Luciano Vasapollo in Contropiano Anno 21 n° 2 – dicembre 2012 [1]
[Intervento al Forum “Il vicolo cieco del capitale” promosso dalla Rete dei Comunisti. Napoli, 30 giugno 2012.]
1.
Dagli inizi della Seconda Rivoluzione Industriale (1871), le nuove potenze che dominano le tecnologie moderne, Germania e Stati Uniti, interdicono l’egemonia britannica che dominava il mondo durante il XIX secolo. Quindi l’Inghilterra inizia a perdere parte della sua influenza nel settore militare (l’Armata britannica), in quello economico (industria tessile e siderurgica) e in quello finanziario (la sterlina). La Prima Guerra Mondiale non dà luogo a un nuovo periodo di stabilità politico-economica, perché la Germania non riesce ad imporre il suo dominio e gli Stati Uniti non esercitano la leadership mondiale. Gli anni ‘20 e ‘30 rappresentano quindi un periodo di fragilità obiettiva del dominio capitalista che favorisce il trionfo della rivoluzione russa e richiede un nuovo ciclo di scontro militare per dirimere la nuova gerarchia mondiale capitalista (bisogna sottolineare che i grandi detentori del capitale, con tutto il loro amore dichiarato per il libero mercato, ricorrono sempre all’azione organizzata dallo Stato e dalla forza militare per stabilire le gerarchie di potere, dentro e fuori i confini nazionali, quando vengono messe seriamente in discussione).
Se la crisi é un evento “normale”, e non eccezionale come pensano i keynesiani, insito nel modo di produzione capitalista per distruggere quel capitale in sovrappiù che inceppa i meccanismi di accumulazione e di crescita del saggio di profitto, allora anche la stessa economia di guerra è una modalità “normale” per sostenere la domanda (indotta e imposta) nei periodi di sottoconsumo o di sovrapproduzione di merci e di capitali.
Può avvenire che la crisi finanziaria si accompagni a un radicale mutamento del modello di accumulazione capitalista e dell’annesso sistema produttivo; ciò è avvenuto probabilmente solo in un caso, nel 1929, determinando radicali cambiamenti politico-istituzionali che si associano alla definizione di un diverso modello di produzione e di sviluppo. Ed ecco che in questo caso la crisi assume connotati di strutturalità e può nascere un nuovo modello di accumulazione capitalista, com’è avvenuto nel dopo ‘29 con la complessità del modello keynesiano nelle sue diverse forme ed esplicitazioni.
Nell’ottobre del 1929 si ebbe, infatti, il fatidico crollo dell’economia mondiale che coinvolse tutti i paesi industrializzati; la grande depressione, ricordata come il “Crollo di Wall Street”, ebbe conseguenze devastanti in tutti i paesi industrializzati e provocò oltre a drastiche riduzioni di reddito anche crolli del commercio internazionale, dell’agricoltura e di tutte le produzioni. Moltissime sono state le analisi effettuate per spiegare questa grave crisi economica che, partendo dagli USA, si è estesa in tutto il mondo; Galbraith tra gli altri, spiegò che tra i motivi vi era senza dubbio oltre a un’errata distribuzione di reddito anche un eccesso di speculazione finanziaria e una struttura sbagliata del sistema bancario.
La crisi bancaria fu soprattutto sovrapproduzione di capitale, mancanza di regole certe ecc., ma sicuramente anche allora (come oggi) si è trattato di una crisi di carattere strutturale e quindi tutta interna allo stesso sistema di produzione, cioè di una determinata caratterizzazione del modello di produzione capitalista e del suo paradigma di accumulazione.
Negli anni seguenti si è poi avuta una ripresa economica mondiale che ha, però, conosciuto svariate crisi di minore impatto e piccole riprese fino ad arrivare alla soluzione della crisi stessa, con la seconda guerra mondiale, che rende possibile l’esplicitarsi in tutte le sue forme dell’economia di guerra e del keynesismo con la sua caratterizzazione militare sia in termini di sostegno della domanda per la guerra guerreggiata sia per la successiva fase della ricostruzione. Dall’altro lato agli aspetti precedenti bisogna aggiungere la dinamica politica mondiale che riduce ancora di più il margine di manovra del capitale. Il sistema internazionale adotta la forma di una gerarchia di nazioni che risponde al ruolo che svolgono i differenti paesi nella divisione internazionale del lavoro.
Al vertice, in assenza di autorità mondiali, si colloca lo Stato imperiale USA che esercita il ruolo di “giudice-arbitro” internazionale, dettando le regole del gioco in funzione delle particolari necessità di riproduzione dei suoi stessi capitali.
2.
Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale dunque, gli Stati Uniti d’America (e il dollaro) si collocano alla testa dell’economia mondiale.
Alla fine del secondo conflitto mondiale, infatti, gli Stati Uniti erano l’unico paese creditore di una certa importanza ed inoltre, i suoi territori non avevano sofferto la devastazione bellica degli altri paesi alleati, e avevano anche l’industria e il denaro sufficienti per diventare il centro dello sviluppo e della ricostruzione dell’Europa e del mondo.
Questo sistema funziona fino a quando l’industria dell’Europa Occidentale e del Giappone verranno ricostruite e si presenteranno in una competizione internazionale, faccia a faccia, per contendere, alle imprese statunitensi, i mercati internazionali.
Già verso la fine degli anni ‘70 vari settori produttivi dei paesi a capitalismo maturo hanno, infatti, evidenziato un certo esaurimento del modello di capitalismo organizzativo incentrato sulla fabbrica fordista, il cosiddetto “fordismo”.
Da un lato vi era la saturazione del mercato sulla base dei prodotti esistenti introdotti in forma massiva (consumi di massa) alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Quando gli abitanti dei paesi sviluppati cominciano ad avere tutti gli articoli necessari di consumo (Tv, lavatrice, telefono, possibilità di viaggi e vacanze, ecc.), si produce un rallentamento delle vendite e quindi anche della crescita economica. Il mercato potenziale, che è formato dalla maggioranza impoverita dei paesi periferici, non viene incorporato al consumo perché la sua funzione nel modello di sviluppo fordista consiste proprio nel lavorare in cambio di un reddito di sussistenza, produrre a basso costo le materie prime, alcuni beni di lusso e di consumo operaio che vengono richiesti dai paesi centrali. Un altro fattore fondamentale del fallimento del modello capitalista organizzativo (da intendersi come organizzativista fordista) è stato la redistribuzione del potere all’interno delle fabbriche, dal capitale verso il lavoro. Unadelle caratteristiche del modello è che è stato raggiunto, di fatto, dal pieno impiego della forza lavoro. Anche se questa caratteristica coinvolse solo il 20% della popolazione mondiale – e in un lasso di tempo non superiore a venti anni, tra il 1948 e il 1968 – negli altri duecento anni del capitalismo, prima e dopo, non è esistito il pieno impiego della forza lavoro, fatto che rende questo aspetto una rarità.
