su questo punto un contributo che io vorrei interpretare così. Egli ha sempre sostenuto che l’euro è una moneta forte messa in campo non solo per rispondere alla crisi del dollaro cominciata nel ’71 con la inconvertibilità, ma anche e soprattutto per unificare il mercato europeo in virtù della sicurezza della moneta, della sua stabilità. Senza moneta stabile non si ha possibilità di ampliamento e approfondimento degli scambi in un’area economica. Oggi l’euro è di nuovo saldo. Ed è saldo in quanto esprime un progetto politico, e vorrei che ci si intendesse bene su tale affermazione. L’euro è stato in crisi per molti mesi e poi ne è uscito. Ma ciò è avvenuto grazie alla sua natura di progetto politico. Per progetto politico qui intendo una volontà politica delle borghesie europee. A tal proposito vorrei leggervi un’affermazione fatta da Mario Draghi, in una sua conferenza tenuta negli Stati Uniti il 9 ottobre del 2013: «In the dark days of the crisis, many commentators on this side of the Atlantic looked at the euro area and were convinced it would fail» («Nei giorni bui della crisi molti commentatori da questa parte dell’Atlantico – cioè degli Stati Uniti – guardavano all’area dell’euro ed erano convinti che l’euro sarebbe fallito»). E, continua Draghi, come al solito con frasi molto secche: «they were wrong», cioè «hanno sbagliato». «They were wrong in their medium term macro view» («Hanno sbagliato nella loro vista di medio periodo»), perché l’euro è molto forte e soprattutto perché – continua Draghi – c’è un un impegno (committment) delle classi dirigenti europee a sostenere l’euro («They had underestimated the depth of Europeans’ commitment to the euro»). Quindi noi, se vogliamo sconfiggere l’euro, dobbiamo sconfiggere il progetto politico dell’euro. Non ci possiamo aspettare che una crisi spontanea dell’euro lo metta fuori gioco; se vogliamo sconfiggere l’euro dobbiamo avere un progetto politico di sconfitta dell’euro.
Perché non mi convince la proposta della fuoriuscita dall’Unione Europea? Perché, se fatta a livello di singolo Paese, sarebbe semplicemente un’uscita sovranista. Io penso che sia molto giusto invece lavorare per rompere l’euro, per rompere l’Unione Europea, perché questo implica appunto un processo in cui deve essere coinvolta la classe operaia di tutti gli altri paesi; occorre coinvolgerla nel progetto di costruzione dell’altro sindacalismo e di una proposta politica sovranazionale. È per questa ragione che non mi pongo il problema, ed evito persino di discuterne, dei possibili danni provocati dall’uscita dall’euro, perché il punto è che se noi vogliamo rispondere alla globalizzazione, al potere globalizzato della borghesia, noi dobbiamo avere un progetto sovranazionale che parta con la prospettiva immediata di rompere l’Unione Europea per rompere l’euro.
CREDITS
Immagine in evidenza: Madrid, marcia di solidarietà con il popolo greco
Autore: Adolfo Lujan; 5 luglio 2015
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Immagine originale ridimensionata e ritagliata