V. I. Lenin dal cap. IV del Che fare? in Contropiano anno 22 n° 1 – settembre 2013
Le affermazioni del Raboceie Dielo, da noi sopra analizzate, secondo cui la lotta economica è il metodo più largamente applicabile di agitazione politica, secondo cui il nostro compito consiste oggi nel dare alla stessa lotta economica un carattere politico, ecc., sono il riflesso di una concezione ristretta dei nostri compiti, non solo nel campo politico, ma anche nelle questioni organizzative.
La “lotta economica contro i padroni e contro il governo” non richiede affatto – e quindi non può neanche suscitare – un’organizzazione centralizzata per tutta la Russia, che unisca, per un attacco generale, tutte le diverse manifestazioni di opposizione politica, di protesta e di indignazione, un’organizzazione di rivoluzionari professionali, diretta da veri capi politici di tutto il popolo. Ciò è comprensibile. La struttura di ogni organismo è necessariamente ed inevitabilmente determinata dal contenuto della sua attività. Con le sue affermazioni, analizzate sopra, il Raboceie Dielo consacra e legittima quindi la limitatezza non solo dell’azione politica, ma anche del lavoro organizzativo. Anche in questo caso, come sempre, la consapevolezza cede il passo alla spontaneità. E pertanto la venerazione per le forze organizzative sorte spontaneamente, il rifiuto di comprendere quanto il nostro lavoro organizzativo sia ristretto e primitivo e fino a qual punto, in questo campo importante lavoriamo ancora con metodi “artigiani”, tutto ciò, affermo, è un serio indizio del male che affligge il nostro movimento. Naturalmente non si tratta di una crisi di decadenza, ma di sviluppo. Oggi però, mentre l’ondata della rivolta spontanea travolge, si può dire, anche noi dirigenti ed organizzatori del movimento, è assolutamente necessario combattere con inflessibilità contro chiunque intenda difendere la nostra arretratezza e voglia legittimare la nostra limitatezza nelle questioni organizzative; è necessario risvegliare in tutti coloro che partecipano o si preparano a partecipare al lavoro pratico il malcontento contro il primitivismo imperante fra noi e la incrollabile determinazione di sbarazzarcene.
a) Che cos’è il primitivismo?
Cerchiamo di rispondere a questa domanda tracciando un quadro dell’attività di un circolo socialdemocratico tipico tra il 1894 e il 1901. Abbiamo già accennato all’entusiasmo per il marxismo che animava la gioventù universitaria d’allora. Tanta passione era naturalmente suscitata, più che dal marxismo come teoria, dalla risposta che il marxismo dava alla domanda: “che fare?”, dall’appello a marciare contro il nemico. E i nuovi combattenti s’accingevano alla lotta con una preparazione e con armi straordinariamente primitive. Per lo più le armi erano poche e la preparazione mancava del tutto. Si andava in guerra come contadini mai staccatisi prima dall’aratro, armati solo di un bastone. Senza nessun legame con i vecchi militanti, senza legami con i circoli delle altre città e neppure con quelli degli altri rioni (o delle altre scuole) della propria città, senza nessun coordinamento tra le varie parti del lavoro rivoluzionario, senza nessun piano di azione sistematico per un periodo più o meno lungo, il circolo studentesco si mette in contatto con degli operai e incomincia il lavoro.
