Alessandro Avvisato in Contropiano numero 0 – 2 Aprile 1993
Il conflitto monetario del settembre ’92, ha cambiato radicalmente il quadro di riferimento della politica economica italiana ed europea. Tale mutamento va inquadrato in una generale ridefinizione delle basi economiche e monetarie internazionali.
Il Governo Amato e la Banca d’Italia, cercano di nascondere il carattere antioperaio della loro politica economica dietro lo schermo della riduzione del debito pubblico ed il suo adeguamento al livello previsto dagli accordi di Maastricht, cioè il 60% del Prodotto Interno Lordo..
In realtà già Carli era riuscito ad ottenere una deroga per l’Italia che consentiva il rapporto debito/PIL all’80%.
“La credibilità internazionale dell’Italia” secondo Amato, Ciampi e Barucci, sta dentro il rientro del debito pubblico. Tant’è che per legare sempre di più la politica economica interna alle decisioni sovranazionali imposte da Maastricht, hanno vincolato le prospettive dell’economia ricorrendo ad un prestito internazionale coordinato dalla CEE. Un altro cappio al collo ed un altro, ignobile, ricatto contro le esigenze dei lavoratori italiani.
Ma questo progetto è entrato in collisione con la recessione economica mondiale, dovuta, al di là di ogni semplificazione, ad una crisi di sovrapproduzione non risolta nelle economie dei maggiori paesi capitalisti.
La famosa “ripresa dell’economia mondiale, più volte annunciata, non si è ancora verificata. A tutt’oggi neanche il nuovo corso di Clinton (quella “Clintonite” che affascina anche parte della sinistra) appare capace di portare fuori da questa crisi la maggiore economia capitalista del mondo, gli Stati Uniti.
Le previsioni sulla ripresa, infatti, non si basano su alcuna nuova fonte di domanda effettiva (né di beni capitali, né di beni di consumo) ma si sono rivelate come un artificio propagandistico teso a giustificare le feroci politiche antinflazionistiche dei governi e i sacrifici imposti ai lavoratori.
La situazione di crisi latente è stata poi fatta deflagrare dalla divaricazione tra la politica monetaria tedesca e quella statunitense (è saltata la concertazione monetaria siglata all’Hotel Plaza nell’85), un fattore questo che molti osservatori finanziari ritengono sia stato l’elemento scatenante della crisi del Sistema Monetario Europeo (SME), e del Trattato di Maastricht e ‘il fattore determinante dell’Europa “a due velocità” sollecitata dalla Bundesbank.
La rigida politica monetaria della Bundesbank, rispondeva però anche a esigenze interne: 1) rastrellare capitali per finanziare l’annessione della ex RDT rivelatasi più dispendiosa del previsto; 2) bloccare la dinamica dei salari e dei prezzi in Germania dopo gli aumenti degli ultimi due anni.
Per affrontare la guerra valutaria e difendere una impossibile parità nel cambio lira/marco, il Governo Amato e la Banca d’Italia hanno bruciato 34.000 miliardi di lire in pochi giorni. Ma la svalutazione c’è stata, l’obiettivo è fallito ed i soldi sono stati buttati.
Del resto era del tutto assurdo, dopo aver varato la libera circolazione dei capitali, pretendere il mantenimento del sistema a cambi fssi previsto dallo SME.
Ma i segnali di crisi erano visibili ancora prima della guerra monetaria di settembre. Il calo degli ordinativi riguardava da mesi tutti i settori principali dell’industria italiana. le banche avevano congelato o rinviato i programmi di investimento avviando le procedure di licenziamento per migliaia di lavoratori.
Il PIL dell’Italia alla fine del 1992, è cresciuto solo dell’ 1,2 rispetto alla media dell’1,7 dei paesi OCSE.
E’ il tasso di crescita più basso degli ultimi dieci anni. Un dato analogo è riscontrabile nel biennio 1982-1983, ma allora il debito pubblico era pari al 67% mentre oggi è arrivato al 112%.
Nel suo ultimo rapporto, l’OCSE sostiene che “dalla fine della guerra, per l’Italia la posta in gioco non è mai stata così alta”.
Conferma che il PIL italiano nel 1993 crescerà solo dello 0,8%; la produzione crescerà solo dell’1,1%; l’inflazione salirà al 6% e la disoccupazione all’ 11,3% (Rapporto OCSE, Dicembre 1992).
E’ importante sottolineare come ancora prima dell’ignobile accordo del 31 Luglio, i salari operai avevano cominciato a perdere terreno.
Tra i primi due mesi dell’anno e il Luglio ’92, i salari erano scesi del 3% e il costo del lavoro era diminuito dal 6,6 del 1991 al 2 dei primi sei mesi del 1992.
A peggiorare questa situazione contribuisce il fatto che gli effetti dell’accordo del 31 Luglio sono già stati del tutto vanificati dalla convergenza tra la stagnazione produttiva, gli alti tassi di interesse e l’aumento della pressione fiscale che hanno congelato la domanda e reso inservibili (dal punto di vista padronale) i sacrifici imposti ai lavoratori da governo, imprenditori e CGIL CISL UIL.
