Domenico Vasapollo Commissione Ambiente della Rete dei Comunisti in Contropiano Anno 21 n° 2 – dicembre 2012
C’è una relazione molto profonda tra l’attuale crisi economica e la crisi ecologica. Il nesso è tutto interno all’attuale modello produttivo.
La crisi climatica, quella energetica, l’impoverimento massiccio della biodiversità, la distruzione degli ecosistemi, la deforestazione sono le manifestazioni planetarie di un modo di produzione, quello capitalistico, che per sostenersi non ha avuto alternative alla inclusione della natura nella formazione del valore dei prodotti, cioè come componente del capitale nel suo proprio processo di valorizzazione, parte di capitale che si converte in mezzi di produzione.
Tradurre la natura in merce e inserirla tra i mezzi di produzione nel processo di valorizzazione del capitale è servito a contribuire al sostenimento del modello di consumo di massa basato su un uso intensivo delle risorse naturali. Il risultato è lampante tanto quanto devastante, ponendo in chiara evidenza, oltre alla crisi economica, una chiara crisi di civiltà.
Di fronte alla crisi ecologica, parte integrante e punta alta della crisi economica e sistemica, il capitale cerca di camuffare le reali contraddizioni spostando il problema dalle cause agli effetti.
Si propongono, allora, alternative che nella maggior parte dei casi rimangono comunque, consapevolmente o inconsapevolmente, direttamente o indirettamente, compatibili con il Modo di Produzione Capitalista.
Una di queste è certamente la green economy.
Allora vogliamo porre alcune riflessioni.
La green economy è effettivamente un’alternativa? Uno sviluppo economico basato sul questa, dove comunque la finalità rimane l’accumulazione capitalista, può considerare i danni ambientali? Può realmente realizzare quel miracolo occupazionale di cui parla? I rapporti di produzione, i fini della produzione, i rapporti sociali saranno diversi da quelli di prima? Quale legame c’è tra la green economy e il sistema delle multinazionali? Quale legame c’è con l’economia in mano alla criminalità organizzata? Ci chiediamo anche, ad esempio, se la green economy, più che una nuova economia per un nuovo modello di sviluppo, non sia il tentativo di riattivare un nuovo profittevole sistema di accumulazione.
La green economy, così cara ad Obama e alle lobby da lui rappresentate, e così entusiasticamente accettata da ampi settori politici italiani anche della sinistra e da quelli sindacali, primi fra tutti la CGIL (che con la sua IRES ha fatto ampi studi elogiativi sull’impatto quantitativo sull’occupazione), trova i favori di ampi settori del capitale. A parte tutti i principi astratti e teorici sulla “green economy” che parlano di mirabolanti effetti positivi sull’ambiente e sull’occupazione, la sua applicazione pratica ad oggi si concretizza in enormi investimenti pubblici in termini di incentivi e sgravi fiscali al capitale e leggi di sostegno alla incentivazione della produzione e al consumo.
La proposta di una “economia verde” parte da un’analisi econometrica per cercare, in modo mistificatorio, di far credere in uno sviluppo economico (dove comunque l’indicatore rimane il PIL) che considera i danni ambientali.
Ma il PIL, per essere sostenuto, non può prescindere dal modello di produzione capitalista.
Nella “economia verde” i rapporti di produzione, il fin della produzione, i rapporti sociali, sono gli stessi di prima. Non può essere altrimenti. Le pale eoliche o i pannelli fotovoltaici, ad esempio, nel sistema capitalistico sono merci, e come tali, nella loro produzione, circolazione e commercializzazione, seguono tutte le regole della produzione capitalista e del profitto.
Si dice che la green economy è un nuovo modello di sviluppo che contrasta il modello economico “nero” basato sui combustibili fossili, e si considera in grado sia di creare “lavori verdi”, che di assicurare una crescita economica sostenibile, di prevenire l’inquinamento ambientale, il riscaldamento globale, l’esaurimento delle risorse e il degrado ambientale.