Sviluppa progressivamente una propaganda e un’agitazione sempre più intense; si attira così, per il solo fatto della sua costituzione, la simpatia di un numero abbastanza grande di operai, la simpatia di una certa parte dei ceti sociali colti, che danno del denaro e mettono a disposizione del “comitato” sempre nuovi gruppi di giovani. Il prestigio del “comitato” (o dell'”Unione di lotta”) aumenta, il suo campo d’azione si allarga e la sua attività si estende spontaneamente. Coloro che, un anno o qualche mese prima, parlavano nei circoli studenteschi, decidono sul cammino da seguire, creano e mantengono rapporti con gli operai, preparano e lanciano dei manifestini, si mettono in contatto con altri gruppi di rivoluzionari, si procurano della stampa, cominciano a pubblicare un giornale locale, cominciano a parlare di organizzare una manifestazione, passano infine alle ostilità aperte (sarà, secondo le circostanze, un primo foglio di agitazione, il primo numero di un giornale o una prima manifestazione); ma allora, e di solito, l’apertura delle ostilità provoca il crollo immediato e completo. Immediato e completo proprio perché quelle operazioni militari non erano il risultato di un piano sistematico per una lotta lunga ed accanita, precedentemente meditato e minuziosamente preparato, ma semplicemente lo sviluppo spontaneo del lavoro di un circolo su una base tradizionale; perché la polizia quasi sempre conosceva in quella determinata località i principali dirigenti che avevano già “fatto parlare di sé” sui banchi delle università e perché, attendendo il momento propizio per una vasta retata, aveva lasciato che il circolo crescesse e si sviluppasse al fine di avere nelle sue mani il corpus delicti e ogni volta aveva intenzionalmente lasciata libera qualche persona conosciuta “per il seme” (è l’espressione tecnica usata, per quanto io sappia, sia dai nostri che dai gendarmi). Questa guerra ricorda la marcia delle bande contadine, armate di bastoni, contro un esercito regolare. E non si può che ammirare la vitalità di un movimento che si ingrandiva, si estendeva e riportava vittorie nonostante la completa mancanza di ogni preparazione da parte dei combattenti. Il carattere primitivo dell’armamento era, è vero, non solo inevitabile all’inizio, ma anche storicamente legittimo, perché permetteva di attirare un gran numero di combattenti. Ma appena cominciarono le operazioni serie (e queste cominciarono con gli scioperi dell’estate del 1896) i difetti della nostra organizzazione divennero sempre più evidenti. Dopo un momento di sorpresa e dopo aver commesso tutta una serie di errori (come l’appello all’opinione pubblica contro i misfatti dei socialisti, la deportazione degli operai dalle capitali nei centri industriali di provincia), al governo non occorse molto tempo per adattarsi alle nuove condizioni di lotta e per disporre nei punti opportuni le proprie squadre di provocatori, di spie e di gendarmi forniti dei mezzi tecnici più perfezionati. Le retate diventarono così frequenti, colpirono tanta gente, fecero un tale “repulisti” nei circoli locali che la massa operaia perdette letteralmente tutti i dirigenti, il movimento si disorganizzò in modo incredibile e fu impossibile mantenere qualsiasi continuità e organicità nel lavoro. La straordinaria dispersione dei militanti locali, il fatto che i circoli erano composti da gente capitatavi per caso, la mancanza di preparazione e l’orizzonte ristretto nel campo teorico, politico e organizzativo: tutto ciò fu il risultato inevitabile delle condizioni descritte più sopra. In certi luoghi, data la nostra mancanza di precauzione e di misure cospirative, gli operai giunsero ad allontanarsi, per diffidenza, dagli intellettuali: la loro avventatezza – essi dicevano – provoca inevitabilmente gli arresti! Questo primitivismo, come sa chiunque conosca più o meno il movimento, è stato finalmente giudicato da tutti i socialdemocratici ragionevoli come una vera malattia. Ma affinché il lettore male informato non creda che noi «fabbrichiamo» artificialmente una fase o una malattia del movimento, citeremo il testimonio cui siamo ricorsi una volta. Spero che questa lunga citazione ci verrà perdonata.
«Se il passaggio graduale ad un’attività pratica più vasta — scrive B-v, nel n. 6 del Raboceie Dielo —, passaggio che è in funzione diretta del generale periodo di transizione attraversato dal nostro movimento operaio, è un fatto caratteristico… esiste un’altra caratteristica non meno interessante nel meccanismo della rivoluzione operaia russa. Vogliamo parlare della insufficienza generale di forze rivoluzionarie adatte all’azione che si fa sentire non solo a Pietroburgo, ma in tutta la Russia. A misura che il movimento operaio si intensifica, che la massa operaia si sviluppa, che gli scioperi diventano più frequenti, che la lotta di massa degli operai si manifesta più apertamente e che si aggravano le persecuzioni governative, gli arresti, le espulsioni e le deportazioni, questa insufficienza di forze rivoluzionarie altamente qualificate diventa più sensibile e si ripercuote indubbiamente sulla profondità e sul carattere generale del movimento. Molti scioperi si svolgono senza che le organizzazioni rivoluzionarie reagiscano direttamente e fortemente […]. Si avverte l’insufficienza di fogli di agitazione e di letteratura illegale […].