Ma occorre smascherare anche l’altra mistificazione, quella sul debito pubblico, che governo, padroni e Banca d’Italia usano come una clava contro gli interessi operai.
Non è infatti l’elevato debito pubblico la causa della debolezza del cosiddetto “sistema Italia” nelle relazioni economiche internazionali. (tab. 1)
1993 | 1994 | 1995 | |
Debito pubblico | 1.806.764 | 1.927.702 | 2.010.180 |
Prodotto interno lordo | 1.612.907 | 1.708.068 | 1.795.180 |
Rapporto debito/pil | 112 % | 112,9 % | 112 % |
Esistono paesi come il Belgio che ha un debito pubblico più elevato di quello italiano ma che è rimasto saldamente ancorato al marco (e dunque all’Europa di “serie A”), mentre altri con un debito pubblico minore dell’Italia, come Gran Bretagna e Spagna, sono stati comunque costretti a svalutare ed a subire il nuovo equilibrio economico/monetario europeo.
Osservando questi dati (anche se si tratta di previsioni ripropongono in modo attendibile la tendenza) emerge chiaramente come sia il pagamento degli interessi sul debito a provocare il famoso deficit pubblico e non la spesa sociale.
Con l’attuale livello di debito pubblico, questa ipoteca continuerà a pesare e condizionare sia il deficit sia il carattere della spesa sociale.
E’ dunque la rendita parassitaria (BOT, CCT, BPT, ecc.) a sottrarre ricchezze e risorse ai lavoratori e all’economia del paese. (tab. 2) Senza il pagamento degli interessi sul debito, il bilancio sarebbe in attivo. Questo obiettivo, tra l’altro, sarebbe già stato raggiunto nel 1990 come segnalava Reichlin in un lucido esame apparso sull’Unità del Novembre ’90.
RADIOGRAFIA DEL DEBITO PUBBLICO ITALIANO ( IN MILIARDI )
1993 | 1994 | 1995 | |
Entrate statali | 785.334 | 844.974 | 911.462 |
Spesa pubblica escluso il pagamento degli interessi sul debito | 737.051 | 796.825 | 795.013 |
Saldo operazioni finanziarie | 3.849 | 11.349 | 8.035 |
Avanzo primario (entrate meno la spesa pubblica senza il pagamento degli interessi più il saldo operazioni finanziarie) | 52.132 | 86.489 | 124.484 |
Spese per il pagamento degli interessi sul debito pubblico | 203.270 | 207.427 | 207.622 |
Ma a rendere più vergognosa la mistificazione del “rientro del debito pubblico” come obiettivo del governo, fino a portarlo all’80% del PIL (e non al 60% come previsto dagli accordi di Maastricht), vi è il fatto che tale rientro sarebbe possibile in 35 anni cioè nel 2030 secondo la tabella di marcia indicata da Amato.
“Una valutazione realistica dell’evoluzione dello scenario macroeconomico, mostra quindi che la manovra triennale impostata dal governo Amato non sembra in grado di fornire al paese in cambio dei sacrifici richiesti una credibile prospettiva di rientro del debito pubblico” sottolinea un rapporto degli economisti del CLES (“Economia italiana e debito pubblico, Dicembre 1992).
Paradigmatico di questa gigantesca rapina da parte della rendita finanziaria (tramite lo Stato) verso i lavoratori e i salari, è l’organizzazione del prelievo fiscale.
Il carattere antioperaio dell’organizzazione fiscale
La macchina fiscale, che va assumendo sempre più aspetto coercitivo ( il Ministero delle Finanze appare sempre più come il ” Grande Fratello ” ed a digerirlo è stato chiamato un’ex dirigente dell’INPS soprannominato embleticamente “Orwell”), da un lato alimenta questo rapporto di rapina tra rendita e salari, tutelando la prima e falcidiando i secondi, dall’altro si manifesta come un ulteriore incentivo inflazionistico.
Secondo l’economista Giulio Tremonti, l’aumento delle tasse indirette (IVA, bolli, ecc.) ha contribuito pesantemente a determinare il tasso di inflazione. nel 1991 hanno pesato per l’1,2% portando l’inflazione al 6,2% invece che al 5% che sembrava possibile.
La stessa OCSE aveva denunciato nel 1991, che la pressione fiscale in Italia, pari al 39,5% del PIL, era tra le più alte in Europa.
Uno studio della Banca d’Italia rileva come con l’introduzione dell’IRPEF il prelievo fiscale sui salari sia passato dal 33,9% del 1974 per i lavoratori con carichi di famiglia al 42,1%, mentre per i lavoratori senza carichi familiari sia passato dal 32,1% al 48,7%.
Le tasse sui salari sono dunque state sempre superiori alla media della pressione fiscale sul complesso dell’economia italiana.