3.
A partire dagli anni ‘60, i tempi cambiano rapidamente e agli Stati Uniti costa molto di più mantenere la loro egemonia economica, dovendo ricorrere, costantemente, alla politica militare (guerra di Corea, Vietnam, ecc.).
Dalla fine degli anni ’60 poi, l’oro della Riserva Federale degli Stati Uniti, che serve a garantire i dollari sparsi nel mondo, non riesce a coprire neppure la quinta parte di questi beni.
Tutto ciò, quando il presidente Richard Nixon riconosce (nell’agosto del 1971) che il suo paese non può garantire più di trasformare i dollari in oro, dà origine al fallimento del sistema monetario internazionale: viene sospesa la convertibilità del dollaro rispetto all’oro e il sistema economico internazionale scende verso il basso. Si decreta dunque con un atto di forza unilaterale la fine degli accordi di Bretton Wood e nel 1976, cinque anni dopo, l’FMI riconosce che il sistema monetario non esiste più; viene sospesa la quotazione ufficiale dell’oro, vengono eliminati i controlli dei tipi di cambio e di conseguenza si da maggior potere al mercato per fissare i suddetti prezzi. Queste decisioni segnalano l’inizio della fine del ciclo di egemonia finanziaria statunitense.
L’indebolimento del dominio statunitense si traduce nella creazione delle condizioni affinché i paesi esportatori di materie prime reclamino un prezzo maggiore per le loro risorse. Fino al 1973 il modello fordista aveva generato una redditività sufficiente per il capitale, funzionando con alti costi salariali insieme a una produttività crescente e ai costi bassi delle materie prime. Questa situazione cambia, e l’aumento dei prezzi delle materie prime, in particolare l’energia (petrolio), aggrava la crisi della redditività iniziata con il rallentamento della produttività alla fine degli anni ‘70; i profitti delle imprese vanno a picco e il risultato è che molti paesi sperimentano PIL annuali davvero negativi, ossia, non solo non crescono ma le loro economie vanno sempre peggio.
Mentre fino agli ‘70, quindi, Keynes e la pianificazione economica hanno influenzato l’economia, dagli anni ‘80 e ‘90 il monetarismo e tutto l’impianto neoliberista hanno dominato il mondo governandolo con “il mercato senza vincoli, senza regole”.
È in questo momento che gli europei, guidati dall’asse franco-tedesco, decidono di creare il Sistema Monetario Europeo (1978) per regolamentare i propri scambi ed in seguito la moneta unica (1999) per essere liberi di difendere i modelli di cambio di fronte alla speculazione dei mercati e per liberarsi dalla tutela che, di fatto, continuano a stabilire gli Stati Uniti sul sistema internazionale dei pagamenti con la funzione di attivo di riserva che i dollari continuano ad esercitare, in modo predominante.
E con l’obiettivo di frantumare l’unità e la forza che la classe operaia aveva espresso in tutte le sue potenzialità negli anni ‘60 e ‘70, s’impongono processi di scomposizione attraverso le esternalizzazioni, le delocalizzazioni, la precarizzazione del lavoro con le mille forme di lavoro atipico , cioè aumenti dello sfruttamento che portano ad un significativo abbattimento del costo del lavoro e a rapporti sempre più individuali e disaggregati della classe lavoratrice.
A partire dagli anni ‘80 si è così verificato in Europa, anche se in maniera diversificata nei differenti paesi, un vero e proprio intenso processo di privatizzazione, con l’intento di ridimensionare la presenza pubblica nell’intero sistema produttivo e con i pesanti sacrifici imposti al mondo del lavoro. Le azioni dei Governi di questi anni confermano la volontà di attuare un programma completo di dismissione delle aziende pubbliche, con la motivazione ufficiale di risolvere i problemi produttivi ed economici. A ciò hanno fatto eccezione alcuni paesi, ad esempio la Francia e in parte la Germania, che hanno difeso la presenza pubblica nei settori strategici, strutturando in tal modo un modello produttivo più forte ed equilibrato nella competizione globale. E’ così che le crisi si ripetono come, ad esempio, le ultime che ricordiamo, da quella del sistema monetario del 1992 [2] a quelle delle Borse asiatiche del 1987, ma anche quella di Wall Street del 2001 con la conseguente stagnazione che si è protratta per lunghi anni.
4.
Una caratteristica strutturale del processo permanente della accumulazione del capitale è che quando rallenta si trasforma in una crisi.
Il processo di accumulazione si produce mediante una incessante trasformazione di ricchezza naturale, per mezzo del lavoro e delle macchine, in merce,oggetti destinati ad alimentare l’accumulazione o il consumo finale.
Il denaro, tradizionale mediatore tra due merci scambiate sul mercato, acquista un nuovo ruolo nell’economia capitalista come regolatore del ritmo della accumulazione.
La dimensione del denaro, in quanto equivalente generale del valore delle merci, nella sua funzione di mediatore tra due merci nel mercato, è determinata dal valore delle merci disponibili in un dato momento per lo scambio. Il valore si esprime in termini monetari in forma di prezzi. Pertanto, il volume del denaro equivale al volume di prezzi che si devono trattare sul mercato. Tale volume si esprime in termini monetari come la massa di denaro per la velocità di circolazione.
Nella circolazione mercantile semplice il denaro è endogeno e determinato dalla domanda (necessità di denaro).
Quando ci si confronta con la accumulazione allargata il denaro non è solo un intermediario, è il motore della trasformazione di merce in capitale (mezzi di produzione, lavoro salariato) e promessa di realizzazione (vendita) del nuovo valore creato nel processo di lavoro. Il denaro è diventato credito.
Il denaro di credito è esogeno, e il suo volume dipende dalle aspettative dei creditori (creatori di credito ) rispetto al tasso di accumulazione realizzabile.
