Fabio Giovannini (Comitato per la difesa e il rilancio della Costituzione) in Contropiano numero 0 – 2 Aprile 1993
Esistono due versioni ingannevoli della campagna per cambiare le leggi elettorali: una versione punta la propria propaganda sulla base della piramide politica, l’altra sul vertice.
Chi punta sulla base vorrebbe spacciare uninominale e maggioritario come “democrazia immediata”: Cioè il maggioritario darebbe più potere ai cittadini, che potrebbero scegliere un’alternanza di forze e uomini al governo. In ultima analisi questa posizione attribuisce i problemi del sistema politico italiano non alle responsabilità dei ceti economici dominanti e dei governi di questi decenni, ma al sistema elettorale proporzionale: questo sistema elettorale sarebbe “screditato” ed è quindi necessario cambiarlo (il Segnista Barbera ed il PDS si sono accodati da tempo a queste posizioni, in passato sostenute solo dalla destra).
Secondo questa versione si tratterebbe di aggiungere un potere ai cittadini: oltre quello di scegliere quali propri rappresentanti eleggere, anche quello di esprimersi sul governo, aggirando le mediazioni partitiche.
Ora, è certamente comprensibile l’esigenza di sottrarre il gioco delle alleanze (spesso trasformistiche) alle segreterie dei partiti e dare al corpo elettorale la possibilità di determinare anche il governo. Ma qui si resta chiusi in una logica “governativistica”, tutta incentrata sull’alternarsi di un personale politico a un altro: si perde di vista che alla radice dei ceti politici ci sono interessi economici e sociali precisi.
E che una democrazia viva ha bisogno di una opposizione rappresentativa e plurale, non omologata. Solo il sistema proporzionale consente questo pluralismo, mentre le grandi forze economiche vogliono solo garantire un quadro politico totalmente sotto controllo, senza variabili che ne possano mettere in discussione gli interessi.
E qui veniamo alla versione più pragmatica, e meno demagogica, dei sostenitori del sì al referendum elettorale, la versione che definirei degli “efficientisti” : cambiare il sistema elettorale serve a dare stabilità ai governi. Questo quindi l’obiettivo: la stabilità del vertice politico.
Il sistema elettorale maggioritario è ritenuto decisivo per garantire questo risultato.
Si trascura il fatto che in Italia se i governi sono stati instabili, i ceti rappresentati dai governi sono stati sempre i medesimi e il personale politico si è riproposto sempre uguale in collocazioni diverse (vedi la permanenza inquietante nei governi succedutisi in questi anni da parte di alcuni dirigenti della DC, che passavano da un ministero all’altro rimanendo sempre in posizioni di potere). E ciò è avvenuto non per colpa del sistema elettorale, ma perché l’Italia era collocata in una posizione internazionale che non consentiva alle sinistre di accedere al governo, e rendeva quindi forzatamente inamovibili le coalizioni centriste. La nostra, infatti, è stata una democrazia impedita nonostante la proporzionale. Si tentò anche di cancellare questa conquista, non lo si dimentichi, con la legge truffa degli anni cinquanta, ma il piano semplificatore non passò. Oggi, a distanza di vari decenni, ci riprovano, sulla base degli stessi contenuti e delle stesse esigenze.
Sia chiaro: le regole elettorali non sono intoccabili, ma si tratta di vedere se le “innovazioni” che vengono indicate da forze potenti e trasversali non portino a una riduzione della democrazia e del pluralismo.
Il referendum che vuole modifiche al sistema elettorale in senso maggioritario e uninominale sta producendo dei danni culturali e politici. E il primo di questi danni è nello svilimento dello strumento del referendum, trasformato in plebiscito reazionario.
Se vincesse il sì, si attenuerebbe nelle prossime campagne elettorali qualsiasi distinzione/competizione tra programmi diversi. La tendenza sarà quella di uno scontro tra schieramenti eterogenei e tra leader carismatici.. La stessa divaricazione in uno schieramento conservatore e uno progressista perde oggi di vero contenuto. Mario Segni, supportato da una parte della vecchia DC, acclamato da settori consistenti di alta borghesia, legato a poteri forti di questo sistema politico e di questo regime, ma contemporaneamente alfiere del “rinnovamento”, della pulizia, si qualificherà come leader dello schieramento conservatore o di quello progressista? In realtà si assiste sempre più ad una convergenza al centro di tutti i partiti tradizionali, che stemperano le grandi divergenze politiche alla ricerca spasmodica di voti e consensi elettorali generici, basati soprattutto sulla politica spettacolo.
La sovranità popolare invece richiede di essere esercitata sulla scelta di programmi realmente e chiaramente diversi, non sulla simpatia o la “faccia” fotogenica di un candidato.
La demonizzazione del Parlamento e dei partiti, di cui si fanno protagonisti soprattutto i leghisti e i fascisti, è perfettamente coerente con questo progetto politico semplificatore e in fondo neo autoritario.
E questa accusa di demonizzatori viene anche dalla sinistra alternativa più radicale, che certo non ha mai “santificato” i partiti, anche perché le obiezioni di sinistra al parlamentarismo sono sempre valide e attuali.
Ma qui siamo di fronte a un attacco reazionario che mette in discussione la stessa idea di sovranità popolare e che vuole svincolare totalmente chi gestisce il potere da ogni controllo.
La battaglia per il NO al referendum elettorale non è quindi una battaglia conservatrice dell’esìstente, ma è imperniata sulla tutela di alcune elementari garanzie democratiche, ancora più importanti oggi che forze potenti si muovono per ottenere mano libera e ricostruire un sistema di intreccio tra politica e affari in cui il profitto e non il bene comune sia al di sopra di tutto.
Alle componenti più avanzate del fronte composito che voterà NO al referendum elettorale, così come a quei settori che hanno scelto di non andare a votare, resta il compito di indicare nuove forme dell’agire politico, sperimentando luoghi di autogoverno, capaci di alleggerire il centro e potenziare le periferie del potere. E quindi porsi il problema di strumenti decisionali alternativi, non basati sulla delega.