Ma nel 1992, il trend è peggiorato ancora. Secondo il rapporto del CLES, nel 1992 tasse, imposte e contributi si sono appropriati del 48,3% della ricchezza prodotta nel paese, con punte del prelievo superiori al 50% nelle regioni del Centro Nord e un pò più basse nel Meridione. Il fisco ha ridotto il potere d’acquisto delle famiglie del 2% nell’anno appena trascorso.
Secondo Tremonti “Per la prima volta stiamo pagando di più ma contemporaneamente stanno diminuendo spesa pubblica e prestazioni statali” (Corriere della Sera, 17 Dicembre 1992).
Questo rapporto tra prelievo statale sui salari e riduzione della spesa pubblica, ha sgretolato del tutto il “patto” tra Stato e lavoratori. Questi ultimi continuano ad essere espropriati di parte dei loro salari attraverso crescenti contributi diretti e indiretti, ma la quota di servizi sociali che lo Stato restituisce è sempre più ridotta (ormai l’unico “servizio gratuito” è il 113).
L’introduzione dei tickets e dei “servizi a domanda individuale” costringe da tempo i lavoratori a pagarsi i servizi due volte: prima in busta paga e poi agli sportelli delle USL, degli uffici postali, delle esattorie comunali.
La politica di privatizzazione dei servizi (particolarmente scandalose le leggi delega su sanità e pensioni) trasforma il diritto alla salute e alla previdenza sociale in una opzione individuale che ogni singolo lavoratore dovrà garantirsi per proprio conto arricchendo le società assicuratrici e le mutue private.
Nello stesso modo l’introduzione di nuove tasse su beni come la casa (ISI e ICI) e sui servizi comunali (ISCOM) aggravano la rapina fiscale sui redditi familiari e dei lavoratori.
Questa spoliazione sistematica dei redditi non andrà a finanziare le necessità della spesa sociale ma servirà a pagare gli interessi accumulati sul debito pubblico. In sostanza i salari e il lavoro serviranno ancora ad arricchire i possessori di rendite (BOT,CCT, ecc.) e non a garantire servizi migliori per la popolazione.
Ma la ripartizione del possesso dei titoli di stato è estremamente indicativa di questo trasferimento di ricchezza da un settore ad un altro della società.
Circa 600.000 miliardi di titoli di stato, sono nelle mani del 19% delle famiglie più ricche, ma delle famiglie con oltre 20 milioni di reddito solo il 12% possiede titoli di Stato. (tab. 3 e 4)
POSSESSO TITOLI DI STATO
55 % | in mano alle famiglie |
20,2 % | in mano alle banche |
9 % | in mano alla banca d’Italia |
6,8 % | in mano alle aziende |
10 % | in mano a investitori esteri |
DISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA NELLE FAMIGLIE (REDDITO ANNUO)
REDDITI OLTRE I 40 MILIONI | 9 % DELLE FAMIGLIE |
TRA I 20 E I 40 MILIONI | 36 % DELLE FAMIGLIE |
TRA I 10 E I 20 MILIONI | 38 % DELLE FAMIGLIE |
SOTTO I 20 MILIONI | 17 % DELLE FAMIGLIE |
E’ dunque un ristrettissimo nucleo di famiglie, di banche, di aziende e di società straniere quello a cui ogni anno vengono pagati quasi 200.000 miliardi di interessi che maturano sui titoli di Stato sottraendo soldi, reddito e servizi sociali ai lavoratori.
Tagli ai salari e ai servizi, nuove agevolazioni alle rendite
In Italia si è infatti avviata rapidamente una tendenza a dare vita ad un mercato di capitali più vasto e a una Borsa più capace di valorizzarne il carattere speculativo.
Alla Borsa di Milano nel 1992 sono avvenuti scambi giornalieri per una media di 135 miliardi. nel 1991 erano stati 125.
La capitalizzazione complessiva è però scesa dai 177.359 miliardi del 1991 ai 171.451 del 1992. AI confronto delle Borse di Londra e Francoforte è una inezia che fa “soffrire” i finanzieri, gli industriali e gli speculatori. Per dare ossigeno alla rendita finanziaria e al movimento azionario, il governo ha varato dei provvedimenti tesi a premiare maggiormente quella che è l’essenza speculativa del capitalismo. L’obiettivo di questi provvedimenti (sollecitati apertamente dalla Confindustria) è quello di stornare una quota dei capitali investiti in titoli di Stato verso gli investimenti in Borsa.
In tale direzione è stata varata la legge sulle SIM (Società di Intermediazione Mobiliare) per permettere maggiori “sinergie” tra industria e finanza; è stata recentemente eliminata la tassazione dei capitai gain (i guadagni di Borsa); il Governo Amato si appresta a varare l’ultimo regalo al capitale finanziario cioè l’introduzione dei Fondi Pensione che consentiranno alle società assicuratrici di poter gestire i soldi accantonati dai lavoratori; infine sono previste nuove agevolazioni ed incentivi fiscali per chi investe in Borsa.
