in Contropiano numero 0 – 2 Aprile 1993
L’autonomia di classe nella crisi, l’incapacità del riformismo a rappresentare un’alternativa reale, l’analisi della composizione di classe e di un blocco sociale antagonista, le forme della resistenza e dell’organizzazione operaia dentro la crisi, sono i temi del dibattito che ospitiamo in questo numero. E’ una apertura di dibattito che intendiamo sviluppare sul giornale e ne rappresenterà uno dei percorsi di ricerca. Gli interventi di questa prima tavola rotonda sono di: Aldo Garcia, della redazione de ” Il Manifesto” ; Mario Battisti, della redazione di “Politica e Classe” ; Sergio Cararo, della redazione di “Contropiano” .
Questo numero zero di “Contropiano” ospita una tavola rotonda con cui intendiamo far ripartire il dibattito intorno ad alcune questioni di fondo.
L’autonomia degli interessi di classe rispetto alle esigenze capitalistiche, e la rottura e il superamento del riformismo, la ripresa di una indagine reale sulla composizione di classe, sono fattori che appaiono pesantemente rimossi dalla cultura politica della sinistra (anche della sinistra di classe) dopo la chiusura del ciclo di lotte degli anni `60 e `70.
Eppure è stato proprio in quel ciclo di lotte che il movimento operaio e la stessa cultura antagonista avevano raggiunto i loro livelli di elaborazione, di rottura con il riformismo e di forza politica nella società.
A demolire quell’esperienza storica sono state certo le modificazioni intervenute nell’appainnegabile quanto abbia pesato negativamente anche la rimozione di una analisi strutturale del nesso tra produzione capitalistica, movimenti di classe e lotta politica.
La priorità via via acquisita dalle questioni sovrastrutturali (la “politica”, il modernismo, la questione morale, ecc.) ha reso dominante nella cultura della sinistra il “politicismo” ed ha creato le condizioni idonee per quel trasformismo che ha mutato i connotati di tanti soggetti ed esperienze politiche nel nostro paese.
Il lavoro come variabile indipendente dal capitale è stato uno dei punti forza del capitale è stato uno dei punti forza del patrimonio culturale operaio degli anni ’60 e `70. Ma il lavoro negli anni `80 ha perso peso politico e contrattuale sia in fabbrica che nella società. Con l’attuale crisi economica, il capitale vuole sanzionare la totale subalternità dei lavoratori alle proprie esigenze.
E’ velleitario riaffermare in tale contesto l’autonomia degli interessi dei lavoratori rispetto a quelli del capitale?
Aldo Garzia:
Abbiamo alle spalle anni di imponente ristrutturazione economica. Con la rivoluzione tecnologica indotta dall’informatizzazione si è rriesso nell’angolo il ruolo tradizionale della classe operaia. Settori come quello della siderurgia e della chimica – per fare un esempio – sono in grave crisi e hanno visto decrescere il numero degli occupati. La classe operaia – a dispetto di una certa sociologia superficiale esiste ancora, ma sicuramente si è ridotta di numero e di peso politico. Uno dei compiti della sinistra sarebbe quello di analizzare come è andato modificandosi il lavoro di fabbrica via via che venivano introdotte nel ciclo produttivo le nuove tecnologie. La domanda è semplice: cosa ha lasciato dietro di se (e nel vivo delle forme della produzione) il ciclo di riconversione strutturale che ha attraversato l’economia italiana e mondiale nel corso del decennio Ottanta? sono personalmente persuaso che il lavoro – a differenza di quello che pensava Marx nel momento in cui prendeva corpo la rivoluzione industriale non sia più l’elemento cardine nel definire le soggettività antagoniste. Certo, ne costituisce parte importante ma solo una parte. L’identità sociale (soprattutto tra i giovani) si costruisce in gran parte fuori dal luogo di lavoro, che per definizione è diventato “mobile”, “part-time”, “transitorio”.