Queste le premesse teoriche per meglio capire cause ed effetti che con il neoliberismo nella politica economica assume un peso determinante il settore finanziario e i processi speculativi attraverso la deregolamentazione finanziaria, voluta dai governi Reagan e Thatcher. Si è così eliminata ogni restrizione ai movimenti del capitale, in particolare di quello fittizio, realizzando in questo caso sì la globalizzazione ma non la mondializzazione piena delle economie in generale ma semplicemente la una incontrollata internazionalizzazione finanziaria. Sono state così abbattute le riserve bancarie di garanzia, si sono moltiplicati i paradisi fiscali, si è permessa la proliferazione della finanza creativa e della possibilità di scommettere in Borsa non solo sui flussi degli strumenti finanziari ma anche sulle materie prime, sui tassi di cambio, sugli alimenti generando speculazioni per permettere il guadagno facile, cioè la rendita speculativa, e quindi la determinazione dei prezzi con superprofitti su petrolio, grano, mais, disinteressandosi completamente del fatto che tali rendite significassero poi fame, miseria e distruzione per interi continenti.
Il gioco di Borsa dagli anni ‘80 ad oggi è così divenuto una corsa al massacro sociale: da una parte si “ingrassano” i fondi di investimento leader e i grandi speculatori, dall’altra parte si trasformano i produttori di materie prime (salariati di piantagioni, contadini, minatori e operai dei Sud del mondo) in miserabili e i lavoratori del centro dell’impero in precari e nuovi poveri. In tal modo si trasferisce, inoltre, possibilità di investimento nell’economia reale nel facile e apparentemente più redditizio collocamento speculativo finanziario, distruggendo volutamente in tal modo il capitale in eccesso a fini produttivi.
Le banche, ma oggi anche le assicurazioni e i cosiddetti “investitori istituzionali” (Fondi pensione, Fondi investimento), sono dunque degli enormi “forzieri” di denaro non investito. Hanno la necessità di “far fruttare” la propria liquidità e per farlo, oltre alla speculazione borsistica di vario tipo (che non crea ricchezza, ma al meglio può essere considerata a medio-lungo termine un “gioco a somma zero”, dove chi perde cede ad un altro la proprio quota di ricchezza complessiva “giocata” nei mercati dei titoli e monetari di tutto il mondo, ma senza appunto creare nulla di nuovo), possono investirli nel settore produttivo per valorizzare la propria massa di denaro che altrimenti resterebbe capitale non valorizzato in termini di accumulazione.
Il sistema bancario-finanziario compie inoltre un’altra funzione centrale nel processo di circolazione del capitale: quella di rendere disponibile al capitale, attraverso il sistema del credito e quello finanziario, una somma enorme di denaro che sarebbe non valorizzabile ed utilizzarlo per estendere il proprio potere su scala mondiale tramite investimenti diretti esteri, partecipazioni e finanziamenti innumerevoli.
Quindi, quella finanziaria e produttiva sono semplicemente due funzioni del capitale che sempre più spesso convivono nello stesso operatore economico anche nella commistione fra attività tecnico-materiali e attività di speculazione finanziaria, in particolare in questi ultimi 25 anni con la deregolamentazione del sistema finanziario e con l’utilizzo dei cosiddetti strumenti della finanza allegra e creativa.
5.
L’attuale crisi del capitale, quindi, viene da lontano e mostra la sua strutturalità già dai primi anni ‘70, con una tendenza al ristagno con forti e continue tensioni recessive, in parte attenuate da continui processi di ricomposizione della localizzazione dei centri di accumulazione mondiale del capitale, con una riduzione temporale dei cicli delle crisi finanziarie.
Tali crisi hanno evidenziato come le diverse forme di indebitamento crescente, interne ed esterne, pubblico e privato, abbiano di fatto in qualche modo garantito la sopravvivenza degli storici centri di accumulazione del capitale del Nord America e dell’Europa Occidentale.
Le distinte forme di indebitamento presenti in questa crisi sono il risultato disperato del capitale di prolungare, nel tempo, la riproduzione di se stesso, tentando di mantenere l’aumento del consumo di massa in relazione all’aumento della produttività del lavoro e la riduzione dei salari e della massa salariale connessi al valore aggiunto. È un tipo di sovra-indebitamento che risponde anche all’obiettivo di ritardare il momento in cui la caduta della redditività si traduce in una forte diminuzione dei beni e della massa dei profitti, momento i cui si produce un fatale squilibrio tra il ritmo della produzione, quello della realizzazione e quello della valorizzazione del capitale, condizione ultima della crisi.
Ma ciò che si potrebbe chiamare “reaganismo originario” portò ad alcune conseguenze, come una lenta rigidità della “politica monetaria” nel 1981, che implicò una crescita iniziale del M1 [3] di circa un 10%, ma successivamente ebbe una crescita pari solo al 4,7%, per poi decadere successivamente tra aprile e novembre del 1981 ed essere cancellato definitivamente. [4] Le suddette misure della politica monetaria ebbero effetti non previsti dalla teoria:
- a) una crescita sostanziale del costo del credito, cioè una crescita dei tassi d’interesse;
- b) spinta all’innalzamento del tasso di cambio effettivo;
- c) esercizio di un impatto recessivo sul livello di attività economica, in quanto limitò fortemente la domanda e la produzione;
- d) non funzionò il cosiddetto principio della “curva di Phillips”, secondo il quale un incremento di M1 avrebbe prodotto un incremento del risparmio, che si sarebbe tradotto in un aumento dell’investimento produttivo.
In realtà l’incremento di M1 fu diretto al risparmio che non riguardò l’investimento produttivo, ma l’industria del divertimento e della speculazione, come risultato del livello per niente stimolante in cui si trovava il tasso di profitto; tutto ciò provocò l’aumento dei tassi d’interesse.
In quel periodo, l’economia si vide sommersa dal peggior momento recessivo dal dopoguerra. Il recupero dell’ultimo trimestre del 1982 non è dipeso solo dalla politica economica: la perspicacia dei cosiddetti economisti dell’offerta (Supply Side Economics) non consistette tanto nella politica che avevano raccomandato, quanto nell’essersi resi conto del fatto che il modello di accumulazione del dopoguerra si era esaurito, poiché l’economia nordamericana, in particolare, stava passando ad un nuovo paradigma tecnologico, all’interno del quale l’obiettivo della politica economica non doveva essere più lo stimolo diretto alla “domanda effettiva”.