Dopo aver premiato la rendita parassitaria, ci si appresta a premiarla ancora maggiormente trasferendola dalla dimensione “familiare” dei titoli di Stato a quella più aggressiva del mondo finanziario.Per confermare il carattere meramente speculativo che gli incentivi governativi daranno all’attività della Borsa, è sufficiente osservare la dinamica delle trattazioni in “Piazza Affari”. I titoli infatti vengono comprati per essere venduti subito dopo ed intascare la differenza.
“L’essenziale è che l’affare si concluda presto, nel giro di una mattinata o al massimo nel giro di poche sedute. Utile assicurato. Rischio limitato. E’ il tipico gioco della speculazione professionale, tornata in campo da quando ha avuto mano libera dal governo. Sulle plusvalenze non si paga più il pedaggio delle tasse” in questo modo brutale ma chiarissimo il settimanale finanziario “Il Mondo” riferisce sul nuovo clima che si respira alla Borsa di Milano (Il Mondo, 8.2.1993).
Qualche “anima bella” potrà anche scandalizzarsi di questo clima, ma l’essenza del modello capitalista è tutta dentro questo meccanismo.
Salari, lavoro e occupazione dentro la crisi
Il mercato del lavoro e la dinamica salariale sono al centro della violenta offensiva con cui padroni e governo intendono affrontare la crisi.
Secondo un rapporto del Dicembre ’92 curato dal Dipartimento Economico della CGIL. i salari pubblici e privati hanno subito nel 1992 il più forte arretramento da venti anni a questa parte.
A fronte di un aumento dei prezzi del 4,8%, le retribuzioni complessive sono cresciute del 2,7%, ma solo dello 0,4% nel settore pubblico.
Tra le cause di questa riduzione del potere d’acquisto, il rapporto indica gli inasprimenti fiscali e contributivi ma omette, ovviamente, gli effetti dell’accordo del 31 Luglio. Previsioni negative vengono avanzate anche per l’anno in corso.
Emblematicamente l’editoriale del “Sole 24 Ore” del 12 Marzo, festeggia il record al ribasso dell’aumento delle retribuzioni a fine ’92, pari solo all’ 1 %; Il costo del lavoro, sostiene l’editoriale. si sta adeguando alle esigenze della competitività.
Ma che il costo del lavoro in Italia fosse proibitivo, è ancora tutto da dimostrare. (tab. 5) È vero piuttosto che in questi anni i lavoratori italiani sono stati sfruttati al massimo, battendo addirittura quelli giapponesi per tasso di produttività Lo sostiene infatti un rapporto del “Centro Giapponese per la Produttività” (vedi “Affari e Finanza” del 25.9.92), secondo cui tra il 1975 e il 1989 il tasso nel settore manifatturiero è stato del 5,7 mentre in Giappone del 5,1. Solo dopo il 1989 la produttività in Italia è scesa al 2,3.
costo orario del lavoro | numero medio annuo di ore lavorate | |
Germania | 22,32 dollari | 1.647 |
Belgio | 19,68 dollari | 1.739 |
Italia | 17,20 dollari | 1.764 |
Francia | 15,38 dollari | 1.736 |
Gran Bretagna | 13,39 dollari | 1.754 |
Ma anche nelle comunicazioni e nei trasporti la produttività dei lavoratori italiani si è collocata al 2° posto dopo la Francia (cioè la “patria” dell’efficienza pubblica).
Del resto anche nel secondo semestre del 1992, nonostante la recessione, la produttività nell’industria è cresciuta a un tasso del 2 3% Lo sfruttamento della manodopera è stato pesantissimo. La produzione industriale nel 1991 era cresciuta del 13,5 rispetto al 1985 a fronte di un aumento del grado di utilizzo degli impianti (si era passati dal 75,6 al 76,7) dello 1,1. La produzione nel 1992 era aumentata del 9,9 a fronte di una diminuzione del grado di utilizzo degli impianti dell’1,3 rispetto all’85 e del 2,5 rispetto al 1991.
I lavoratori italiani stanno dunque pagando duramente l’inadeguatezza dell’apparato industriale italiano nel reggere la competitività con le altre economie capitaliste europee ed extraeuropee.
La struttura industriale che aveva consentito il “Boom del made in Italy” è dunque di dimensioni talmente ridotte da non poter reggere più il,confronto con il processo di concentrazione avviato dai maggiori gruppi industriali europei.
La stretta creditizia imposta dalle banche contribuisce alla crisi di questo apparato bloccando gli investímenti e rendendo inaccessibile il credito.
Il CENSIS sottolinea infatti “il fortissimo rallentamento della crescita delle piccole imprese: I meccanismi di proliferazione industriale sembrano subire un ulteriore brusco rallentamento che mette in forse quella stessa idea di vitalità con la quale è stata rappresentata la realtà economica italiana” (Rapporto CENSIS, Dicembre ’92).