Se le cose stanno così, un nuovo blocco sociale alternativo deve essere altrettanto “mobile”: partire dai luoghi di lavoro, ma sapendo che la sua conflittualità dovrà essere soprattutto sociale su tutti i terreni di riproduzione capitalistica della società.
L’autonomia dagli interessi del capitale può ripartire solo da una nuova critica del capitalismo (qui, in questa fase, dopo la rivoluzione tecnologica, con l’Europa di Maastricht che annulla le frontiere dei capitali e del lavoro).
Mario Battisti:
Il lavoro come “variabile indipendente” si affermò con l’emergere di una forte soggettività di classe, di un soggetto operaio proiettato nella società, e fu infine teorizzato nel quadro di una offensiva generale del lavoro dipendente. L’autonomia della classe non fu perciò semplicemente la dichiarazione di una indisponibilità a condividere le ragioni della crisi e del meccanismo economico, le cosiddette leggi di mercato, ma essenzialmente l’espressione di un progetto e di un’idea-forza della trasformazione che fondarono e resero efficace – sotto un certo aspetto perfino egemone – quella indisponibilità. Nella vicenda della lotta operaia degli anni `60 e `70, non prevalse dunque un “particolarismo’ di classe ma un punto di vista ed una istanza di cambiamento sociale che ebbero una loro puntuale manifestazione nel rifiuto delle compatibilità economiche.
Con tutta evidenza nell’ultimo quindicennio, e in particolare durante gli anni `80, questa soggettività di classe è stata battuta, in primo luogo attraverso una grande rivoluzione tecnologica e produttiva che ha ridotto i soggetti a figure del meccanismo economico e ha disperso, nella produzione, i portatori materiali dell’istanza di cambiamento .
Collocata fino ad ora su un terreno difensivo anche le recenti importanti manifestazioni operaie lo sono la classe ha avuto difficoltà a rompere l’isolamento e il problema di una nuova egemonia del lavoro dipendente si trasferisce con eccezionale urgenza su un piano propriamente politico. E’ un fatto, tuttavia, che le ragioni della “compatibilità” economica e della governabilità dei conflitti si sono imposte anche a sinistra. Per cui la caduta di una rappresentanza politica del mondo del lavoro oggi si sovrappone alla materiale disgregazione e disancoramento della classe, cosa che favorisce il rischio di una soluzione moderata della crisi sociale e istituzionale, nonostante siano presenti forti segnali di nuova combattività.
Sergio Cararo:
I lavoratori si giocano molto dentro questa crisi, occorre esserne pienamente consapevoli. Ma esserne consapevoli significa capire quanto deve pesare (autonomia degli interessi di classe verso e contro le esigenze del capitale.
L’autunno caldo è esploso dopo la fine del boom economico e alla vigilia della crisi degli anni `70. Questa crisi una crisi di sovrapproduzione che è l’eredità irrisolta di quella) giunge alla fine di quella ripresa economica degli anni `80 che molti indicano come il ciclo espansivo più lungo dell’economia capitalista dalla fine della seconda guerra mondiale. In questo decennio i lavoratori sono stati spremuti al massimo delle loro possibilità ma ciò non è servito a impedire la crisi. Le ragioni della crisi, dunque, non dipendono dal lavoro ma dal capitale, dalla sua natura, dai suoi cicli.
Già dentro questa constatazione sono leggibili i fattori di questa divaricazione tra capitale e lavoro. Ma occorre rovesciare i fattori per riaffermare l’autonomia degli interessi operai e di classe dalle esigenze del capitale. Noi dobbiamo fare un ragionamento del tutto diverso che ponga invece al primo posto la riduzione dell’orario di lavoro e la garanzia del salario per i lavoratori.
Estendendo il ragionamento , sarebbe assurdo, oltre che politicamenteb sbagliato, che i lavoratori si sentissero responsabili e si facessero carico del debito pubblico.
