Giorgio Gattei in Contropiano Anno 21 n° 2 – dicembre 2012
“La lotta delle classi nel mondo antico si muove principalmente
nella forma di una lotta fra creditore e debitore,
e in Roma finisce con la disfatta del debitore plebeo,
che viene sostituito dallo schiavo.”
(K. Marx, Il capitale. Libro primo, Roma 1965, p. 168).
1. Debito sovrano e “guerra di classe”
Alle volte l’indebitamento è necessario: altri ti prestano il denaro che ti serve per le necessità del momento e fino alla scadenza paghi soltanto gli interessi. Al termine rimborsi il valore-capitale, ma potresti anche non pagare niente se quel debito viene rinnovato con lo stesso od altro prestatore.
Così l’obbligazione debitoria si può trascinare nel tempo, giusto il detto che “solo domani pagherò!”.
E’ ciò che è successo al debito pubblico italiano che, di rinnovo in rinnovo, è raddoppiato dal 60% del PIL nel 1982 al 120% di oggi.
Eppure fino all’anno scorso nessuno sembrava preoccuparsene più di tanto: certamente ci si lamentava del peso finanziario che si stava accumulando sulle spalle delle future generazioni, ma si faceva ben poco per ridurlo. Tutto è invece precipitato con la firma del fiscal compactda parte del governo “tecnico” nel febbraio 2012 (e successiva ratifica parlamentare il 19 giugno): infatti col fiscal compacti cittadini italiani, volenti o nolenti, si sono impegnati a ridurre nell’arco di un ventennio il proprio debito sovrano fino al 60% del PIL, com’era peraltro la percentuale prevista dai parametri di Maastricht. Ma siccome quel debito ammonta a 2000 mld di euro (il 120% del PIL), ciò significa che, per portarlo a 1000 mld, i governi a venire, quale che sia la maggioranza che li sosterrà, dovranno iscrivere ogni anno al passivo di bilancio 50 mld di euro, da recuperare con imposte e tasse anche se si decidesse di non fare alcuna spesa pubblica! Ma perchè è così precipitata la questione del rimborso del debito sovrano? Perchè si sono definitivamente rovesciati i rapporti di forza tra le classi sociali. Quella “guerra di classe” (si abbia il coraggio di chiamarla così) che il movimento operaio italiano aveva ufficialmente aperto con l’“autunno caldo” del 1969 è arrivata al suo termine: sgominati e dispersi quei soggetti sociali che l’avevano promossa, non occorrono più quelle armi materiali (sappiamo tutti ben quali…) che lo Stato “dei padroni” ha dovuto mettere in campo per resistere e vincere lo scontro e per le quali aveva sostenuto così tante spese. Adesso può farsi restituire quanto aveva anticipato, perchè pagare il debito è, nella teoria economica, il gesto conclusivo di una guerra.
Finché c’è il conflitto lo Stato non può che indebitarsi per sostenerne il costo, ma quando sopraggiunge la pace spetta a tutti i cittadini, vincitori e vinti, saldare quell’impegno verso i suoi creditori che lo Stato ha contratto in nome loro. Ma seguiamo meglio in dettaglio lo svolgimento della teoria economica della “guerra”.
2. L’apertura finanziaria della “guerra”
Affrontare una “guerra” (proveniente dall’esterno o dall’interno qui non importa) non significa soltanto pianificare una resistenza materiale adeguata, ma pure programmare come pagarla. Se dal punto di vista militare far fronte ad un attacco richiede che lo Stato si doti di una strategia vincente di resistenza, dal punto di vista economico occorrono sia i mezzi materiali necessari che le risorse finanziarie per pagare quei mezzi. Per questo sostenere una “guerra” non è soltanto questione di uomini in azione (dai soldati ai politici, dai giornalisti ai magistrati), ma è pure questione di scelte economiche capaci di far affluire alle casse governative il denaro necessario per sostenere quelle spese. La teoria del circuito monetario di guerra, elaborata in Italia tra 1939 e 1943 per le esigenze belliche del momento ma estendibile a qualsiasi situazione di grave emergenza sociale, ne spiega la successione logica così.