Per i padroni la soluzione della crisi si basa sui seguenti fattori:
- Congelamento e riduzione del costo del lavoro;
- Massima flessibilità della manodopera;
- Riduzione dei tassi di interesse;
- Riduzione del prelievo fiscale e contributivo a carico delle imprese;
- Maggiore integrazione tra industria e finanza;
- Privatizzazione dei servizi strategici (trasporti, comunicazioni, energia) e la loro subaltemità alle esigenze delle imprese;
- Internazionalizzazione della produzione sia per approfittare della svalutazione della lira sia con il trasferimento selettivo della produzione all’estero.
Internazionalizzazione
Il rapporto annuale CNEL Politecnico 1992 sull’Italia multinazionale, sostiene che ormai gli investimenti italiani all’estero hanno superato quelli stranieri in Italia per numero di addetti.
Dal punto di vista delle partecipazioni di controllo però il dato si rovescia. Si segnala che oltre al ristretto club dei grandi privati (i più internazionalizzati) anche le imprese di dimensioni medio grandi si stanno internazionalizzando. Comunque i dipendenti all’estero di società italiane sono ancora solo il 13% rispetto a quelli occupati in Italia. E’ una tendenza in crescita ma ancora lontana da una delocalizzazione massiccia dell’industria italiana verso altri paesi.
Il trasferimento produttivo è comunque molto selettivo: le produzioni a più alta intensità di lavoro vanno nel terzo mondo e nell’Europa dell’Est, mentre quelle a più alta intensità di capitale (tecnologie) restano nella “metropoli” o all’interno dell’area OCSE. Le imprese italiane all’estero sono ancora più concentrate nei paesi CEE e negli Stati Uniti che nel terzo mondo. Il 12% degli investimenti esteri italiani, ad esempio, va negli Stati Uniti.
Il grado di internazionalizzazione del capitalismo italiano è in crescita ma lo è soprattutto l’integrazione economico/produttiva/commerciale con i grandi e medi gruppi industriali europei e statunitensi.
Privatizzazione
la privatizzazione dell’economia italiana, consente ai padroni di realizzare alcuni degli obiettivi strategici prefissati.
- La trasformazione dei servizi pubblici in “servizi alle imprese” innanzitutto;
- La privatizzazione delle banche “pubbliche” come Credito Italiano, Banca Commerciale, Banca di Roma, Banca Nazionale del Lavoro (che sono le maggiori banche italiane) consentirà di porre fine alla separazione tra industria e fnanza su cui si è retto il potere democristiano verso gli imprenditori; limiterà fortemente l’autonomia delle banche verso le esigenze delle imprese; sanzionerà la consegna ai privati di tutte le quote di “MedioBanca” cioè la più importante banca d’affari italiana. Lo scontro sui tassi di interesse aperto dalla Confindustria verso i banchieri è la sintesi di questo obiettivo.
Flessibilità
con un costo del lavoro ormai in via di congelamento per i padroni è fondamentale ottenere la totale flessibilità della manodopera per poter gestire i nuovi assetti produttivi con piena libertà di manovra.
‘Il ricatto è piuttosto chiaro: costo del lavoro e flessibilità totale oppure trasferiamo le produzioni in paesi più convenienti (non solo terzo mondo ed Europa dell’Est ma anche paesi CEE come Gran Bretagna)! Il trasferimento di impianti produttivi nel Meridione corrisponde a criteri precisi come la reintroduzione delle gabbie salariali, sgravi fiscali e finanziamenti pubblici alle imprese, massima subalternità della forza lavoro alle esigenze delle imprese nel mercato.
Le produzioni just in time (che evitano l’accumulazione delle scorte invendute nei magazzini), il turno di notte. la settimana lavorativa su sei giorni invece che su cinque, la mobilità della forza lavoro a secondo delle necessità aziendali, sono lo scenario che i padroni prospettano ai nuovi e vecchi lavoratori.
Tra l’altro i nuovi istituti del mercato del lavoro (salario d’ingresso, lavoro in affitto) sanciscono per legge le discriminazioni salariali e il lavoro nero e pretorio.
Si punta dunque ad estendere l’area del “lavoro precarizzato” rompendo al massimo ogni rigidità della forza lavoro sia nel settore privato che nel settore pubblico.
II lavoro non dovrà essere una certezza ma il risultato individuale di ogni lavoratore e disoccupato sulla base della propria disciplina e subalternità alle esigenze dell’impresa.
Le conseguenze sociali di questa “precarizzazione” del mercato del lavoro saranno rilevanti per uno spettro di fattori più ampio di quello relativo alla sola occupazione.
Dalla crisi un nuovo blocco sociale?
Rispetto a questo quadro riferito ad Aprile del 1992, la situazione negli altri otto mesi dell’anno appena trascorso è sensibilmente peggiorata. Se ad Aprile l’occupazione nell’industria era calata del 4,9 rispetto al 1991, a dicembre il calo è stato del 7,1. Occorre dire che i dati ISTAT si riferiscono alle imprese con più di 500 addetti, mentre il rapporto CENSIS di dicembre ’92 segnalava che più del 90% delle imprese italiane ha meno di 100 dipendenti.