In Italia nel 2011 si è prodotta energia elettrica eolica per 9,7 TetraWattora (+0,5 rispetto al 2010). Detto così potrebbe sembrare un dato incoraggiante. La domanda di energia elettrica in Italia nel 2011 è stata pari a 332,3 TetraWattora, quindi la produzione di energia eolica in Italia equivale soltanto a poco meno del 3% del fabbisogno elettrico nazionale. Poiché i consumi di elettricità rappresentano meno del 40% del consumo totale di energia, l’energia prodotta dall’eolico rappresenta appena l’1,1% nel fabbisogno energetico nazionale.
Per questo 1,1% sono istallati oltre 200 “parchi eolici” (nome ovviamente accattivante, usato per non chiamarle centrali elettriche) per un totale di migliaia di pale eoliche. Molti di questi “parchi eolici” sono stati realizzati su aree protette (vietato), falsificando mappe catastali per sviare le leggi relative alla vicinanza a luoghi abitati, con la connivenza di amministratori locali. Circa il 90% sono stati costruiti nel sud Italia (43 in Sicilia, 29 in Sardegna, 28 in Puglia, 24 in Calabria, 17 in Molise, 15 in Basilicata, 15 in Campania, 11 in Abruzzo).
Sono stati realizzati e sono gestiti dalle più importanti multinazionale dell’energia, sia italiane che straniere, in “società” spesso con la criminalità organizzata che concede i terreni e crea Società fittizie di progettazione e gestione delle commesse.
La produzione di energia elettrica fotovoltaica in Italia nel 2011 è stata pari a circa 10,6 TetraWattora, con un incremento, senza precedenti, di 7,5 TetraWattora rispetto al 2010.
Questa produzione equivale soltanto al 3,2% del fabbisogno elettrico nazionale e al 1,2% del fabbisogno energetico italiano.
Questa impennata nel 2011 della produzione di energia elettrica fotovoltaica è spiegabile grazie all’entrata in vigore del Decreto Legislativo 3 marzo 2011 n. 28, che prevede incentivi per l’installazione di impianti solari fotovoltaici con moduli collocati a terra in aree agricole. E’ così che oggi l’energia fotovoltaica in Italia viene prodotta per il 43% da impianti a terra, impegnando una superficie di 33,2 milioni di metri quadrati (3.316 ettari). La stragrande maggioranza di questa superficie e su
terreni agricoli provocando, oltre alla sottrazione di terre coltivabili, una sfrenata speculazione fondiaria e una impennata dei prezzi dei terreni. E’ così che si è dato avvio alle distese infinite di pannelli solari fotovoltaici che occupano campagne e zone agricole. Neanche l’art. 65 del Decreto Legge n° 1 del 2012, convertito in Legge 27 del 2012, che prevede la cessazione degli incentivi per impianti fotovoltaici a terra in aree agricole, per la sua poca chiarezza, deroghe ed eccezioni, ha risolto il problema, anzi per alcuni aspetto lo ha anche aggravato.
I grandi impianti eolici e fotovoltaici sono di proprietà di grandi multinazionali, prime fra tutte Edison ed Enel ma anche altre, sono le stesse, direttamente o indirettamente, che spesso producono anche“energia nera”.
A parte le considerazioni sui danni paesaggistici e naturalistici degli impianti eolici e fotovoltaici, e i meccanismi speculativi, di corruzione, di sfruttamento, di connivenza con la criminalità descritti sopra, in Italia esiste una legge (il Decreto Bersani) che prevede i cosiddetti “certificati verdi”. Chi produce energia ne deve produrre una percentuale di tipo rinnovabile, chi non lo fa, o sta sotto la percentuale, deve acquistare i “certificati verdi” pari alla percentuale mancante. Chi produce più energia da fonti rinnovabili della percentuale dovuta, può vendere i “certificati verdi”.