I circoli operai rimangono senza agitatori…
inoltre la scarsità di denaro si fa continuamente sentire. In una parola, la crescita del movimento operaio oltrepassa la crescita e lo sviluppo delle organizzazioni rivoluzionane. I militanti rivoluzionari sono oggi troppo pochi per tenere in pugno tutta la massa operaia in effervescenza, per armonizzare e organizzare in un modo qualsiasi tutte le manifestazioni di malcontento […]. I circoli, i rivoluzionari non sono uniti, non sono raggruppati, non formano un’organizzazione unica, forte e disciplinata, con tutte le sue parti razionalmente sviluppate…» Dopo aver dichiarato che l’immediata costituzione di nuovi circoli in sostituzione di quelli distrutti «prova solo la vitalità del movimento […] ma non dimostra che esiste un numero sufficiente di nuovi militanti rivoluzionari ben preparati», l’autore conclude: «La mancanza di preparazione pratica nei rivoluzionari pietroburghesi influisce sui risultati del loro lavoro. Gli ultimi processi, specialmente quelli dei gruppi dell’”Autoemancipazione” e della “Lotta del lavoro contro il capitale”, hanno dimostrato chiaramente che un giovane agitatore non perfettamente familiarizzato con le condizioni del lavoro, con le condizioni dell’agitazione in una determinata officina, ignorando i principi dell’azione clandestina ed avendo per solo bagaglio (se lo ha) i principi generali della socialdemocrazia, può lavorare forse per quattro, cinque o sei mesi. Dopo è inevitabile l’arresto, che provoca spesso il crollo, per lo meno parziale, dell’organizzazione. Può un gruppo lavorare utilmente e con successo quando la sua esistenza non dura più di qualche mese?… Evidentemente tutti i difetti delle organizzazioni esistenti non possono essere attribuiti unicamente al periodo transitorio… È evidente che il numero, e soprattutto la qualità dei militanti di queste organizzazioni, contano molto. Il primo compito dei nostri socialdemocratici […] consiste nell’unificare effettivamente le organizzazioni con una selezione rigorosa dei loro membri».
b) Primitivismo ed economismo
Dobbiamo ora soffermarci sulla questione che certamente tutti i lettori si sono già posta. Questo primitivismo, malattia di crescenza che colpisce tutto il movimento, è legato con l’economismo, considerato come una delle tendenze della socialdemocrazia russa? Crediamo di sì. La mancanza di preparazione pratica, di abilità nel lavoro organizzativo è una malattia che colpisce tutti, anche quelli tra noi che fin dall’inizio sono sempre rimasti sul terreno del marxismo rivoluzionario. E certamente non si può imputare ai militanti questa mancanza di preparazione come un delitto. Ma il primitivismo non consiste solo nella mancanza di preparazione; si riscontra anche nella ristrettezza del lavoro rivoluzionario in generale, nella incomprensione del fatto che tale ristrettezza ostacola la formazione di una buona organizzazione rivoluzionaria e infine – ed è la questione principale – si riscontra nei tentativi di giustificare tale ristrettezza e di farne una “teoria”, cioè nella sottomissione alla spontaneità anche in questa materia. Fin da quando si manifestarono tentativi in questa direzione, divenne evidente che il primitivismo era legato all’economismo, e che noi non ci saremmo sbarazzati della nostra ristrettezza, nel lavoro organizzativo, senza esserci prima liberati dell’economismo in generale (cioè della ristretta interpretazione della teoria marxista, della funzione della socialdemocrazia e dei suoi compiti politici).