Le statistiche dunque servono relativamente a mettere a fuoco le conseguenze della crisi e le mutazioni che introduce nella società. (tab. 6) Per esempio l’area del lavoro “irregolare” non è desumibile dai dati sul mercato del lavoro nella sua esatta dimensione.
Un Rapporto del CNEL la quantificava, nel 1990, come il 37,7% degli occupati. Tra il 1980 e il 1990 questa area sarebbe cresciuta da 10 a 11,2 milioni di unità. Praticamente la metà degli occupati in Italia lavora al nero e nelle zone “d’ombra” dell’econimia. II rapporto prova a scomporre questo numero ed individua: 7,4 milioni “doppio favoristi”; 2,6 milioni di lavoratori irregolari cioè non iscritti nei libri paga delle aziende; 1,2 milioni di occupati non dichiarati e immigrati “clandestini”.
In questa area di lavoro precario o non regolare convivono stipendi da fame e redditi alti al di fuori da qualsiasi controllo.
L’introduzione del “lavoro in affitto” vorrebbe sanzionare questa realtà legalizzandola.
È probabile che questa area di precarizzazione del lavoro tenderà ad estendersi soprattutto per i redditi e le qualifiche medio bassi.
Infatti i licenziamenti nell’industria colpiscono ancora maggiormente gli operai ( 6,8%) che gli impiegati ( 3,3%). Ma è interessante notare che adesso il trend cresce anche nel settore amministrativo / impiegatizio dell’industria. Del resto la classe operaia è stata ridotta “all’osso” dalla ristrutturazione degli anni ’80 e dopo l’ondata di licenziamenti in corso sarà ulteriormente ridotta. E’ anche interessante segnalare che, nonostante la produzione nel 1992 sia diminuita rispetto al 1991, la produzione sia comunque cresciuta del 2-3 %.
La riorganizzazione del mercato del lavoro non investe solo le fabbriche ma anche la composita area del ‘terziario”.
SCHEDA MERCATO DEL LAVORO
Aprile 1991 | Aprile 1992 | |
Occupati | 21.530 | 21.757 |
Occupati regolari | 21.005 | 21.005 |
Occupati tempo parziale | 525 | 673 |
Lavoratori dipendenti | 15.424 | 15.624 |
Lavoratori indipendenti | 6.105 | 6.103 |
Disoccupati | 2.624 | 2.622 |
In cerca di prima occupazione | 1.242 | 1.313 |
In cerca di lavoro | 898 | 833 |
1991 | 1992 | |
Occupati nell’industria | 6.934 | 6.871 |
Dipendenti | 5.727 | 5.687 |
Indipendenti | 1.207 | 1.184 |
Occupati nei servizi | 12.771 | 13.024 |
Dipendenti | 8.971 | 9.144 |
Indipendenti | 3.800 | 3.800 |
L’industria ha perso 1.100.000 unità negli ultimi dieci anni ma la competitività internazionale pesa ormai anche sul complesso dei servizi, cioè quel settore dell’economia che aveva funzionato da ammortizzatore recuperando spesso la manodopera in uscita dalle fabbriche.
Secondo uno studio curato da Roberto Ruozi e Stefano Preda (Università “Bocconi” e Politecnico di Milano) “più di ventimila posti potrebbero saltare nel settore del credito” (Mondo Economico, 14.11.92).
“L’esposizione alla concorrenza di banche, servizi finanziari, trasporti, energia, reti di comunicazione, edilizia, nonché l’inevitabile aumento di produttività nel settore pubblico impiego (scuole, ministeri, ospedali, enti locali) e della distribuzione corrrmerciale, produrranno inevitabilmente eccedenze strutturali di manodopera” sostiené esplicitamente un altro economista, Renato Brunetta (Corriere della Sera, 14.1.93).
Secondo Brunetta “non bisogna temere tanto la disoccupazione industriale oggi quanto la tenuta complessiva del mercato del lavoro nei prossimi anni”.
A conferma di questa valutazione, il “Sole 24 Ore” del 27.1.93 prevede 80.000 posti a rischio nei servizi (commercio, poste, ferrovie, municipalizzate, energia, servizi di software) per il 1993 e 90.000 per i prossimi due anni.
La privatizzazione dei servizi e la loro trasformazione in servizi “alle imprese” sarà la causa principale di questo processo di espulsione di manodopera e ristrutturazione dell’insieme del “terziario”.
Ma oltre ai licenziamenti, all’aumento delle tariffe e alla liquidazione dei servizi sociali, gli effetti di questo processo saranno quelli di una rottura del blocco sociale emerso negli anni ’80 come freno alle rivendicazioni operaie ed alleato della classe dominante nel conflitto sociale.
II settore sociale fondato sul pubblico impiego, terreno di dominio elettorale e clientelare dei partiti di governo, negli anni ’80 si era saldato con un crescente settore privato di gestione dei servizi su cui una politica fiscale mirata (vedi l’enorme possibilità di evasione fiscale e contributiva) aveva costruito un rapporto “di scambio”: il “lasser fair” in cambio dell’ostilità contro la classe operaia .