Se chi vende “certificati verdi” non li vende tutti, questi vengono acquistati comunque dal GSE S.p.A. (Gestore Servizi Energetici), una Società interamente controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che ha anche il compito di emettere i “certificati verdi”, quindi, in sostanza, di fare da intermediario tra chi compra e chi vende. E’ evidente allora che produrre energia alternativa in Italia non serve a diminuire la produzione di quella da fonti non rinnovabili, ma serve sostanzialmente al capitale e alle multinazionali a vendere “certificati verdi”. Le Società che producono “energia nera” non hanno nessun interesse a diminuire la loro produzione, tanto possono comprare i “certificati verdi”, spesso da loro stessi.
Ma all’interno della green economy si possono anche ad esempio proporre pratiche come quelle della produzione dei cosiddetti biocombustibili (mais, grano, oli vegetali, ecc.), che meglio e più correttamente dovrebbero essere definiti agrocombustibili, cioè una soluzione ai problemi energetici e di emissione di CO2 mistificatoria e criminale. La produzione di agrocombustibili è infatti mistificatoria perché non risolve i problemi ambientali, anzi li acutizza: deforestazione per l’acquisizione di sempre maggiori terreni da coltivare, inquinamento dei suoli e delle falde acquifere con l’uso massiccio di diserbanti, concimi chimici e antiparassitari, maggiore sviluppo degli OGM per aumentare la quantità di produzione, impoverimento della biodiversità agricola con lo sviluppo massiccio delle monocolture, impiego smisurato di acqua per l’irrigazione, sono solo alcuni degli effetti sulla natura che la coltivazione di prodotti agricoli per produrre agrocombustibili provoca, senza parlare di quelli degli stessi impianti di produzione. E’ criminale perché produce nuovo colonialismo, aumenta i prezzi dei più importanti e primari prodotti agricoli, usa questi a scopo energetico invece che a scopo alimentare.
Questo solo per fare alcuni esempi di “economia verde”: un’invenzione mistificatoria del capitalismo che rimane quindi tutta interna al conflitto capitale -lavoro.
Non c’è soluzione a questa crisi di natura economica e non si può ragionare sulla questione “green economy si o no” fine a se stessa.
Qualsiasi essere ragionevole, davanti ad una proposta se facciamo delle automobili che inquinino di meno o se mettere dei depuratori che abbiano un impatto sull’ambiente migliore, come farebbe a dire di no.
Il problema è ragionare in vari termini.
Il primo è sull’aspetto energetico: oggi non c’è la condizione per un processo di accumulazione, e ammesso che ci troviamo nella terza rivoluzione industriale, dopo la prima rivoluzione inglese, e dopo quella successiva al ’29, cioè quella del fordismo, accompagnate la prima dalla fonte energetica del carbone e la seconda dal petrolio, nella quale di fatto ancora stiamo, oggi oltre a non esserci un modello di accumulazione profittevole nuovo, profittevole rispetto ovviamente ai ritmi di accumulazione desiderati, oggi non c’è, anche per i capitalisti, una energia che possa accompagnare questa terza rivoluzione industriale Non esiste ad oggi una energia alternativa, quindi la green economy in campo energetico diventa solo un sorriso.
Il secondo è l’aspetto della scienza e della tecnologia. Quando si parla di green economy non si può prescindere dal ruolo della tecnologia. La principale forza di crescita quantitativa del capitalismo è l’innovazione tecnologica che però l’ha trasformata in una sorta di riserva personale, in mano ai grandi potentati militari, politici, industriali, ai cosiddetti professionisti della scienza. Sotto la loro responsabilità la scienza, la tecnologia e quindi la green economy possono essere paventati come motori del progresso e addirittura come miti, ma in realtà hanno prodotto inefficienza, hanno generato spreco di risorse. Si chiami green economy o in qualunque altro modo, l’avanzamento scientifico dovrebbe avere come obiettivi il miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità, come conoscenza e necessità umana del sapere, come strumento per adattare i comportamenti umani alla natura.
