Rete dei Comunisti in Contropiano Anno 21 n° 2 – dicembre 2012
Nel 1914 il Presidente della Repubblica francese, Raymond Poincaré, invitò tutti i partiti politici e le classi sociali a stringersi attorno alla difesa della nazione. A quel revanscismo non molti si opposero. Ma quale nazione andava difesa? Difendere la nazione, dopo l’imperialismo e all’alba della prima guerra mondiale, non significava più nulla di democratico. Significava legittimare l’espropriazione di altri. Era l’idea di un destino che, ideologicamente, era dipinto ‘comune’, di là dell’appartenenza di classe e di ogni sensibilità politico-culturale: la sua forma, in Francia, fu l’union sacrée.
E oggi?
La costruzione politico-imperialista dell’Europa e la crisi economica e finanziaria del modo di produzione capitalista riaprono la questione.
Alcuni punti certi da cui partire ci sono; non siamo all’anno zero. Non aver seguito, infatti, in questi anni la cultura politica dominante anche (se non soprattutto) a sinistra ci dota di chiavi di lettura che rende possibile cogliere processi che da “carsici” sono divenuti palesi.
I caratteri della crisi sistemica e di lunga durata del capitale li avevamo interpretati da qualche tempo, come avevamo capito che la crisi generale di sovrapproduzione è cosa diversa dalle convulsioni costituenti della Unione Europea e della sua classe dirigente.
Il punto sul quale, invece, siamo apparentemente colti in contropiede è la passività dei settori sociali più colpiti dagli attacchi materiali fatti dal governo Monti. Padronali e violenti – ma ben assorbiti e introiettati come necessari – come mai nella storia del nostro paese. In altre parole la condizione soggettiva dei lavoratori e delle classi subalterne non produce reazioni adeguate al pesante attacco materiale che è portato.
Per ragionare sul perché di questa condizione va prima definita la natura del passaggio che stiamo vivendo. Siamo, per così dire, in un’età di mezzo che da fase con caratteristiche maggioritarie e concertative va evolvendosi a una nuova fase dove tende a prevalere, anche oggi, l’idea di un “destino comune”.
Quella (fase) aperta negli anni ‘90 aveva un segno certamente autoritario in cui sia i caratteri della democrazia sia i rapporti di classe erano un deciso passo indietro rispetto agli anni precedenti, ma si esprimeva comunque dentro una crescita economica e di consumi determinata proprio da quella finanziarizzazione oggi in crisi e che ha per troppo tempo occultato (ai più) la vera natura della crisi economica [1].
Inoltre quei margini economici permettevano una dialettica tra le parti e un reciproco riconoscimento; questo sia sul piano generale (ad esempio Berlusconi è stato ben attento a gestire “socialmente” il bilancio dello Stato, quello che poi ha causato parte del debito pubblico) sia su quello sindacale dove la concertazione (con o senza CGIL) ha accompagnato le scelte di questo paese per almeno un ventennio, pur rimanendo dentro quelle che erano definite le compatibilità del sistema economico.
Ora la realtà effettuale (che è sempre un processo) ha preso a muoversi in tutt’altra direzione. La fantomatica globalizzazione è stata superata dall’insorgere della crisi che richiede al contrario una nuova union sacrée delle forze politiche e sociali (e istituzionali) e, dunque, siamo tutti ideologicamente accumunati dalla percezione di un unico orizzonte, cioè quello della competizione globale. Questa necessità reazionaria del capitale è direttamente legata e proporzionale al procedere della crisi, ma questa, a detta di quasi tutti, non sarà superata rapidamente; anzi.
Si tratta, quindi, dell’avvio di una fase nuova i cui tempi (ed esiti) non sono per nulla chiari.
Perché, allora, la passività di classe cui prima facevamo cenno?
Certamente non possiamo separare i comportamenti dalla condizione materiale di classe effettiva e su questo dato bisogna lavorare: la tendenza al peggioramento complessivo è evidente ma questa va rapportata alla precedente condizione economica complessiva. Ad esempio nel nostro paese resiste ancora la produzione manifatturiera (siamo i secondi in Europa dopo la Germania) e nonostante la riduzione dei consumi (a livello internazionale) l’Italia rimane tra i primi paesi esportatori; questa realtà si è mostrata in tutta la sua evidenza nelle vicende del terremoto emiliano quando è lì emersa la dinamicità produttiva delle medie imprese del centro-nord Italia (e non quella delle piccole imprese del nord-est). Un altro dato è la consistente ricchezza privata delle famiglie italiane che rende il peggioramento economico ampiamente diluito nel tempo: non si tratta solo della storica solidarietà familiare che funge da ammortizzatore sociale ma sembra qualcosa di più consistente. Allo stesso modo, la cosiddetta proletarizzazione dei ceti medi svela tutta l’ambiguità della sua definizione: il ceto medio, per quanto impoverito, rimane (per il momento) ceto medio. Depauperato sì, certamente.