“Le forze politiche moderate in funzione antioperaia” sottolinea Giuseppe Cotturri “si sono poggiate su tutte le postazioni da cui ci si può arricchire senza contribuire alla diretta produzione di nuova ricchezza ma gravando sul lavoro di altri” (II Manifesto, 28.892).
Questo blocco sociale si era strettamente saldato con la grande borghesia partecipando all’appropriazione della ricchezza tramite la rendita finanziaria / parassitaria (il boom dei titoli di stato). l’evasione fiscale e il consenso al blocco di potere DC/PSI.
I “rampanti” anni ’80 hanno isolato i lavoratori indebolendone il peso politico e sottraendogli le risorse’ che venivano destinate ad alimentare i meccanismi di esistenza/arricchimento di questo nuovo blocco sociale dominante.
La ricchezza sottratta ai lavoratori e ridistribuita dallo Stato per rafforzare le sue basi sociali e di consenso non è andata solo alla rendita finanziaria ma anche alle imprese private.
Gli imprenditori che gridano contro i “tangentocrati” hanno in realtà sfruttato fino all’osso il sistema economismo su cui si sono retti i rapporti di forza nel nostro paese. (tab. 7)
TRASFERIMENTI STATALI ALLE IMPRESE IN MILIARDI DI LIRE
1982 | 1983 | 1984 | 1985 | 1986 |
9.086 | 11.439 | 13.383 | 12.441 | 15.021 |
1987 | 1988 | 1989 | 1990 | 1991 |
17.666 | 18.554 | 19.216 | 18.616 | 20.882 |
Ma alla fine degli anni ’80, questo equilibrio e i rapporti che ne derivavano sul piano della spartizione della ricchezza e della rappresentazione politica sono stati investiti da una crisi strutturale che deflagrava a livello mondiale facendo saltare le dinamiche interne ad ogni singolo paese capitalista.
La divaricazione tra le ragioni della rendita e le esigenze di competitività e concentrazione della ricchezza, ha portato alla luce la limitayezza delle risorse disponibili (quelle sottratte al lavoro) e l’impossibilità di continuare ad alimentare questa alleanza.
L’osso era ormai stato spolpato e da qualche parte occorreva tagliare introducendo nuove regole del gioco politico (le riforme istituzionali) e dei rapporti economici (privatizzazione) definendo una nuova spartizione della ricchezza e del potere.
La brutale verticalizzazione dei rapporti imposta dal capitale finanziario internazionale e dai gruppi capitalistici più forti e più integrati con l’Europa, ha portato alla rottura dell’alleanza degli anni ’80.
Dalla rabbia degli “esclusi” di oggi e dei marginalizzati di ieri della grande spartizione, nascono fenomeni politico/sociali come le Leghe che vogliono partecipare alla nuova ripartizione della ricchezza.
La durezza dello scontro politico ed istituzionale che caratterizza la vicenda di “Tangentopoli”, è proporzionale ed indicativo dello scontro sociale da cui emergerà la nuova gerarchia di comando della società.
Il carattere gerarchico delle strutture di comando e dei livelli di concentrazione/possesso della ricchezza, aumenterà la divaricazione tra la grande borghesia e quel ceto medio che l’ha sostenuta negli anni ’80 ma che oggi ha più probabilità di arretrare che di avanzare nella scala sociale. È un processo, di “pro= letarizzazione” ancora latente di un ampio settore sociale ancora oggi recalcitrante a far convergere le proprie forze con quelle dei lavoratori (è indicativa, in tal senso, la mentalità reazionaria egemone in questo settore sociale).
La ricomposizione di un blocco sociale antagonista fondato sulla classe operaia e gli effetti della crisi su questo settore sociale, non è semplice né scontata, è possibile.
La frammentazione del mercato e della organizzazione del lavoro costruita in questi anni dal padrone, rende molto difficile ridefinire intorno alla “centralità del lavoro” il fattore immediatamente antagonista al capitale sul quale ricostruire un blocco sociale.
La frammentazione salariale e professionale, la disgregazione provocata dal salario inteso come variabile dipendente dalle esigenze capitalistiche, la perdita di egemonia politica della sinistra nei settori sociali storicamente rappresentanti, la stessa cultura riformista egemone nella sinistra complicano ulteriormente la possibilità di ricomposizione della classe e di direzione politica dei suoi interessi materiali dentro la crisi.
Alla necessità di avviare una indagine realistica delle contraddizioni occorre accompagnare la capacità di trasformare un profondo “malessere sociale” in lotta di classe.
In questo senso spazzare via il politicismo che impregna la cultura politica della sinistra italiana è un passaggio fondamentale.
Se pensiamo, ad esempio, che un forte movimento sulla questione della rapina fiscale contro i lavoratori possa essere l’elemento più immediatamente unificante di un ampio blocco sociale, occorre essere consapevoli della necessità di una forte e chiara direzione politica antagonista di questo movimento. Su un terreno come quello della lotta contro la rendita finanziarie/parassitaria e pér la redistribuzione della ricchezza, la politica delle compatibilità è impossibile.