Il terzo è di carattere economico. La cornice capitalistica, sia in fase di produzione ma anche in fase di consumo come in fase di sistema di contabilità, è inefficace per cercare di trovare alternative. Le risorse naturali vengono reputate merce, e in quanto merce devono passare per un sistema di contabilità basato non sul valore ma basato sul prezzo. Se il sistema merce considera le risorse naturali, per così dire, etichettate da un prezzo, ovviamente da questa questione non se ne può uscire, perché i prezzi che sono applicati alle risorse naturali non derivano dal loro valore di scambio, cioè dal loro valore di mercato. Ad esempio il valore di mercato dell’acqua, il valore di mercato del vento, il valore di mercato delle maree, il valore di mercato di qualsiasi risorsa naturale non esiste, e quindi non si può attribuire valore di scambio. Quindi la fase di produzione, come la fase di estrazione, quella di distribuzione, devono, in base ai criteri capitalistici, rispondere al criterio della disponibilità maggiore o minore in natura. Ma questo non è possibile, non si può determinare questa disponibilità in base al prezzo, cioè quando c’è meno disponibilità in natura si alza il prezzo e quindi si equilibra domanda e offerta. Questo si può fare su una merce, non si può assolutamente fare sulla trasformazione della materia fisica in materia prima, perché in nessun caso un prezzo può esprimere il carattere di stock esauribile. Le risorse naturali sono materia fisica, e in quanto tale sono esauribili o fortemente riducibili.
Quindi il problema è il controllo delle risorse naturali. Questo controllo attualmente è sottoposto alle regole della proprietà privata, quindi il problema dell’esaurimento non ha una soluzione per il fatto che le risorse sono soggette a queste relazioni di potere. Queste sono determinate da un processo che sfrutta sempre di più le risorse, senza tener conto della loro scarsezza o della loro esauribilità. Allora il problema è ancora una volta esclusivamente di natura politica. L’analisi di questo processo quindi non è di tipo economico, ma di un processo sociale dove la categoria di questo processo è come al solito la forza lavoro, e quindi l’estrazione di plusvalore, il tasso di sfruttamento del lavoro, e quindi rimane centrale il conflitto capitale-lavoro. Quando si parla di conflitto capitale-natura, non bisogna parlare di conflitto aggiuntivo, ma interno al conflitto capitale-lavoro, perché comunque è un processo sociale che ha come categoria il lavoro.
La green economy non è una alternativa tra una modalità di produzione e un’altra, il problema centrale è il Modo di Produzione Capitalista. Si può produrre in qualsiasi maniera, si può anche ipotizzare una produzione con energia rinnovabile, ma se dietro a questa c’è un modo di produzione capitalistico che fa si che tali risorse entrino in un ciclo produttivo e distributivo che ha al centro la questione della teoria del valore, quindi la determinazione del prezzo e legato ad un processo di accumulazione capitalistico, questa sarà esclusivamente incentrata sullo sfruttamento. Il problema vero è che davanti a questa crisi sistemica del capitale, quest’ultimo tenta di trasformarla in crisi strutturale come quella del ’29, cioè trovare un nuovo modello di accumulazione che rilanci il saggio medio di profitto. Rilanci non solo la massa di profitto sociale complessiva, ma che faccia si che dal circuito produttivo si possa valorizzare il capitale, quindi si possa ottenere un profitto che loro ritengano profittevole, cioè che reputino remunerativo. E’ ovvio quindi che la green economy va letta in questo modo, come il tentativo di riattivare un processo di accumulazione.
Il 7 e 8 novembre 2012 si sono tenuti a Rimini gli Stati Generali della Green Economy. Un meeting fortemente voluto dal Ministro dell’Ambiente Corrado Clini e dalla Fondazione dello Sviluppo Sostenibile di Edo Ronchi, promosso da un Comitato composto da 39 organizzazioni di imprese.
La composizione di questo Comitato Organizzatore e le sigle che vi hanno partecipato, sono già di per se eloquenti: dalla Federazione Imprese Servizi Ambientali, Federazione Imprese Servizi di Recupero e Riciclo dei Rifiuti, Associazione Depositi Costieri e Biocarburanti, tutti e tre di Confindustria, all’ Associazione Trasporti che rappresenta la quasi totalità delle società private che gestiscono il trasporto pubblico in Italia, fino ad arrivare alla Legacoop Servizi, passando per la Federazione delle Imprese Idriche ed Energetiche che controlla l’80% delle quote di mercato della fornitura di acqua in Italia, Associazione Produttori Energie Rinnovabili che annovera tra i suoi associati ad esempio l’ENEL, l’Edison, la WPD industria leader dell’energia eolica in Germania, la Vestas che è tra i più grandi produttori mondiali di pale eoliche con casa madre in Danimarca e negli Stati Uniti.