Si dia una situazione di pace che non richiede alcun intervento statale perchè tutti i fattori produttivi (soprattutto il lavoro) sono impiegati. Ciascuno di essi riceve la sua retribuzione in moneta che spende nell’acquisto delle merci che vengono prodotte. Questo mondo perfetto viene sconvolto dallo scoppio di una “guerra”, alla quale lo Stato si oppone mobilitando le risorse materiali e finanziarie che gli servono per difendere l’ordine costituito. E siccome c’è bisogno che una parte dei fattori produttivi venga deviata verso l’utilizzo militare, lo Stato deve poterli acquistarli con una adeguata dotazione di denaro. Ma come fa a procurarsela? Le possibilità del finanziamento pubblico sono tre: imposte e tasse, emissione di titoli del debito pubblico, stampa di cartamoneta.
Però l’imposizione fiscale (che sarebbe la più solida economicamente facendo subito pagare il costo della “guerra” ai contribuenti) è lenta e complessa, oltre che invisa perché obbligatoria. Il debito pubblico ha il vantaggio di essere volontario (sottoscrive soltanto chi vuole), ma incerto nell’ammontare (se poi non sottoscrivono a sufficienza?). E così è la stampa di cartamoneta ad essere sul momento la soluzione più acconcia perchè immediata (il denaro è subito a disposizione), discreta (il pubblico ne viene a conoscenza solo successivamente) e sicura (si stampa quanto denaro occorre). Essa è quindi il volano finanziario che giustifica tutto quello che segue. Infatti, aumentando la quantità di denaro circolante lo Stato si dota subito del potere d’acquisto che gli serve per attivare gli armamenti, ma quella moneta aggiuntiva che affluisce sul mercato viene a premere sui prezzi delle merci rischiando di farli lievitare verso l’alto. A fronte del rischio di una deriva inflazionistica che, se mai l’emergenza militare dovesse prolungarsi potrebbe far fallire l’iniziativa di resistenza dello Stato, occorre che si provveda a soffocare quell’inflazione implicita nella sua decisione di stampare moneta.
3. Come la “guerra” può diventare continua
Per impedire la rincorsa dei prezzi soccorrono i due provvedimenti tipici di una “economia in stato d’assedio” che sono dati dal razionamento dei consumi(così che i cittadini, pur forniti di maggior moneta, non possano chiedere sul mercato più beni di quanto stabilito per legge) ed il calmiere di prezzi e salari, così che sindacati e imprese non possano approfittare della congiuntura straordinaria del momento per migliorare la propria posizione sociale. Se risultano efficaci, i due provvedimenti bloccano coattivamente la domanda di merci esprimibile dai cittadini, sia in termini di prezzi che di quantità, al precedente ammontare di pace. E così d’inflazione non è più il caso di parlare.
Però quella maggior moneta emessa, sebbene non spendibile sul mercato, resta ancora nella disponibilità dei suoi possessori privati, capitalisti o lavoratori che siano. Si tratta di un risparmio “vagabondo” (come allora è stato anche chiamato) che, se per il momento ristagna in forma liquida, potrebbe ricevere una destinazione di spesa, ad esempio sul “mercato nero”, aggirando i provvedimenti governativi di contenimento forzoso dei consumi. Per eliminare anche questa eventualità, che vanificherebbe il controllo governativo dell’inflazione, quell’eccesso di moneta imposto dall’emergenza bellica deve venire materialmente, ma soprattutto volontariamente, restituito allo Stato. E ciò si ottiene con l’emissione di titoli del debito pubblico che i cittadini dovrebbero sottoscrivere fino all’equivalenza col risparmio “vagabondo” esistente.
Se si fa l’ipotesi di comodo che l’entusiasmo patriottico sia tale da farli aderire al prestito anche senza interessi (e quindi a costo zero per lo Stato), l’introduzione del “debito sovrano” produce il risultato miracoloso di riportare “a casa” tutta la moneta immessa nella circolazione per il fabbisogno della “guerra”. E a questo punto la reiterazione della spesa militare potrebbe essere fatta addirittura con la medesima quantità di moneta rientrata nelle casse governative ed in assenza di spinte inflazionistiche.
Infatti, nonostante la maggior moneta che lo Stato deve ogni volta emettere, con la sua restituzione sotto la forma dell’acquisto dei titoli pubblici quella moneta non è mai in circolazione sul mercato e quindi è assicurata la situazione d’equilibrio iniziale dei prezzi. In questa maniera la “guerra” può continuare all’infinito senza costare monetariamente nulla.