Infine, ma non per ultimo, il ruolo che Mario Monti sta svolgendo in Europa fa trasparire che la nostra situazione (ruolo, prestigio e funzione) non è direttamente rapportabile a quella degli altri paesi della periferia europea: vale la pena di ricordare che l’Italia ha l’avanzo primario più alto di tutti i paesi europei e questo obiettivamente è un dato che pesa sulle prospettive e sui margini di manovra del governo. In sintesi: il dato della soggettività, in altre parole della spinta al conflitto politico e sociale, trova una sua condizione fondante nei livelli di reddito reali e non solo nominali di cui dispone. Questo é l’ambiente reale in cui stiamo operando.
Un altro elemento che pesa nei comportamenti sociali è che oltre agli effetti pratici della crisi, che tendono a indebolire ulteriormente i rapporti di forza nella società, va detto che la dimensione totalizzante e la gestione a senso unico di questo periodo dà alla crisi un carattere formativo, in altre parole non solo si prende atto del proprio arretramento di condizione ma si giustifica il tutto assumendo in prima persona la visione del mondo che è proposta e il conseguente modo di pensare. Così si rendono “logiche” le politiche di sacrificio istillando la speranza che portino a un superamento del presente vissuto come momentanea battuta d’arresto e non, invece, come possibile rottura e, dunque, inversione di tendenza. Soggiace, cioè, in questi convincimenti, l’idea che il tavolo non sia mai ribaltabile. La litania sugli “spread”, infatti, non solo permette i cambi di governo e le manovre economiche ma distribuisce quella dose sufficiente di terrore che permette di fare queste stesse operazioni in modo politicamente indolore.
Siamo davanti a un quadro d’insieme, quindi, che conferma l’insufficienza (perché unilaterali) delle spiegazioni ‘politiciste’; quelle, cioè, che insistono sull’inadeguatezza delle forze politiche d’opposizione a sinistra. Come la storia ha sempre insegnato, conflittualità sociale e organizzazione politica sono cresciuti insieme riverberandosi dialetticamente l’uno nell’altro.
Qui subentra, com’è del tutto evidente, una questione centrale (che si sta concretamente manifestando da un po’ di tempo) anche teoricamente. Stiamo assistendo, cioè, al ribaltamento del rapporto tra “movimento” e organizzazione; mentre nelle fasi precedenti i movimenti favorivano la crescita delle espressioni organizzate oggi avviene il contrario ovvero i movimenti sono impossibili se non c’è l’intervento delle strutture organizzate.
La vicenda greca, dove si sono sommate due condizioni apparentemente sinergiche, quella oggettiva del massimo degli effetti devastanti della crisi con quelle soggettive di forze organizzate (Syriza, KKE, PAME e altre organizzazioni) sicuramente radicate e rappresentative dell’opposizione sociale, appare paradigmatica delle difficoltà reali dell’agire politico. Nonostante tutto, infatti, in quel paese, dopo moltissimi scioperi generali, si vive una condizione di stallo.
Non possiamo rimuovere dalla nostra riflessione quest’ulteriore elemento che ci dice quanto pesi il processo di unificazione europea sul quale dobbiamo continuare ad approfondire l’analisi.
Sull’Unione europea abbiamo già scritto e detto tanto, bisogna perciò avere sempre ben presente che i processi sociali e politici descritti hanno la loro base materiale, la loro motivazione sostanziale nella concretizzazione di quell’unificazione avviata con l’accordo di Maastricht agli inizi degli anni ’90 ma che ora, con la crisi, questo stesso accordo è entrato prepotentemente nella vita quotidiana dei lavoratori del continente.
Quello che è percepito a livello di massa è che quella dimensione è talmente grande e distante da sembrare metafisicamente una monade irraggiungibile e impenetrabile come una casa senza porte e senza finestre ma capace di alimentare indefinitamente l’universo costituito. Cioè le forze del cosiddetto mercato (create dalla dimensione sociale del lavoro e dallo sfruttamento dei lavoratori) acquistano una loro autonomia dal resto della società, a questa si contrappongono e di questa sono le uniche che possono deciderne le sorti.