Non potevano mancare CGIL, CISL, UIL, UGL e le maggiori associazioni ambientaliste come WWF, Legambiente, Green Peace, Fare Verde (associazione ambientalista della destra, nata negli anni ’80 dal Fronte della Gioventù), e naturalmente il PDL con Antonio D’Alì e Maurizio Lupi e il PD con Ermete Realacci, Francesco Ferrante e Stefano Fassina.
Le commissioni di lavoro hanno elaborato 70 proposte, che costituiscono la “piattaforma programmatica per lo sviluppo di una green economy in Italia” varata in questo incontro.
Settanta punti che in sostanza tendono a regalare alle aziende considerevoli sgravi fiscali, favori alle banche, investimenti pubblici in favore delle aziende private, deregolamentazione di vincoli e procedure amministrative, la ricerca pubblica sempre più in mano alle imprese private, sistemi di vantaggi nella competizione sui mercati nazionali e internazionali, sviluppo dell’agricoltura e per la produzione di materie prime a fini industriali e per la produzione di agrocarburanti e non a fini alimentari, meccanismi tariffari che faranno levitare i costi agli utenti sulle erogazioni energetiche, contributi pubblici e favori all’industria automobilistica con nuove leggi sulla rottamazione e sull’obbligo di rinnovo del parco macchine nazionale pubblico e privato, depotenziamento del potere contrattuale, sindacale e dei diritti dei lavoratori sviluppando forme lavorative come il telelavoro.
Se qualcosa hanno veramente prodotto questi Stati Generali, questo è senz’altro mettere definitivamente in luce il vero volto della green economy: dare nuovi strumenti al capitale nel tentativo di riattivare anche in Italia profittevoli meccanismi di accumulazione, assolutamente in linea con le finalità del Governo Monti che vuole agganciare l’Italia alla grande borghesia Europea.
Allora diventa evidente che nella “economia verde” i rapporti di produzione, il fine della produzione, i rapporti sociali, sono gli stessi di prima. Non può essere altrimenti.
La green economy è questa, e non può essercene un’altra all’interno della compatibilità sistemica e della cogestione della crisi, il lato “verde” del capitalismo, la strategia del camaleonte, un modo per giocare a “testa o croce” ma sempre con la stessa moneta.
L’ambientalismo del capitale, compreso quello italiano, esce anche dai confini nazionali e diventa la nuova forma di colonialismo. Ci trova perfettamente d’accordo l’analisi del Presidente Evo Morales, come chiaramente prospettata nel suo intervento a Rio lo scorso giugno: “L’ambientalismo dell’ “economia verde” è il nuovo colonialismo per sottomettere i nostri popoli e i governi anticapitalisti”.
La strategia degli imperialismi è quella di mettere a profitto le risorse naturali, la sua eventuale momentanea conservazione non è altro che un modo di mettere temporaneamente da parte risorse per un’appropriazione privata nel momento in cui queste possono dare maggior valore in termini di accumulazione.
Per questo Evo Morales aggiunge: “Perciò l’ambientalismo è solo un modo di realizzazione del capitalismo distruttore, un modo graduale e scaglionato di distruzione mercificata della natura”. Come è anche una forma di privazione della sovranità dei popoli sulle proprie risorse, “ma l’ambientalismo del capitalismo è pure un colonialismo predatore perché permette che gli obblighi che hanno i paesi sviluppati di preservare la natura per le future generazioni siano imposti ai paesi in via di sviluppo, mentre i primi si dedicano in modo implacabile a distruggere mercificando l’ambiente, i paesi del nord si arricchiscono in mezzo a un’orgia depredatrice delle fonti naturali di vita e obbligano noi paesi del sud a essere i loro guardaboschi poveri. […] Vogliono creare meccanismi d’intromissione per monitorare, giudicare e controllare le nostre politiche nazionali, vogliono giudicare e punire l’uso delle nostre risorse naturali con argomenti ambientalisti”.