Ma per riaffermare questo punto di vista, occorre ricostruire una cultura politica adeguata , una cultura antagonista, che è stata rimossa e demolita dalla logica delle compatibilità, degli interessi generali, dei sacrifici.
L’autonomia di classe ha segnato una rottura teorica e politica con il riformismo. Oggi la politica delle compatibilità appare come un processo di integrazione degli interessi operai dentro quelli capitalistici. Esistono alternatine alla politica delle compatibilità all’interno della crisi economica? Il riformismo può essere l’unica opzione politica su cui riaggregare le forze e le energie della sinistra?
Aldo Garzia:
Le crisi attuali del capitalismo sono essenzialmente “espansive”. Questa formazione storica non riesce a riprodursi in gran parte del pianeta: America Latina, Africa, Terzo Mondo in genere. In Europa e nei punti alti dello sviluppo capitalistico la ristrutturazione economica riduce la base produttiva. mentre sul piano politico si colpiscono tutte le conquiste sociali del Welfarestate. Lo Stato sociale è stato il compromesso più avanzato tra capitalismo e movimento operaio. Il suo logoramento segnala il venir meno di quel compromesso e della tutela dei diritti sociali (piena occupazione, servizi, alti salari).
Forse ma avanzo solo un ipotesi l’attuale ciclo di riproduzione del capitale non lascia margini “riformistici” per un rilancio o di altri compromessi sociali.
Ci sarà un’altra fase espansiva del capitalismo negli anni `90? La presidenza di Bill Clinton negli Stati uniti è il banco di prova per verificare se c’è spazio per una nuova stagione “progressista” a livello mondiale.
Se l’orizzonte riformista è in crisi, l’alternativa al capitalismo ha bisogno di una radicalità di obiettivi e di comportamenti.
Ma dobbiamo sapere che anche il “socialismo” non sta bene in salute. Dall’esperienza dei “socialismi reali” non si può ricavare granché. La ricostruzione di una sinistra politica ha tempi lunghi e deve misurarsi con i punti alti dello sviluppo del capitalismo maturo nelle società avanzate.
Mario Battisti:
Se, come credo, il problema dell’autonomia di classe si pone con urgenza su un terreno propriamente politico, uscire dalla logica della “compatibilità” significa fuoriuscire politicamente dall’orizzonte attuale della sinistra. Implica cioè il riconoscimento del fatto che la sinistra muore, in questo passaggio d’epoca, secondo coerenza e necessità! E richiede, pertanto, la capacità di leggere, dal lato delle classi subalterne, la crisi di legittimazione dell’ordinamento (che oggi rischia di essere interpretata solo a destra o attraverso quel vero eo proprio fraintendimento retorico che è il “governo di svolta”), come pure la diversa dislocazione delle forze di lavoro nella società della rivoluzione tecnologica e della crisi dell’occupazione.
Non credo sia possibile esaurire il discorso in questa circostanza. Dirò tuttavia che il problema di una nuova autonomia di classe si presenta non più solo nei termini di una critica del riformismo, che peraltrocede in tutto il mondo alla riorganizzazione dell’economia secondo la dominante logica d’impresa, ma rimanda ad una nostra prontezza nel riconoscere la portata costituente delle trasformazioni in atto e la tendenza al radicamento in forme inedite di un soggetto della trasformazione.
Sergio Cararo:
Le devastazioni del riformismo non sono solo “culturali” ma anche materiali. Di fronte ad una crisi economica come quella che stiamo vivendo, l’opzione riformista appare del tutto inservibile se non addirittura complice delle esigenze capitalistiche.
L’accordo del 31 Luglio è servito a tagliare i salari e ad introdurre, di fatto, una riforma dei salari nel settore privato e pubblico che li subordina alla discrezione delle aziende e delle amministrazioni. L’economista del PDS Cavazzuti sostiene la privatizzazione dei servizi e il PDS ha appoggiato l’abolizione delle tasse sui capitai gains. In questi tre casi, i riformisti sono venuti meno anche a qualsiasi ipotesi di “regolazione” del modello capitalista.