Tali tentativi si sono manifestati in due direzioni. Gli uni hanno cominciato a dire: la massa operaia non si è ancora posta essa stessa compiti politici vasti e combattivi come quelli che le “impongono” i rivoluzionari; essa deve ancora lottare per le rivendicazioni politiche immediate, sviluppare la “lotta economica contro i padroni e contro il governo” (a questa lotta “accessibile” al movimento di massa corrisponde naturalmente un’organizzazione “accessibile” anche alla gioventù meno preparata). Altri, lontani da ogni “gradualismo”, hanno detto: noi possiamo e dobbiamo “fare la rivoluzione politica”, ma a tal fine non v’è nessun bisogno di creare una forte organizzazione di rivoluzionari che educhi il proletariato a una lotta continua ed accanita; basta che ci armiamo tutti di un bastone “accessibile” e familiare.
Per parlare senza metafore, dobbiamo organizzare lo sciopero generale o stimolare con “un terrorismo incitante” il movimento operaio che è un po’ addormentato. Queste due tendenze (opportunistica e “rivoluzionaria”) cedono di fronte al primitivismo dominante, non vedono il nostro compito pratico più urgente: creare un’organizzazione di rivoluzionari capace di garantire alla lotta politica l’energia, la fermezza e la continuità.
Abbiamo or ora riferito le parole di B-v: «La crescita del movimento operaio oltrepassa la crescita e lo sviluppo delle organizzazioni rivoluzionarie». Questa «informazione preziosa di un osservatore bene informato» (come dice il Raboceie Dielo a proposito dell’articolo di B-v) ci è doppiamente preziosa.
Dimostra che noi avevamo ragione di scorgere la causa fondamentale della crisi attuale della socialdemocrazia russa nel ritardo dei dirigenti («ideologi», rivoluzionari, socialdemocratici) rispetto allo slancio spontaneo delle masse. Dimostra inoltre che i ragionamenti degli autori della lettera economica pubblicata nel n. 12 dell’Iskra, Kricevski e Martynov, sul pericolo di sottovalutare l’elemento spontaneo, la grigia lotta quotidiana, sulla tattica-processo, ecc, sono appunto una difesa e un’esaltazione del primitivismo. Costoro, che non possono pronunciare la parola «teorico» senza una smorfia sprezzante che qualificano «senso della realtà» la loro venerazione per l’impreparazione e l’arretratezza, dimostrano di non comprendere niente dei nostri compiti pratici più urgenti.
Ai ritardatari gridano: «Al passo! Non troppo presto!». A coloro che mancano di energia e di iniziativa nel lavoro organizzativo e di «piani» vasti ed audaci, predicano la « tatticaprocesso»! Il nostro errore capitale consiste nell’abbassare i nostri compiti politici ed organizzativi al livello degli interessi immediati, «tangibili», «concreti» della lotta economica d’ogni giorno. Eppure continuano a ripeterci il vecchio ritornello: bisogna dare anche alla lotta economica un contenuto politico! Anche qui dimostrano di possedere un « senso della realtà» simile a quello dell’eroe della favola popolare che vedendo passare un funerale gridava: «Cento di questi giorni».