Una strategia degli imperialismi, dunque, e una nuova forma di colonialismo, per impedire processi fuori dal capitalismo, tenere i paesi in via di sviluppo sottomessi e aumentare il loro debito estero.
Chi si illude che sia possibile una diversa coniugazione della green economy, o è un ingenuo o è in cattiva fede, creando comunque al camaleonte lo sfondo sul quale mimetizzarsi.
Vasti settori della sinistra italiana ed europea, anche quella che si autodefinisce radicale, dell’associazionismo e di alcuni movimenti sociali, sono sempre più incapaci di un’elaborazione critica con gli strumenti dell’analisi marxiana.
Allora spesso parlano di controllo dei beni comuni, di nuovi modelli energetici, di generica necessità della sostenibilità ambientale e sociale, di “disaccoppiamento”, cioè una crescita economica capitalista priva dei danni ambientali e dalla perdita netta di risorse, fino a coniugare termini come dematerializzazione, biocoerenza ed ecosufficienza prescindendo dagli imperialismi, dagli effetti del colonialismo storico e attuale, dall’individuazione del ruolo delle multinazionali, dallo scontro all’interno degli attuali rapporti di produzione, dal ruolo della scienza e della tecnologia nello sviluppo dei mezzi di produzione del capitale.
Una sinistra sempre più appiattita su modelli di cogestione, se pur alternativi, della crisi e dell’attuale sistema economico e sociale, incapace di porsi nell’ottica della costruzione di un alternativa di sistema.
Non è necessario attendere il “sol dell’avvenire”, ma neanche prestarsi alla compatibilità e alla cogestione della crisi.
Bisogna avanzare proposte e programmi, anche tattici ma di netta rottura con le politiche del Governo Monti e di coloro che si candidano a sostituirlo in continuità con queste.
La nazionalizzazione delle banche e delle imprese strategiche oggi è un obiettivo credibile.
Far tornare il controllo sul credito in mani pubbliche, significa poter compiere reali investimenti in senso sociale e ambientale avendo come priorità gli interessi collettivi.
Le risorse strategiche del paese come energia, trasporti, telecomunicazioni vanno nazionalizzate affinché tutte le leve fondamentali dell’economia reale siano sottratte agli interessi privati e speculativi e solo così si potranno adottare reali misure di sostenibilità ambientale. Solo credito e settori strategici sotto il controllo pubblico potranno favorire reali processi produttivi ed economici compatibili con i cicli naturali.
Il non pagamento del debito pubblico, l’uscita dalla schiavitù dei vincoli europei e dell’eurozona, possono liberare risorse economiche da poter investire in senso sociale e ambientale.
Non si tratta di tornare alla lira, proposta velleitaria, populista, nazionalista e reazionaria, ma di immaginare una nuova area monetaria e commerciale, svincolata dalla morsa dei cambi fissi, tra i paesi della periferia produttiva europea con i paesi del Mediterraneo sud basata su ragioni di scambi equi e reciprocamente vantaggiosi. Questo potrebbe significare scambio di tecnologie e conoscenze scientifiche, materie prime, fonti energetiche in un meccanismo di reale cooperazione internazionale, priva al proprio interno dell’elemento competitivo, scevra da ogni forma di colonialismo e dallo strozzinaggio del debito e quindi dove è anche possibile “permettersi” l’attenzione verso i limiti della natura.
Su questo è possibile costruire una coalizione politica e sociale che sia in grado di innescare una visione alternativa di società, basata sugli interessi della maggioranza della popolazione.
Interessi antagonisti a quelli delle oligarchie in ogni modo esse si rappresentino, compresa quella dell’ “economia verde”.
CREDITS
Immagine in evidenza: Mostro verde
Autore: Mathieu Stern; 24 giugno 2022
Licenza: Unsplash
Immagine originale ridimensionata e ritagliata