Va altresì sottolineato che parliamo da tempo di crisi sistemica poiché la strutturalità e globalità della crisi rende evidente la tendenza alla caduta del saggio di profitto nei paesi più sviluppati, o meglio da noi sempre definiti paesi a capitalismo maturo. E’ chiara l’evidenza in questo caso dell’enorme distruzione di “forze produttive in esubero”, siano esse forza-lavoro o capitale come esplicitazione di forma di lavoro anticipato, e quindi non vi non siano più le condizioni per ripristinare un nuovo modello di valorizzazione del capitale che sappia dare la “giusta” redditività agli investimenti e creare possibilità per un nuovo processo di accumulazione capitalista, anche attraverso il cambiamento del modello di produzione.
La crisi attuale è, allora, sistemica perché sempre più ampia è la divaricazione fra sviluppo delle forze produttive e modernizzazione e socializzazione dei rapporti di produzione, al punto che sono ormai intaccati non solo questi ultimi ma le stesse relazioni sociali in tutti i paesi a capitalismo maturo. E che i nuovi soggetti del lavoro, del non lavoro e del lavoro negato, cioè quel soggetto che si fa classe proletaria sfruttata nonostante la modernità delle forme, non accetta più e non vede possibilità di emancipazione politica, culturale, sociale ed economica nella società del capitale. Vengono cioè meno le stesse mediazioni motivazionali del soggetto di classe del lavoro, anche se la sua ribellione contro la società del capitale assume forma fuori dall’organizzazione di classe nelle mille modalità del disagio giovanile, dell’illegalità metropolitana, del suicidio veicolato attraverso l’uso delle droghe, delle rivolte contadine in Asia e in America Latina, delle “follie” stragiste dell’insoddisfazione del vivere.
La mondializzazione neoliberista favorisce la crescita della disuguaglianza. Nei paesi impoveriti è ciò che avviene tra i proprietari e detentori del capitale e i gestori del sistema da un lato e la maggioranza popolare dall’altro (esiste un metodo veramente semplice per identificare, nei paesi della periferia, gli inclusi e gli esclusi dalla competizione globale: possiamo individuare i poveri e quelli che non lo sono perché questi ultimi sono soggetti di credito e hanno accesso alle banche come grandi o piccoli clienti; gli altri, no.
Di fatto, in quasi tutti i paesi del Sud, solo una percentuale che va dal 5 al 25% della popolazione ha accesso al credito e realizza transazioni bancarie, aspetto che si traduce in un tasso di esclusione che fluttua tra il 75 e il 95%).
Inoltre, continua ad esistere un sistema di circolazione di merci (permessi di importazione ed esportazione, autorità doganiere) ma non esiste un sistema monetario internazionale, non c’è valuta mondiale, non c’è autorità monetaria che regoli lo spazio internazionale di circolazione del denaro.
Pertanto consideriamo la globalizzazione finanziaria come il risultato della decisione degli Stati Uniti di trattare i propri problemi di bilancio senza un rilancio reale della loro economia ed evitando le pressioni delle banche centrali del resto del mondo a non continuare a pagare i loro debiti con dollari non convertibili. In termini generali, la globalizzazione, o l’attuale fase della mondializzazione capitalista, può essere definita come un processo su scala mondiale di redistribuzione del potere tra le classi sociali (dai lavoratori verso i capitalisti) e tra i territori (dalla zone rurali a quelle urbane, dalle periferie delle città ai centri d’affari, dalle regioni meno sviluppate a quelle più sviluppate, insomma, dalle periferie al centro).
Così, ad esempio, nell’Unione Europea, le disparità nazionali di reddito non si riducono (a differenza di quello che succede con le misure nazionali) e questo nonostante gli importanti trasferimenti connessi ai fondi strutturali.
6.
E’ così che la stessa costruzione dell’Europolo, basata sui parametri di Maastricht, altro non rappresenta che la definizione di uno scenario di un confronto aperto e diretto dei paesi europei alla partecipazione da protagonisti a quella economia globalizzata, o meglio a quella competizione globale che misura lo scontro per la definizione delle aree di influenza e di dominio delle tre ipotesi liberiste: quella statunitense, quella giapponese-asiatica e quella europea guidata dall’asse franco-tedesco [5]. La forza di questi due paesi non deriva dalla politica ma, come già ricordato, dalla solidità dei rispettivi sistemi produttivi.
Gli intensi processi di competizione globale dell’economia a livello mondiale hanno portato, quindi, la Germania, con un asse privilegiato verso la Francia, a cercare un’ipotetica soluzione dei problemi della concorrenza internazionale con la costruzione di un’area economica e monetaria incentrata sull’esigenza esportatrice del modello tedesco, con una nuova divisione internazionale del lavoro che va ad assegnare ai paesi dell’Eurozona mediterranea il ruolo di importatori ed erogatori di servizi, delocalizzando il proprio sistema industriale verso i paesi dell’Est europeo per risparmiare molto sul costo del lavoro, avendo al contempo una manodopera specializzata.
Ma applicando la stessa moneta a paesi nei quali l’accumulazione del capitale si basa sulle esportazioni e a paesi strutturalmente importatori, la politica monetaria è incapace di conciliare le necessità dei primi (a cui necessita una moneta stabile per permettere l’accumulazione a lungo termine basata sulle esportazioni) e degli altri (che richiedono svalutazioni periodiche per facilitare l’aggiustamento esterno). Alla fine, la politica applicata difenderà ovviamente gli interessi dei più forti, in questo caso dei paesi esportatori dell’Europa centrale, rispetto ai deboli paesi europei della periferia mediterranea.
E’ in questo ambito che si scatena la speculazione dei mercati finanziari internazionali sui titoli di Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna, paesi volgarmente chiamati PIGS (maiali), e con l’Italia PIIGS; in particolare su Irlanda, Grecia, e in seconda battuta gli altri, poiché ormai le scommesse migliori sono quelle al ribasso proprio sulle obbligazioni di tali economie-paese; ciò rende impossibile ridurre i già molto alti livelli assunti per questi paesi dei rapporti deficit-PIL e debito pubblico –PIL.
Il nuovo ruolo delle banche ridà ossigeno al sistema finanziario e mette in mano l’intera economia al “maledetto” gioco delle multinazionali e transnazionali private; il tutto con il denaro derivato da imposte e tasse gravanti soprattutto sui lavoratori che in contropartita avranno solo ciò che da anni definiamo “Welfare dei miserabili”.