Queste scelte confermano, una volta di più, che il discorso sugli “interessi generali” è una micidiale trappola per i lavoratori ed una copertura alla priorità delle esigenze capitalistiche.
I partiti e la cultura riformista, si sono appiattiti in questi anni su una concezione distorta della società e delle relazioni internazionali. Hanno ritenuto che lo sviluppo capitalistico avesse in se la capacità naturale di garantire le risorse per ampi strati sociali ed evitare ogni nuova rottura “rivoluzionaria”.
Hanno accettato la tesi sulla “società dei due terzi” come unico scenario possibile dentro le società capitaliste e sulla interdipendenza come paradigma del mondo uscito dalla fine della guerra fredda.
Queste illusioni si sono sgretolate mano a mano che le contraddizioni sono venute alla luce sia nelle società sviluppate sia a livello internazionale.
Si sono convertiti sempre di più in un fattore di stabilità del sistema dominante e di garanzia degli interessi che in questo sistema sono egemoni. E’ un’opzione inaccettabile che va contrastata con determinazione.
La sinistra italiana si è andata polarizzando intorno all’esistenza del PDS e di Rifondazione Comunista. Entrambi i partiti si sono ritrovati d’accordo sulle posizioni del movimento dei consigli. Quanto è forte una egemonia o una impostazione riformista in questi due partiti o quanto si è estesa la rottura con una cultura riformista?
Aldo Garzia:
PDS e Rifondazione Comunista sono parte del terremoto che ha sconvolto la sinistra italiana. La Quercia dopo la fine del craxismo non può giocare la carta dell’unità socialista (può solo assorbire le ceneri del Garofano). Per questo inizia a porsi il problema di una sua ridislocazione in un sistema politico mutato ( legge elettorale maggioritaria, polarizzazione eventuale tra “moderati” e “progressisti”). Il PDS potrebbe diventare il “partito democratico” italiano: non più socialdemocratico, ma solo progressista.
Rifondazione vive troppo in rapporto agli “spostamennti” del PDS (ora a destra, ora a sinistra secondo le mosse ondivaghe di Botteghe Oscure). Ha un deficit di progetto politico autonomo e innovatore rispetto alla tradizione della sinistra italiana.
Per dirla con una battuta in Rifondazione c’è troppa continuità e poca rifondazione rispetto alla storia dei comunisti italiani.
Forma partito, programma, cultura politica, risentono del peso della tradizione. Lo stesso avviene sulle tematiche della politica internazionale (i recenti incontri con Marchais e Cunal).
Se posso avanzare una previsione, sia PDS sia Rifondazione così come sono ora sono forze transitorie sullo scenario della sinistra. L’incalzare della “rivoluzione italiana” (il crollo di regime per mano giudiziaria) potrebbe scompaginare anche tutte le forme organizzate attualmente presenti a sinistra (lo stesso discorso vale per i Verdi, tra i quali si è riaperta una salutare lotta politica).
Mario Battisti:
Non si è estesa alcuna rottura con la cultura riformista dentro la sinistra e credo che questo sia paradossalmente ancor più vero per Rifondazione Comunista che per il PDS, il quale in verità ha liquidato una parte della propria tradizione e ha assunto 1’orrizonte della democrazia liberaldemocratica come ambito nel quale tentare di tenere assieme, in ordine di importanza, una prospettiva di governo e alcuni aspetti della questione sociale (se la bancarotta delle democrazie occidentali non fosse proprio in questa mancata sintesi).