Ricordate l’impareggiabile alterigia, veramente alla «Narciso», con cui questi sapientoni predicavano a Plekhanov: «I compiti politici nel significato reale e pratico della parola, cioè nel senso della lotta pratica, razionale e utile per le rivendicazioni politiche, sono in generale [sic!] inaccessibili ai circoli operai» (Risposta della redazione del Raboceie Dielo, p. 24). Ma vi sono circoli e circoli, signori! Certamente i compiti politici sono inaccessibili a un circolo «artigianesco» fino a quando coloro che ne fanno parte non si saranno resi conto del loro primitivismo e non se ne saranno liberati. Ma se per di più questi dilettanti ne sono innamorati, se sottolineano immancabilmente la parola «pratico» ed immaginano che essere pratici significhi abbassare i propri compiti al livello delle masse più arretrate, allora, evidentemente, sono incurabili, e i compiti politici sono in generale realmente inaccessibili. Ma ad una cerchia di dirigenti come Alexeiev e Mysckin, Khalturin e Geliabov, i compiti politici sono accessibili nel significato più reale, più pratico della parola, precisamente nella misura in cui la loro ardente propaganda trova un’eco nelle masse che si destano spontaneamente, nella misura in cui la loro appassionata energia è sostenuta dalla energia della classe rivoluzionaria. Giustamente Plekhanov, invece di limitarsi a segnalare l’esistenza di questa classe rivoluzionaria e a provare che essa doveva di necessità destarsi spontaneamente all’azione, assegnava anche ai «circoli operai» un grande ed elevato compito politico. Ma voi vi basate sul movimento di massa, sorto in seguito, per abbassare questo compito, per restringere il campo d’azione e l’energia dei «circoli operai». Che cosa è questo, se non attaccamento dell’artigiano al proprio primitivismo? Vi vantate del vostro spirito pratico e ignorate ciò che qualunque «pratico» russo sa; non vedete i risultati meravigliosi che può raggiungere nel campo rivoluzionario l’energia non solo di un circolo, ma perfino di un individuo isolato. Credete forse che non possano sorgere nel nostro movimento capi simili a quelli sorti dopo il 1870? Perché non ve ne sarebbero? Perché siamo poco preparati? Ma noi ci prepariamo, continueremo a prepararci e saremo pronti. Sulle acque stagnanti della «lotta economica contro i padroni e contro il governo» da noi, purtroppo, si è formato uno strato di muffa: c’è della gente che si inginocchia, si prosterna dinanzi alla spontaneità e contempla religiosamente (secondo l’espressione di Plekhanov) «le parti posteriori» del proletariato russo. Ma noi sapremo sbarazzarci di quella muffa. Proprio ora il rivoluzionario russo, animato da una teoria veramente rivoluzionaria, appoggiandosi sulla classe veramente rivoluzionaria, che si desta spontaneamente all’azione, potrà finalmente — finalmente! — levarsi in tutta la sua statura e dispiegare le sue forze, da eroe antico.
È solo necessario che la massa dei militanti, e la massa più numerosa ancora di coloro che aspirano all’azione pratica fin dai banchi della scuola accolgano con scherno e disprezzo ogni tentativo di abbassare i nostri compiti politici e di restringere l’ampiezza del nostro lavoro di organizzazione. E noi vi riusciremo, signori, siatene sicuri.
Nell’articolo Da che cosa cominciare? ho scritto contro il Raboceie Dielo: «In ventiquattrore si può cambiare la propria tattica di agitazione in questa o quella questione particolare, la propria tattica in questo o in quel particolare della struttura del partito, ma soltanto individui senza principi possono cambiare in ventiquattrore, o anche in ventiquattro mesi, le proprie idee sulla necessità — in generale costante ed assoluta — di un’organizzazione di lotta e di un’agitazione politica tra le masse». Il Raboceie Dielo risponde «Quest’accusa dell’Iskra, la sola accusa che ha la pretesa di essere concreta, è fondata sul nulla. I lettori del Raboceie Dielo sanno molto bene che fin dall’inizio, senza attendere la pubblicazione dell’Iskra, li abbiamo incitati non solo all’agitazione politica (dicendo a questo proposito che non solo i circoli operai, «ma anche il movimento operaio di massa non può proporsi come suo primo compito politico l’abbattimento dell’assolutismo», ma tutt’al più la lotta per le rivendicazioni politiche immediate e che «le rivendicazioni politiche immediate» diventano accessibili alla massa dopo uno, o, nella peggiore delle ipotesi, più scioperi) […] ma con le nostre pubblicazioni abbiamo fornito dall’estero ai compagni militanti in Russia i soli ed unici materiali per l’agitazione politica socialdemocratica […] (e con questi soli ed unici materiali, non solo avete applicato largamente l’agitazione politica soltanto sul terreno della lotta economica, ma siete finalmente giunti alla conclusione che tale agitazione limitata è quella «più largamente applicabile». E voi non notate, signori, che i vostri argomenti provano precisamente la necessità della pubblicazione dell’Iskra — di fronte a quegli unici materiali — e la necessità della campagna dell’Iskra contro il Raboceie Dielo?) […]. D’altra parte le nostre pubblicazioni hanno preparato realmente l’unità tattica del partito […] (unità nella convinzione che la tattica è un processo di sviluppo dei compiti del partito che si sviluppano con il partito? Preziosa unità!) […] e hanno così reso possibile “l’organizzazione di combattimento” per la creazione del quale 1′ “Unione” ha fatto in generale tutto quanto può fare una organizzazione esistente all’estero» (Raboceie Dielo, n. 10, p. 15). Inutile tentativo di svignarsela! Che abbiate fatto tutto quanto vi era possibile non ho mai sognato di negarlo. Ho affermato ed affermo che i vostri limiti del «possibile » sono angusti a causa della miopia delle vostre concezioni. È ridicolo anche soltanto parlare di una «organizzazione di combattimento» per la lotta per le «rivendicazioni politiche immediate» e per la «lotta economica contro i padroni e contro il governo».