In realtà, le banche stanno approfittando dell’aumento dell’offerta del debito pubblico per ristrutturare i loro fondi di investimento verso altri con rischi assai minori, con l’obiettivo di dare garanzie ai propri clienti, che non stanno assolutamente continuando a scommettere sulla ruolette russa rischio/redditività alta, dopo la rovinosa caduta. Le banche hanno bisogno anche di modificare la composizione del proprio attivo, caricato di titoli e valori immobiliari in corso di svalutazione accelerata; i titoli di debito pubblico diventano un valore copertura perfetto.
7.
Ecco il contesto nel quale a partire dal 2009 si scatena la crisi del debito sovrano e delle connesse politiche pubbliche e governo dell’economia, che hanno visto l’emorragia del denaro pubblico.
È in questo quadro di accentuata competizione globale che sembrano prevalere tre strategie europee di uscita dalla crisi.
La prima è la ricetta tedesca, verso quella che considerano la periferia europea, che punta alla destrutturazione del mercato del lavoro a maggiore austerità e maggiore liberalizzazione riducendo le forme anche di protezione sociale. In questo senso le politiche di aggiustamento strutturale in chiave europea hanno come unico obiettivo quello di salvare banche, imprese private e mercato, attraverso un indebitamento pubblico sempre crescente che vede poi come sua cura la privatizzazione dei servizi pubblici di base per creare un nuovo spazio di accumulazione attraverso la nuova catena del valore che si realizza proprio sulle privatizzazioni dei servizi sociali profitti e rendite finanziarie e di posizione.
Quindi un’idea di stabilità nell’austerità, dentro i rigidi parametri europei imposti dalla Germania, favorendo i processi recessivi con un forte condizionamento negativo sul mondo del lavoro, in termini di costi di specializzazione e di diritti. Ma c’è da dire che ciò potrebbe provocare un impatto negativo sulla produttività favorendo quelle imprese meno produttive che utilizzano manodopera a basso costo e perdendo capacità in termini di innovazione tecnologica.
Una seconda ipotesi è quella più a guida britannica e di settori di una parte dei potentati della cosiddetta sinistra euroscettica, che auspicano la creazione di un “secondo euro”, puntando a svalutare e a ristrutturare il debito pubblico complessivo, cercando di attuare anche politiche di nazionalizzazione di alcune imprese e politiche industriali di miglioramento della produttività. Questa strategia radicale di fuoriuscita dall’ “euro 1” è priva al momento di reali possibilità attuative sia per le forti pressioni protezionistiche sia per una sicura connessa fuga dei capitali e quindi condizioni che abbasserebbero le capacità di investimento interno al sistema europeo.
L’ultima ipotesi è quella della sinistra europea, anche di quella cosiddetta radicale e di alternativa, che partendo da una ipotesi di analisi della crisi come sottoconsumistica, ripropone una nuova stagione per le illusioni dei keynesiani di sinistra di superamento della crisi attraverso il sostenimento della domanda e un impossibile rafforzamento delle spese di carattere sociale e di investimento in infrastrutture pubbliche, tecnologie, educazione, ecc.
L’errore di tali keynesiani di sinistra sta non solo nell’identificare questa crisi come da sottoconsumo, senza intenderne il carattere sistemico e negando qualsiasi impostazione teorica di origine marxista, ma la loro ipotesi dell’”euro buono” si scontra con la loro stessa lettura di crescita nella compatibilità capitalista, cioè è impensabile coniugare politiche di austerità e rigore con politiche espansioniste di crescita.
Infatti ecco che si moltiplica in questo senso l’idea di alzare il denominatore del rapporto debito pubblico-PIL per ridurre l’impatto di tale indice attraverso stravaganti idee dei keynesiani di sinistra per stimoli alla crescita: green economy, progetti ambientali e progetti infrastrutturali tanto fantascientifici quanto inutili; e per tutto ciò le soluzioni di finanziamento potrebbero derivare da l’emissione di nuovi strumenti finanziari, come gli eurobond per attrarre liquidità dal resto del mondo e sostenere tale modalità di investimenti in una nuova crescita che porterebbe come conseguenza anche alla messa a privatizzazione della stessa spesa sociale (ospedali privati, università private, fondi pensione, ecc.). Non si rendono conto che tale ipotesi necessariamente indebolirebbe fortemente l’euro sui mercati internazionali innescando una ancor più forte competizione internazionale mortale per l’unione monetaria europea e per il futuro dell’area valutaria dell’euro.
L’euro è servito per rinforzare i padroni esportatori dei paesi centrali dell’Europolo, cioè il polo imperialista europeo, e per indebolire la posizione commerciale e subordinare la dinamica di accumulazione nei paesi periferici del Mediterraneo alla divisione internazionale del lavoro imposta dai paesi centrali; in tal modo Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (PIIGS con l’aggiunta dell’Irlanda) si convertono sempre più in riserve di servizi turistici e residenziali, o di servizi generali alle imprese, sottomessi ad un processo di deindustrializzazione più o meno accelerato.
Per questo non si può avere una uscita dalla crisi che non pregiudichi sempre più i lavoratori senza modificare le regole del sistema monetario e finanziario vigente.
La politica dell’austerità non è una soluzione, perché come segnalano molti analisti, la riduzione degli investimenti riduce l’accumulazione a lungo termine, e la riduzione del consumo pubblico restringe la domanda globale e pertanto la crescita a breve termine, al punto che l’aumento della disoccupazione e la chiusura delle imprese riducono la base in positiva fiscale e il problema del deficit, lontano dal correggersi, si aggrava. La politica di aggiustamento pertanto persegue il solo scopo di risolvere il problema di liquidità nel quale è caduta la Banca europea, mediante un trasferimento massiccio di redditi dai lavoratori al capitale, per via diretta con l’attacco contro le condizioni di lavoro e il salario, e per via indiretta con la riduzione dei trasferimenti sociali.
8.
Quindi i paesi dell’Europolo non hanno a disposizione strumenti economici efficaci per far fronte alla crisi economica.
È in ambito di questo scenario che le organizzazioni sindacali dei lavoratori sono chiamate a sviluppare un nuovo ciclo di lotte su un programma di fase per il lavoro e le eco-socio-compatibilità solidali per recuperare in termini redistributivi gli immensi incrementi di produttività che si sono realizzati in particolare in questi due ultimi decenni.