È percepita così un’enorme sproporzione nei rapporti di forza sociali e si produce la convinzione che l’unica strada da seguire è quella che ci propone il cosiddetto mercato, dietro questo effetto c’è un elemento strutturale della società capitalista che oggi si manifesta in tutta la sua potenza inibitrice non essendoci più, in particolare nei paesi imperialisti, alternative sociali credibili.
Ecco che, allora, le forze industriali e finanziarie nazionali entrano in conflitto tra loro sia all’interno della UE sia all’interno degli stessi Stati nazionali per decidere la nuova gerarchia.
Si sta, cioè, determinando la nuova classe dirigente continentale che supererà quelle nazionali oggi agonizzanti.
Questa partita, fatta di compromessi e di scontri, ha come corollario inevitabile la lotta di classe dall’alto; vale a dire che il processo di unificazione è possibile solo con i trasferimenti di ricchezza dai lavoratori ai centri di potere economico-finanziario che hanno, in questo modo, i margini adeguati per gestire (vanno ricordate le due ultime guerre mondiali con epicentro in Europa) la strategica costruzione del polo imperialista europeo.
In sintesi le due forze in atto, la crisi generale e i processi di riorganizzazione europea, porteranno a una ripresa generale delle contraddizioni che (per l’Europa) possiamo rappresentare con un’immagine a centri concentrici dove c’è un centro, composto in buona parte dalle borghesie del Europa settentrionale, ma non solo, e con capacità di concertazione sociale, e una semiperiferia e periferia sottoposte alle pressioni della riorganizzazione sociale e di uno sfruttamento accentuato dalla incrementata competizione globale.
Per questo pensiamo sia necessario riprendere la parola rivoluzione; non nel senso, ovviamente, di aprire la questione della presa del potere qui e ora, ma certamente si pone un problema d’idealità, di prospettiva generale, di dare cioè una sponda politica al rifiuto profondo che si sta manifestando nella società e tra i giovani e al quale non può rispondere né la dimensione sindacale/sociale né quella della rappresentanza politica visto quelli che sono i loro terreni di organizzazione.
Bisogna rimanere sempre con i piedi per terra ma spesso volare alto è il modo migliore di piantarli in profondità. Se ora, infatti, è legittimo politicamente ipotizzare un “punto di rottura” in questa situazione, bisogna allora immaginarsi una funzione più avanzata e all’altezza del nuovo punto posto all’ordine del giorno. Su questo dobbiamo lavorare: per un’aggregazione politica che vada oltre gli specifici concreti e che sia capace di ripresentare un’idea di società alternativa.
Per far questo bisogna però rompere la nuova union sacrée che irreggimenta l’azione e il pensiero: nessun destino comune per i lavoratori e i democratici che non hanno nulla a che spartire né in termini materiali né ideali con i reazionari e con i ladri di ricchezza e di futuro.
Sulle nostre prospettive perciò si presentano due snodi complicati e in apparente contraddizione con cui siamo chiamati a misurarci. Il primo è la condizione soggettiva delle classi subalterne che, come detto, rende difficile e complesso il nostro lavoro d’organizzazione del conflitto di classe.
La seconda è capire come di fronte a tale stallo si possa riuscire a trovare nuova linfa.
Ma, come marxisti, a questa funzione non possiamo e non vogliamo rinunciare.
NOTE
[1] ↑ La “finanziarizzazione” è stata la potente controtendenza alla caduta del saggio di profitto che ha permesso negli ultimi trenta anni l’allargamento del mercato mondiale e, di conseguenza, della produzione; il credito in sostanza sembrava risolvesse i limiti quantitativi del mercato globale. Questo ha anche permesso l’affermazione dell’egemonia del capitale nei termini attuali. I limiti all’uso di questa possibilità, realizzatisi con la crisi, spinge il capitalismo a utilizzare le altre controtendenze già descritte da Marx e che possono essere rapidamente riassunte con la riorganizzazione produttiva tramite l’innovazione tecnologica, con il commercio estero e dunque con lo sviluppo della competizione mondiale e infine, e soprattutto per noi, con l’aumento dello sfruttamento della forza lavoro e la riduzione dei salari reali diretti, indiretti e differiti
CREDITS
Immagine in evidenza: Popoli d’Europa solleviamoci!
Autore: Rete dei Comunisti; 16 gennaio 2013
Licenza: Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 2.0 Generico (CC BY-NC-SA 2.0)
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