Certo è che le due formazioni che oggi interpretano la “scena madre” della sinistra, rappresentano un blocco mortale nei confronti delle spinte più avanzate ed emergenti nella società. Poiché tendono a racchiuderle o dentro un punto di vista della tradizione, incapace di leggere i cambiamenti e quindi residuale, oppure all’interno di una logica politica che subisce supinamente l’esito moderato delle trasformazioni, soggiogata dalla prospettiva di un ricambio nelle classi di governo. Lo stesso movimento operaio solo in minima parte è riuscito a sottrarsi a questa micidiale tenaglia e il movimento dei consigli resta vincolato a questa “dialettica della sconfitta”.
Riprendo quanto dicevo più sopra circa l’effetto di liberazione delle energie sociali antagoniste e di sperimentazione di un blocco sociale alternativo che avrebbe il riconoscimento della insussistenza o morte politica della sinistra. Ciò avrebbe anche un valore decisivo per la riapertura di una nuova stagione di “indifferenza operaia” per le sorti del capitale e della razionalità d’impresa.
Sergio Cararo:
In questi due anni, ci sono stati dei compagni, pochi per la verità, che hanno giustamente rifiutato di accettare la polarizzazione PDS/Rifondazione Comunista come il solo orizzonte possibile per la sinistra in Italia. Accettare questo orizzonte significava accettare che l’esperienza della sinistra di classe sviluppatasi al di fuori del PCI dagli anni `70 in poi, non avesse altri sbocchi che “riconfluire” dentro la cultura politica riformista.
Il discorso sul PDS è ovviamente diverso da quello su Rifondazione Comunista. Il PDS rappresenta ormai l’integrazione delle ragioni della sinistra storica dentro le esigenze della Seconda Repubblica. Esso punta a rafforzare la propria egemonia sul resto della sinistra attraverso le perversioni del sistema elettorale maggioritario (che ridurrebbe le opzioni) spostando però sempre più a destra il suo asse politico.
Per Rifondazione Comunista il discorso è più complesso.
Innanzitutto non mi pare che sia un partito omogeneo sul piano politico. In esso convivono posizioni che riaffermano il ,problema dell’autonomia dei comunisti con altre che puntano abbastanza chiaramente a riportare Rifondazione all’interno o sotto l’egemonia del PDS (facendo leva soprattutto sulle conseguenze del nuovo sistema elettorale).
Il dibattito sulla questione sindacale è paradigmatico delle contraddizioni interne a Rifondazione.
II fatto che sia il PDS che Rifondazione, alla fine si siano ritrovati insieme nel sostenere le posizioni e il ruolo del movimento dei consigli di fabbrica, è emblematico di quanto una cultura riformista sia ancora egemone e comune ai due partiti. L’atteggiamento con cui si misurano con i movimenti sociali che si vanno esprimendo nel paese, segnalano una grossa divaricazione tra un politicismo su cui si è consolidata in questi anni la cultura politica della sinistra e la realtà delle dinamiche sociali. Questa divaricazione non è risolvibile in tempi rapidi, occorrerebbe una rivoluzione culturale e la ripresa di una cultura antagonista che è ancora troppo debole.
Un progetto di cambiamento politico ha la necessità di fondarsi su un blocco sociale reale e non ideologico. Negli anni ’80 si è imposta nella sinistra una cultura interclassista e la rincorsa ad una indefinita società civile più che l’analisi sulla composizione di classe. Un esame oggettivo di un blocco sociale che abbia interesse materiale al cambiamento è stato fatto o siamo ancora ad una analisi tradizionale ma più rassicurante quasi mitologica dei settori sociali su cui rifondare un progetto antagonista della sinistra?
Aldo Garzia:
L’interclassismo è stato mirabilmente rappresentato dalla Democrazia Cristiana. Se si studia la presa sociale di questo partito si comprende come la DC non abbia potuto sopravvivere solo per la continua gestione del potere ma anche per la capacità di rappresentare interessi “forti” e interessi “deboli”. A sinistra “interclassismo” è sinonimo di rapporto con i “ceti medi” (problema irrisolto da Togliatti in poi) e di perdita di egemonia da parte della classe operaia. Il partito di massa rappresentato dal PCI ha finito per diventare un “contenitore” indistinto in cui prevaleva solo l’azione “nazionale” a scapito della “trasformazione”.