Se una prima risposta può essere lanciare una campagna del mondo del lavoro contro le regole del massacro sociale imposte dalle compatibilità economico-finanziarie dell’euro, la seconda questione che va posta all’ordine del giorno è rilanciare una serie di politiche di una efficiente nazionalizzazione e statalizzazione delle banche e dei settori strategici dell’economia.
Con una politica monetaria che obbliga a un piano di ulteriore attacco ai diritti e al costo del lavoro, bisogna creare una nuova moneta che dimostri maggiori flessibilità nel rappresentare un tasso di cambio che rifletta un potere d’acquisto determinato sulla situazione economica reale delle regioni periferiche dell’area monetaria.
Il debito sovrano sta diventando un nodo nei paesi deboli perché con i soldi pubblici si sono finanziate le banche. Quindi la prima nazionalizzazione deve essere del sistema bancario. E poi sciogliere immediatamente il nodo di energia, trasporti e comunicazioni come settori strategici in mano allo Stato. Rifiutare il debito permette un rapido riassetto sociale attraverso la distruzione del capitale fittizio, facilitando le nuove basi per rilanciare l’attività produttiva socialmente utile grazie a facilitazione attraverso la concessione di favorevoli linee di credito sociale per investimenti di utilità pubblica e proprietà collettiva.
La nazionalizzazione dei settori strategici delle comunicazioni, energia e trasporti non solo può essere un prezzo giusto per ripagare i cittadini delle loro tasse affluite alle casse dello Stato e che sono state destinate ai salvataggi bancari, alle privatizzazione di banche e di ampi rami e settori produttivi pubblici, ma allo stesso tempo potrà portare le risorse per realizzare una strategia di rilancio produttivo a breve termine che permetta di creare le condizioni affinché milioni di disoccupati nei Paesi della periferia europea mediterranea comincino a produrre ricchezza sociale nel minor tempo possibile.
Con il non pagamento del debito pubblico è quindi il sistema bancario-finanziario che bisogna affrontare nei suoi interessi economici e politici, difendendo gli interessi socio-economici del mondo del lavoro. In tal modo si possono di conseguenza favorire gli investimenti in beni comuni, in servizi sociali, in nazionalizzazioni delle imprese dei settori strategici, aumentando di conseguenza i salari diretti, indiretti e differiti.
9.
Per quanto sia difficile la sostituzione del sistema della proprietà privata, risulta ancora più incredibile pensare che il capitalismo possa garantire un livello degno di vita per tutta la popolazione mondiale. Almeno su questo punto, Stati che hanno partecipato, o partecipano all’area socialista hanno dimostrato maggiore capacità nel dare soluzioni ai bisogni basilari della popolazione.
Nella ricerca di alternativa, la posizione utopica è quella che crede possibile riformare il sistema capitalistico, senza soppiantare i propri principi essenziali, per risolvere il problema della povertà, della miseria e dell’esclusione. I limiti allo sfruttamento e all’uso dello Stato come meccanismo di trasferimento di reddito, livellatore delle diseguaglianze, sono stati possibili solo in aree molto limitate del sistema e con la contropartita dell’esistenza di altri segmenti della forza lavoro mondiale il cui livello di sfruttamento compensa la riduzione dei profitti nel centro del sistema in cui domina lo Stato redistributore.
In ogni caso l’evoluzione prevedibile del sistema, in assenza di forze alternative, conduce verso un indebolimento dei meccanismi democratici e di partecipazione sociale e verso un rafforzamento dei meccanismi repressivi e di controllo di massa, già a cominciare dalla “tv spazzatura”, la vigilanza elettronica, la metropoli come carcere ideologico, la subordinazione del sistema educativo alle necessità delle compatibilità del capitale, ecc.
Il processo di centralizzazione e concentrazione del capitale porterà ad un rafforzamento del potere delle multinazionali e degli organismi internazionali della compatibilità con il capitalismo aggressivo come il FMI e BCE. La democrazia continuerà a perdere la propria consistenza, mutando in un ordine plutocratico della repressione ideologica funzionale al dominio del profitto. L’esistenza del monopolio non inibisce l’attuazione delle forze competitive che definiscono la logica profonda del conflitto sociale, in una riattivazione di una nuova dinamica del conflitto diretto capitale-nuovo mondo del lavoro e del lavoro negato.
Nelle tendenze attuali non rimane da scoprire nessuna forza interna al sistema che permetta di pensare alla possibilità di una ricomposizione delle condizioni del Patto Sociale del periodo post-guerra, che ha dato origine al cosiddetto “miracolo economico” con lo Stato sociale Keynesiano dei paesi centrali, molto meno per un’eventuale estensione dello stesso verso la maggioranza espropriata e impoverita del pianeta.
L’alternativa possibile e necessaria richiede la coniugazione immediata di un percorso tattico rivendicativo interno alle lotte e al conflitto sociale con la prospettiva strategica di potere del superamento in chiave socialista del modo di produzione capitalista. La politica è sempre stata al servizio dell’economia, quantomeno dal XIX secolo. Il discorso politico occultava precedentemente questi interessi nell’essenza dell’economia; ma nel XX secolo c’è stata una svolta, il discorso politico è stato colonizzato dagli interessi economici, al punto che oggi sembra che parlare di politica sia esclusivamente parlare di economia, di spesa pubblica, di interessi, di imposte, di marche legali, di legislazione del lavoro o legislazione commerciale. Questo è logico in un sistema che subordina lo sviluppo sociale agli interessi del profitto.
Per questo, una alternativa globale ridefinisce il discorso politico nel terreno del sociale e subordina, a questo discorso politico sul sociale, il discorso economico e il discorso politico sull’economia, a partire dalla centralità della pianificazione socio-economica.
Per tutto questo l’alternativa monetaria e finanziaria deve inserirsi in una proposta di integrazione economica e sociale del tutto differente da quella perseguita dall’Unione Economica e Monetaria e dal mercato unico.
Se i Paesi della periferia europea desiderano ritornare al controllo sull’attività produttiva questo lo possono realizzare soltanto in maniera congiunta e mediante un processo di rottura con il modello della finanza privata e dello spazio monetario asimmetrico vigente.