“Tassare i BOT” può rivelarsi demagogico e velleitario se non si ha la coscienza di attaccare un punto nevralgico del rapporto tra Stato e capitale e un fattore essenziale del capitalismo.
Esiste poi il problema di come connettere questo terreno di lotta estendibile anche nel sociale (contro le tasse sulla casa e i servizi) con le rivendicazione salariali, la riduzione dell’orario di lavoro, l’occupazione per i giovani e i licenziati.
In questa prospettiva il riformismo (per non parlare del collaborazionismo di CGIL CSIL UIL) appare del tutto inservibile sia perché è dentro la logica delle compatibilità, sia perché accetta l’idea di una “neutralità dello Stato” nel conflitto sociale.In realtà mai come dentro le crisi (e ne abbiamo le dimostrazioni concrete in questi mesi) lo Stato è dalla parte dei padroni, anzi, è integrato e subalterno alle loro esigenze politiche e materiali.
Occorre quindi riaffermare la totale autonomia politica e materiale degli interessi di classe rispetto alle esigenze politiche e materiale degli interessi di classe rispetto alle esigenze padronali, allo Stato e al riformismo. Ma per fare questo occorre ricostruire una cultura politica antagonista ed un progetto conseguente. Bisogna farlo con una certa urgenza e senza le mistificazioni ideologiche su cui si è trastullata anche la sinistra di classe in questi anni.
SCHEDA: LA RISTRUTTRAZIONE NEI GRANDI GRUPPI
Tutti i maggiori gruppi industriali, stanno ridefinendo strategie ed investimenti alla luce della recessione internazionale e degli effetti della svalutazione monetaria.
FIAT
il piano economico 1992 1996 prevede 47.000 miliardi di investimenti così ripartiti: 31.200 per la ristrutturazione; 13.300 in ricerca e sviluppo; 2.500 miliardi per la formazione manageriale.
Il 60% degli investimenti riguarderanno il settore automobili su cui la FIAT punta a presentare 18 modelli in cinque anni.
Il maggiore gruppo privato italiano, ha un giro d’affari di circa 60.000 miliardi l’anno e quasi 400.000 dipendenti (di cui almeno 45.000 verranno licenziati). 94.000 dipendenti sono nelle filiali e nella produzione all’estero (quasi 1/4 del totale).
Si calcola che nei prossimi anni, circa i 3/4 della produzione FIAT si trasferirà nel Meridione (Melfi, Pratola Serra, Termini Imerese, Termoli) e all’estero (soprattutto in Polonia). Per la produzione della “Cinquecento” la FIAT intende trasferire il 60% della lavorazione in Polonia e lasciare il 40% in Italia. Attualmente è il contrario.
OLIVETTI
L’Olivetti è forse il gruppo privato più internazionalizzato. Alcune produzioni verranno trasferite dalla Spagna (Barcellona) in Messico. Verrà chiuso lo stabilimento di Norimberga per la riconversione dei computers portatili; l’impianto di componentistica di Hofen e verrà ridotta l’attività dell’impianto di Francoforte.
Drastici tagli verranno realizzati negli stabilimenti in Canada, Australia e Stati Uniti.
In Italia, dopo la chiusura della fabbrica di Crema, le macchine da scrivere e le stampanti verranno trasferite nel Canavese mentre la produzione di piastre verrà trasferita nel Meridione; le attività dell’impianto di Pozzuoli verranno trasferite a Marcianise (Caserta); le linee di produzione di fax a Pozzuoli verranno chiuse e lo stabilimento verrà trasformato in polo tecnologico per la ricerca e l’innovazione.
Secondo De Benedetti “l’informatica sta attraversando un momento penoso ma non è in declino, anzi siamo alla vigilia di una nuova grande fase di rilancio del settore”. Dopo il congelamento dell’accordo con la STET. De Benedetti sta cercando alleanze in Giappone e negli Stati Uniti.
PIRELLI
la Pirelli parallelamente alla ristrutturazione interna e ai licenziamenti (Tivoli, Sicilia, Lombardia) ha chiuso lo stabilimento di Patrasso (Grecia) per la produzione di pneumatici; ha cessato la produzione e la commercializzazione dei pneumatici giganti negli Stati Uniti mentre ha rilanciato quella di pneumatici per vettura. E’ stata bloccata la produzione di pneumatici leggeri in Thailandia e sono stati chiusi ottanta punti vendita in Gran Bretagna. Il gruppo Pirelli ha invece raggiunto un importante accordo per la produzione industriale in Messico con il gruppo Carso che gli apre uno sbocco negli Stati Uniti e in America Latina.
CREDITS
Immagine in evidenza: Carlo Azeglio Ciampi and Giuliano Amato in 1993.
Autore: sconosciuto; 1993
Licenza: public domain
Immagine originale ridimensionata e ritagliata