Un nuovo blocco sociale non può che ripartire da una moderna critica del capitalismo (direbbe Gramsci “struttura” e “sovrastruttura” del capitalismo). Emarginazione sociale. nuove povertà sono questioni che si affiancano a quelle del lavoro (cito solo il tema degli immigrati extracomunitari).
Alleanze sociali e conquiste ideali possono nascere solo da un’azione e una teoria che contesti l’idea che il capitalismo sia l’ultima frontiera dell’organizzazione tra uomini e donne (l’ultima formazione storico sociale possibile). Anche qui, si tratta di ricostruire un percorso senza avere ricette già confezionate.
Perché mantengo una modestia di argomentazione? Semplice: ritengo che le categorie di “classe” e “soggetto” vadano riesaminate a fondo.
Cosa sono oggi “classe” e “soggetto” è difficilissimo dire.
Mario Battisti:
L’analisi che conduciamo della composizione di classe è più che tradizionale, ancora oggi. Tanto è vero che anche quando parliamo della frammentazione del mondo del lavoro, della articolazione nella società delle forze produttive (precarizzazione e mobilità estrema del lavoro) siamo poi restii a riconoscere queste forme spurie di nuova soggettività come costituenti un possibile blocco sociale alternativo.
Eppure è anche qui la straordinaria “innovazione” di questo salto di società: nello sviluppo impetuoso di nuove forme di cooperazione sociale (già secondo Marx) che corrispondono ad un alto grado di verifica della crisi della società del lavoro e di integrazione tra economia e politica.
Non a caso uscire dal ghetto delle “compatibilità” significa oggi attraversare contemporaneamente i nodi della rappresentanza politica e di una democrazia extraistituzionale.
Sergio Cararo:
Il dibattito e la riflessione sul blocco sociale capace di riaprire un vasto movimento per la trasformazione è in ritardo e soffre ancora delle mistificazioni emerse negli anni `80.
Da un lato occorrerebbe ripulire l’analisi da un interclassismo che ha distorto molte cose, dall’altro occorre cominciare a sostituire alla mitologia un pò residuale sulla classe operaia una indagine più seria su quali processi siano avvenuti nella società in questi anni. La mappa sociale del nostro paese (e di buona parte del mondo capitalistico) sta per essere profondamente ridisegnata sulla base del conflitto economico internazionale.
La “proletarizzazione” dei ceti medi e la precarizzazione di una vasta area del mercato del lavoro, possono rappresentare un terreno fertile di analisi, di intervento e di organizzazione politica per le forze antagoniste della sinistra. Questo potrebbe significare la fine di quell’isolamento politico in cui la classe operaia è stata tenuta negli anni `80.
Esiste però il rischio di ribadire dei luoghi comuni o, assai peggio, di arrivare in ritardo con un progetto capace di riunificare i vari settori sociali contro la politica economica del governo e dei padroni. C’è un pezzo composito della società che potrebbe trovarsi molto al di sotto del gradino che occupava in precedenza nella scala sociale, mala rabbia e la frustrazione di questo pezzo della società potrebbe anche non trovare nella sinistra il proprio riferimento politico.
La cultura riformista, in questo senso, si rivela ancora più inservibile perché, in nome della stabilità e degli interessi generali, farebbe di tutto per neutralizzarlo e tenerlo separato dalla classe operaia.
Nel 1977 è successo questo e il compromesso storico ne è stato l’espressione più lampante. Le conseguenze drammatiche per la sinistra sono note.
Bisogna cominciare a ragionarci da subito, non c’è molto tempo.
I lavoratori dipendenti “regolari” in Italia sono quasi 15 milioni. CGIL CISL UIL ne rappresentano assai meno della metà (6 milioni).