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E allora chiediamoci concretamente se uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili, sarebbe una alternativa realizzabile? E poi, ciò permetterebbe di mantenere un margine di negoziazione con le istituzione comunitarie e con la Banca Centrale Europea? Si può creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori? L’uscita dall’euro, quindi dall’Eurozona o Europolo, è un’opzione e un passo verso la soluzione dei gravi squilibri strutturali delle economie periferiche che non sono semplicemente squilibri finanziari ma sono innanzitutto di carattere produttivo: una struttura di base industriale in declino, un uso eccessivo e inefficiente enorme della forza lavoro, una concentrazione scandalosa di ricchezza e di patrimonio.
La capacità di resistenza e negoziazione è molto maggiore se realizzata congiuntamente, in particolare se ci si è rafforzati strutturalmente con la nazionalizzazione delle banche e dei settori strategici. Pertanto risulta imprescindibile per l’affermazione di una nuova moneta e di una politica orientata in favore dei lavoratori, contare su una nuova area fuori dalle regole dell’Europolo.
La nostra proposta su ALIAS è quindi quella di uscire come gruppo di paesi, con una nuova moneta, nazionalizzando in primis le banche e di attuare un blocco dei capitali in uscita e una tendenza al pareggio e poi al surplus nella bilancia dei pagamenti. Uno spazio produttivo nel quale si possa stabilire una nuova divisione del lavoro basata sui principi di uno sviluppo sociale collettivo solidale e un benessere qualitativo. Per far ciò si dichiara la necessità di un cambiamento radicale socioculturale (quello che in termini gramsciani si chiama un cambio di egemonia che modifichi il senso comune), che inverta le relazioni causali tra l’economia e la politica.
E’ ovvio, quindi, che tale proposta da credibile diventa realizzabile concretamente rilanciando il protagonismo nelle lotte dei lavoratori europei, ristabilendo la supremazia della politica sull’economia, trasformando così la crisi dell’Europolo in una forte ripresa di iniziativa del sindacalismo di classe. Con questa proposta si può quindi aprire un’ipotesi di dibattito e un percorso di pratica di lotte con un obiettivo diretto e raggiungibile, ma nello stesso tempo realizzare una possibilità concreta per i Sud del mondo che possano trovare nei PIIGS, e in generale nei paesi dell’area mediterranea, l’esempio di un percorso capace di sparigliare le carte del consociativismo cogestore della crisi Uscire dall’euro è quindi un’operazione complessa che non ha solo implicazioni monetarie.
Non si può pensare d’imporre un ritorno alla lira, alla pesetas o alla dracma, perché l’esistenza stessa dell’euro ha dato luogo ad un’evoluzione nel sistema monetario internazionale e a un’integrazione produttiva delle economie nazionali.
Solo in condizione di una forte autarchia sarebbe pensabile che un’economia nazionale europea sia realizzabile. Però non è garantito, né meno che meno che i questa condizione la qualità della vita della popolazione possa migliorare rapidamente. Una moneta propria all’interno dello stesso sistema monetario europeo, cosa che propongono alcuni analisti per Paesi come la Grecia, o per il resto di altri Paesi dell’Europolo con alti livelli di squilibrio fiscale nemmeno permette autonomia della politica monetaria per sviluppare una politica alternativa, perché tale eventuale moneta interna al sistema, nello stesso modo che oggi avviene per il resto dei Paesi dell’Unione Europea che non fanno parte dell’Unione Economica Monetaria ( in pratica l’area dell’euro), sarebbe soggetto ai criteri neoliberisti e a favore della finanza privata della Banca Centrale Europea.
Cambiare la moneta nei paesi con un forte squilibrio fiscale porta implicitamente ad una svalutazione quasi immediata. Per questo, il cambio della moneta richiede che allo stesso tempo, su questo non ci devono essere dilazioni, si rinomini il debito esterno ed interno con la nuova moneta LIBERA, al tasso di cambio che i governi considerano più appropriato. Ovviamente questo rappresenta un’altra fonte di tensione politica con i creditori in particolare con quelli interni alla stessa UE, dato che gli agenti finanziari europei sono i proprietari della maggior parte del debito della periferia mediterranea.
La nuova valutazione del debito con il rifiuto al suo pagamento di gran parte di esso e la rinegoziazione del resto, è un altro elemento necessario per ridurre il peso del debito passato sul finanziamento di un piano di espansione futuro.
Questo processo di deve applicare con rapidità, poiché ridurre il carico del debito è una condizione necessaria per poter iniziare un processo di forte creazione di posti di lavoro a caratterizzazione sociale.
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Per ragioni tattiche ci sembra conveniente separare la decisione tra la realizzazione effettiva di un’altra moneta, LIBERA, per realizzare una politica a favore dei lavoratori dalla decisione di abbandonare la UE. In pratica almeno per una prima fase e tatticamente varrebbe il principio “ che nella UE e fuori dalla UEM” infatti è sicuro che le restrizioni determinate dai trattati dell’Unione Europea a partire dall’Atto Unico e dal Trattato di Amsterdam fino al Trattato di Lisbona, ponendo la proprietà privata e i criteri di mercato al di sopra delle decisioni collettive dei cittadini e degli Stati ciò rende più difficile realizzare una politica alternativa basata sulla gestione sociale delle risorse rispettando, cosa di per sé impossibile, i principi della libera concorrenza e della gestione privata. Una Banca Centrale soggetta a decisioni pubbliche e a direttive democratiche dei rappresentanti dei cittadini è altrettanto incompatibile con i Trattati vigenti.
Per questi motivi una nuova moneta come LIBERA per la periferia europea confliggerebbe inevitabilmente con la strutturazione vigente in materia di integrazione europea.
Però non esiste un procedimento fissato per uscire dalla UE, e questo può facilitare la realizzazione della proposta per una nuova moneta per una gestione alternativa dell’economia e della politica, innescata inizialmente all’interno della UE, per aprire uno spazio che faccia avanzare un’ipotesi realmente riformista, contraria al neoliberismo e all’attuale struttura di dominio imperante.
In tutti i casi una nuova moneta per una gestione alternativa dell’economia e della politica imposta all’interno della UE, potrebbe essere un procedimento utile per offrire ai lavoratori dei Paesi centrali una possibilità di uscita dal disastro che presuppone la stessa costruzione dell’Europa neoliberista (cambiare le politiche porta con sé come esigenza quella di cambiare le regole della stessa Unione Europea), e può servire anche per limitare l’impatto della probabile reazione del capitale e dei suoi rappresentanti politici, reazione che potrebbe essere giustificata in caso di un’uscita volontaria e di un isolamento economico e politico dei Paesi della periferia dell’Europolo.