Certamente per il momento si paga il costo materiale imposto dalla riduzione forzata dei consumi civili per lasciar spazio alle produzioni di “guerra”, ma questo costo lo sopportano i cittadini tutti, mentre si accumulano nelle mani dei loro sottoscrittori i titoli di Stato che progressivamente vengono emessi per sostenere una guerra continua.
4. La conclusione finanziaria della “guerra”
E’ solo quando la “guerra” si conclude che, cessato il bisogno della spesa militare, si possono fare i conti con quel debito pubblico che i buoni cittadini hanno progressivamente sottoscritto e di cui adesso rivendicano il pagamento da parte dello Stato. Che però ha condotto le ostilità solo come loro rappresentante, sicché devono essere tutti i cittadini a dargli il denaro per rimborsare quei debito che lui ha contratto, ma in nome loro. Ed essi lo pagheranno in qualità di contribuenti mediante l’imposizione di una maggiore tassazione che sia in grado di restituire ai creditori tutto l’ammontare del debito sovrano che si è accumulato nel tempo.
S’intenda bene: se tutti devono pagare le maggiori imposte e tasse, solo alcuni hanno però sottoscritto il debito sovrano. Si crea così una disparità tra chi ne deve pagare il rimborso ma ricevendo indietro la parte di debito pubblico (che per lui è credito) che gli spetta e chi le impose e tasse è costretto a pagarle e basta. S’immaginino due soli cittadini: A che ha scatenato la “guerra” e B che invece ha richiesto l’intervento dello Stato a sua difesa. Per dotarsi dei mezzi di resistenza lo Stato abbia stampato da subito 100 euro di cartamoneta, che poi ha recuperato emettendo titoli del debito pubblico per 100 euro sottoscritti (senza nemmeno interessi) dal cittadino B. Adesso che la “guerra” è finita e non c’è più bisogno di spesa militare, il debito pubblico deve essere rimborsato al cittadino B, ma per farlo lo Stato deve aumentare le imposte che saranno pagate da entrambi i cittadini, supponiamo in parti eguali di 50 euro ciascuno. Il cittadino B (che ha vinto) pagherà 50 euro di maggiori tasse, ma in cambio riceverà indietro l’ammontare del suo credito di 100 euro – e quindi a saldo incasserà 50 euro; il cittadino A, che è stato sconfitto, pagherà definitivamente 50 euro di tasse, che altro non è se non il costo della sua “guerra” perduta. Il suo reddito monetario disponibile viene così decurtato dal maggior carico fiscale abbassando il suo livello di consuma al di sotto della dimensione, già ridotta, di “guerra”. E a meno che il cittadino B, anch’egli pur colpito dalla tassazione, non decida di rovesciare in maggiori consumi l’intero valore del “credito sovrano” che gli è stato restituito in contanti, la scomparsa della moneta circolante per effetto della tassazione ridurrà la presenza di domanda sul mercato, mentre la fine della spesa militare provocherà una eccedenza di manodopera rispetto alle possibilità d’impiego. Ci sarà quindi sovrapproduzione e disoccupazione che sono i due caratteri della recessione post-bellica che mostra come il costo della “guerra” abbia finito per pesare sulle spalle di tutti i cittadini, vincitori e vinti che siano.
5. Scene di “guerra di classe” in Italia
Come s’era detto all’inizio, la “guerra di classe” si è aperta in Italia a mezzo degli anni ’60 del Novecento. Che sia stata conseguenza del conseguimento (di fatto) di una posizione di piena occupazione della manodopera oppure dell’irruzione della produzione fordista che aveva reso “rigida” la forza-lavoro che operava all’interno della “catena di montaggio”, resta il fatto che venne infranta quella “tregua salariale” che fino ad allora aveva assicurato la stabilità dei livelli di profitto. Dalla scadenza contrattuale del 1959 comincia perciò un processo di rivendicazioni operaie che porterà la quota dei salari sul reddito nazionale dal 30,0% del 1960 al 36,0% del 1972. Era la dimostrazione concreta del mutato rapporto di forza tra le classi sociali rispetto al quale padronato e governo italiano avrebbero dovuto misurarsi “militarmente”, e quindi anche finanziariamente.