Se alla luce di questi dati la “rappresentatività” confederale può apparire un eufemismo, è ancora acc ettabile il monopolio di questarappresentanza?
Perché le nuove ferme di organizzazione sindacale (CUB, SLA, Cobas) alternative a CGIL CISL UIL appaiono come un tabù per gran parte della sinistra?
Aldo Garzia:
Le recenti iniziative dei consigli di fabbrica e dei Cobas per un referendum che abroghi l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori la dice lunga sullo stato della democrazia sindacale e sul livello di rappresentanza di CGIL CISL UIL. Il loro monopolio è messo in discussione da molto tempo.
Quanto alle nuove forme di rappresentanza extrasindacali, credo che finora non abbiano avuto uno spazio adeguato nel dibattito della sinistra per un pregiudizio di presunto corporativismo. Le rivendicazioni di queste nuove strutture non sono state in grado di definire finora un programma unificante delle specifiche rivendicazioni sul salario e l’organizzazione del lavoro. A questo si è aggiunta una carica di contrapposizione a priori rispetto a tutto il mondo rappresentato dai sindacati tradizionali (un giudizio su CGIL CISL UIL di “irriformabilità” e “irrecuperabilita”). Spesso la rissa da una parte e dall’altra ha prevalso sul confronto.
Seguo con grande interesse l’esperienza di Cobas, Cub, Sla ma anche quella di “Essere Sindacato” nella CGIL. Parto della convinzione che nel futuro non avremo più un “unico partito della classe operaia” e un “unico sindacato dei lavoratori”.
Bisognerà fare i conti con la multiforme rappresentanza di organizzazioni diverse. Per questo tutte le esperienze di autoorganizzazione a sinistra hanno pieno diritto di cittadinanza. La crisi verticale di CGILCISL UIL non può che far lievitare il fenomeno dell’autoorganizzazione dei lavoratori.
Ma il nemico resta pur sempre il capitalismo (e i suoi governi).
Mario Battisti:
Che le nuove forme di organizzazione sindacale appaiano un tabù per la sinistra conferma, da quel lato, l’urgenza di una costituente di forze antagoniste in grado di interpretare, con mente sgombra, tanto i processi di nuova politicizzazione che la nuova dislocazione dei conflitti, delle risorse umane e delle volontà.
Sergio Cararo:
La questione sindacale, come dicevo prima, è emblematica dello scontro tra una cultura riformista e l’autonomia di classe.
La nascita di nuove organizzazioni sindacali alternative a CGIL CISLUIL è la novità più rilevante di questa ultima fase delle lotte operaie e sindacali, ma lo è anche delle modificazioni intervenute nel mercato del lavoro. Paradossalmente sono proprio le nuove organizzazioni sindacali l’alternativa al corporativismo. Quest’ultimo infatti si è alimentato con il distacco tra CGILCISL UIL, e lavoratori dando vita, come reazione, a mentalità e comportamenti sindacali corporativi.
L’esperienza della CUB, dei COBAS o dello SLA, rappresentano, sia pure con differenze al loro interno, un recupero della cultura del sindacato di classe in modo alternativo a quello corporativo ma anche a quello collaborazionista di CGILCISL UIL.
Nel sindacato sta succedendo la stessa cosa che sul piano istituzionale. Così come il PDS vuole avere il monopolio della rappresentanza della sinistra attraverso il bipartitismo e il sistema elettorale maggioritario, CGIL CISL UIL vogliono averlo attraverso la Legge sulla rappresentanza.
Se la sinistra di classe non coglie questo pericolo, rompe il tabù della fedeltà alla CGIL, si libera di una cultura riformista e subalterna, le prospettive del movimento operaio in Italia appaiono fortemente compromesse.
CREDITS
Immagine in evidenza: Communist
Autore: LeeTokarev; 28 gennaio 2013
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