Per questo in una seconda tappa dopo la sua costituzione nei paesi della periferia dell’Eurozona, la nuova moneta e le nuove condizioni di sviluppo sociale ed economico devono diventare una proposta d’integrazione diretta alle altre periferie dell’area del capitale europeo: la periferia dell’Est d’Europa e quella dell’Africa Mediterranea.
I paesi dell’Est d’Europa sono stati trasformati dalle multinazionali europee in un processo di delocalizzazione industriale e produttiva in cui si realizza a basso costo del lavoro, necessario in particolare all’industria automobilistica e dei beni a media tecnologia per far sì che le imprese dell’Europa centrale rimangano competitive su scala mondiale. In tale maniera una parte del tessuto industriale dell’Europa mediterranea si è delocalizzata verso nuove aree d’integrazione dell’Unione Europea, dell’Est d’Europa o, quelle ad alto valore aggiunto, al centro dell’Europa. Però così si è andato determinando un grave e grande eccesso di manodopera che il capitalismo europeo è incapace di utilizzare in forma produttiva.
In maniera congiunta, il Mediterraneo e l’Est d’Europa raggruppa un insieme di formazioni sociali con un elevato grado di simmetria produttiva, paesi nei quali la politica monetaria e fiscale incontra un confluenza d’interessi, facilitando la possibilità di un processo di transizione attraverso politiche basate sul pieno impiego delle risorse produttive e con un miglioramento graduale ma deciso delle condizioni di vita di tutte le popolazioni.
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Ciò che si è presentato vuole quindi essere una ipotesi di dibattito ma nello stesso tempo una possibilità concreta per i Sud del mondo che possano trovare nei PIIGS, e in generale nei paesi dell’area mediterranea, l’esempio di un percorso capace di sparigliare le carte dell’ “azienda mondo”; un’occasione per appassionarsi a creare in maniera autodeterminata un’opportunità che dimostri che si può vivere delle risorse e delle proprie povertà che si contrappongono all’illusoria ricchezza della crescita quantitativa imposta dai potenti del mondo coi disastri di miseria da questa provocata.
La polarizzazione produttiva, gli interessi contraddittori e di dominio che caratterizzano l’Europolo, sarebbero così sostituiti da uno spazio di sviluppo post capitalista e orientato al socialismo (come oggi sta avvenendo nell’America Latina per i Paesi dell’ALBA): ALIAS che quindi suppone un modello alternativo a lungo termine anche per altri paesi della periferia europea, come ad esempio l’Irlanda dove si esprime attualmente la rottura, la fine del modello di accumulazione basato sulla defiscalizzazione delle rendite del capitale e dove meglio si sono impiantate le sedi delle multinazionali nordamericane e giapponesi. Ma l’alleanza alternativa ALIAS può includere anche successivamente paesi come il Belgio, o la stessa Gran Bretagna, il cui mantenimento nell’attuale divisione europea del lavoro è sempre più contraddittorio e problematico.
La nostra analisi non ha a che fare con una visione immediata di fine del capitalismo per “autodistruzione” e quindi in una sorta di teoria del crollismo. In assenza di un confronto di classe radicale e con forze soggettive organizzate del mondo del lavoro nuove e dinamiche capace concretamente di una ricerca di soluzioni, il sistema troverà ancora delle modalità attuative dei capitalismi per far sopravvivere il modo di produzione capitalista. Ciò soprattutto perché il passaggio ad un modo di produzione altro, meglio il passaggio alla società post-capitalista, presuppone ovviamente non solo l’esplosione dell’oggettività drammatica in cui si presenta la crisi ma la presenza organizzata della soggettività rivoluzionaria che può indirizzare la classe verso i percorsi reali di superamento del modo di produzione capitalistico.
NOTE
[1] ↑ Per approfondimenti sui temi trattati in questo controbuto si veda: Vasapollo L. (con R. Martufi, J.Arriola) Il risveglio dei maiali. PIIGS, seconda edizione, Jaca Book, Milano, 2012.
[2] ↑ Nel 1992 si ricorda infatti la cosiddetta crisi del Sistema Monetario europeo causato dalla “speculazione internazionale” che attaccò dapprima la lira (che subì una svalutazione) e poi la sterlina.
[3] ↑ Si ricorda come si suddivide la Massa monetaria.
Massa monetaria M0 è la moneta creata dalla banca centrale: banconote in circolazione e averi in conto giro delle banche presso la Banca Nazionale. Sulla Massa monetaria M0, la Banca Centrale esercita un’influenza diretta. Masse monetarie M1, M2, M3
L’aggregato monetario ristretto M1 comprende il contante (banconote e monete) e i saldi che possono essere immediatamente convertiti in contante o utilizzati per pagamenti, ovvero i depositi a vista.
L’aggregato monetario intermedio M2 comprende, in aggiunta a M1, i depositi con scadenze fino a 2 anni e i depositi rimborsabili con preavviso sino a 3 mesi. La definizione di M2 riflette il fatto che l’analisi e l’osservazione continua di un aggregato monetario che oltre al circolante comprenda depositi liquidi rivestono un particolare interesse per una banca centrale.
L’aggregato monetario ampio M3 comprende, oltre a M2, alcuni strumenti negoziabili emessi dal settore degli intermediari finanziari che l’elevato grado di liquidità e la certezza di prezzo rendono stretti sostituti dei depositi. Di conseguenza, rispetto alle definizioni di moneta più ristrette, M3 risulta meno influenzato da fenomeni di sostituzione tra le varie categorie di attività liquide e perciò più stabile. A differenza di M0, le masse monetarie M1, M2 e M3 sono composte per la maggior parte da moneta creata dalle banche (creazione di moneta). cfr. http://www.gambelli.org/download/banche%20-%20finanza/Capire_l’emissione_monetaria.pdf
[4] ↑ Si veda al proposito l’Economic Report of The President, 1981, Washington, USA.
[5] ↑ Si veda, anche per quanto sostenuto nel seguito: Vasapollo L. con Martufi R., Arriola J., Il risveglio dei maiali. PIIGS, Jaca Book, 2011.
CREDITS
Immagine in evidenza: Portogallo: studenti contro la Troika
Autore: Pedro Ribeiro Simões; 25 aprile 2013
Licenza: Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)
Immagine originale ridimensionata e ritagliata