La prima risposta è stata l’inflazione, così da recuperare in termini di potere d’acquisto (ossia al momento della vendita delle merci prodotte) quanto sfuggiva in termini di salario monetario all’atto della stipula del contratto di lavoro. A far ciò bastava una strategia di spesa pubblica generosa, giustificata dalla necessità di addomesticare e/o reprimere la spinta di classe, che lasciasse correre i prezzi all’insù. Fu così che a quel cosiddetto partito di Mirafiori, che aveva al centro la classe operaia di fabbrica intenzionata a dettar legge al “governo dei padroni”, si contrappose da subito un ben più robusto partito dell’inflazione deciso a riprendersi in termini di prezzo quanto si era costretti a cedere in termini di salario.
Quando però, prolungandosi troppo la “guerra di classe”, l’inflazione ha rischiato di prendere la mano superando le due cifre, si è dovuto cambiare strategia. Come da teoria, per rimediare all’eccedenza monetaria messa in circolazione si è costituito un diverso “partito della disinflazione” (come allora era chiamato) che però era il partito del debito pubblico avente l’obiettivo di riportare quella troppa moneta nelle casse dello Stato mediante il piazzamento tra i cittadini di titoli del debito pubblico, resi appetibili dagli alti tassi d’interesse assicurati ai sottoscrittori. E’ ovvio che a tanta offerta la domanda non venne a mancare ed essa ha dato origine al fenomeno di quel BOT people che ha avuto il compito di sostituire l’inflazione monetaria con il debito sovrano: quanto più questo si accumulava, tanto più i prezzi diminuivano. Perdurando una “guerra di classe” strisciante perchè il suo artefice non era intenzionato a cedere il campo, era giocoforza rimandare a più tardi il momento della resa definitiva dei conti.
Quel momento ha però richiesto l’annientamento dell’esercito avversario, a cui però si è potuto mettere mano soltanto dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, nazione discutibile quanto si vuole ma pur sempre referente internazionale del movimento operaio. Finita l’URSS è potuta seguire la “mutazione antropologica” del Partito Comunista Italiano, partito discutibile quanto si vuole ma pur sempre referente politico della classe operaia, e poi l’esclusione dal Parlamento nazionale dei partiti d’estrema sinistra, gruppuscoli discutibili quanto si vuole ma pur sempre referenti sociali del mondo del lavoro. Ma soprattutto c’è stato bisogno del superamento definitivo della rigidità della catena di montaggio fordista, sostituita dalla flessibilità/precarietà di una nuova maniera del produrre che solo per pigrizia continuiamo a chiamare ancora provvisoriamente “post-fordismo”. E solo a conclusione di tutti questi fatti si è potuto riconoscere che l’avversario di classe era definitivamente debellato e quindi proclamare raggiunta la tanto agognata pace dei padroni.
Senza più appoggi esterni, senza più rappresentanza interna, senza nemmeno più coesione sociale propria, alla parte sconfitta non resta che pagare il costo della “guerra” che aveva voluto scatenare. E così al “partito del debito sovrano” ha potuto sostituirsi il partito delle imposte e delle tasse – e che ciò sia dovuto avvenire ad opera di un governo “tecnico” subalterno alle “raccomandazioni” europee la dice lunga su quanto il precedente sistema dei partiti fosse compromesso con la politica dell’indebitamento pubblico e facesse fatica a rinunciarvi. Ma ormai ad una manodopera collettiva che, se sarà pure in “sé” non è però più “per sé”, non resta che sentirsi in debito e pagare, restituendo ai creditori dello Stato la spesa pubblica anticipata lungo tanti anni per sconfiggerla. E l’ammontare di quanto c’è da pagare è la miglior prova della gravità e della durata di quella “guerra di classe” inaugurata negli anni ’60 del secolo scorso e che adesso, negli anni dieci del XXI secolo, non si può far altro che riconoscere terminata. E perduta, a meno che…
6. Conclusione Bibliografia minima a mo’ di riapertura:
- G. Airaudo, La solitudine dei lavoratori,Einaudi.
- L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza.
- G. Standing, Precari. La nuova classe esplosiva, Il Mulino
CREDITS
Immagine in evidenza: Occupyamo Piazza Affari
Autore: Rete dei Comunisti; 31 marzo 2012
Licenza: Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 2.0 Generico (CC BY-NC-SA 2.0)
Immagine originale ridimensionata e ritagliata