Ma se il lettore desidera vedere le perle della passione «economista» per il primitivismo, dovrà naturalmente rivolgersi non all’eclettico ed instabile Raboceie Dielo, bensì alla logica e risoluta Rabociaia Mysl. «Diciamo ora due parole sui cosiddetti intellettuali rivoluzionari — scrive la Rabociaia Mysl nel Supplemento speciale, p. 13. — Essi hanno, è vero, ripetutamente dimostrato di essere pronti ad “ingaggiare un corpo a corpo decisivo con lo zarismo”. Il male è che, perseguitati senza pietà della polizia politica, hanno scambiato la lotta contro quest’ultima con la lotta politica contro l’autocrazia. Perciò non hanno ancora risposto alla domanda: “Dove trovare le forze per la lotta contro l’autocrazia?”» Non è forse stupefacente questo disdegno della lotta contro la polizia da parte di un uomo che venera (nel senso peggiore della parola) il movimento spontaneo? Eccolo pronto a giustificare la nostra scarsa abilità nell’azione clandestina con il fatto che, in un movimento di massa spontaneo, la lotta contro la polizia politica non ha, in fin dei conti, nessuna importanza!! Pochi, pochissimi accetteranno una simile mostruosa conclusione, tanto la questione dei difetti delle nostre organizzazioni rivoluzionarie è diventata il punto dolente per tutti. Ma se Martynov, per esempio, non l’accetta, è solo perché egli non sa spingere, o non ha il coraggio di farlo, il suo ragionamento fino alla sua logica conclusione. Infatti, se la massa pone delle rivendicazioni concrete per raggiungere risultati tangibili, è forse questo un «compito» che esige ad ogni costo la creazione di un’organizzazione rivoluzionaria, combattiva, solida, centralizzata? Non può forse questo «compito» essere assolto anche dalle masse che non «lottano contro la polizia politica»? E inoltre, forse che questo compito potrebbe essere assolto se, oltre ai pochi dirigenti, non se lo addossassero anche gli operai che (nella loro stragrande maggioranza) sono incapaci di «lottare contro la polizia politica»? Questi operai che formano l’elemento medio delle masse, in uno sciopero, in una lotta di strada contro la polizia e contro le truppe, possono dar prova di un’energia e di un’abnegazione senza pari, possono (ed essi solo lo possono) decidere dell’esito di tutto il nostro movimento; ma la lotta contro la polizia politica esige qualità speciali, esige dei rivoluzionari di professione. E dobbiamo fare in modo che la massa operaia non solo «avanzi» le rivendicazioni concrete, ma «generi» anche dei rivoluzionari di professione in numero sempre più grande. Eccoci dunque giunti alla questione dei rapporti fra l’organizzazione dei rivoluzionari di professione e il movimento puramente operaio. Questo problema, poco discusso nella nostra stampa, ha molto occupato noi «politici» nelle nostre discussioni e nei nostri colloqui con i compagni che tendono più o meno verso l’economismo. È bene soffermarvisi. Ma finiamo prima di illustrare con un’altra citazione la nostra tesi sull’esistenza di un legame tra il primitivismo e l’economismo.
«Il gruppo “Emancipazione del lavoro” — scriveva N. N. nella sua Risposta — propugna la lotta diretta contro il governo, senza esaminare dove si trovi la forza materiale necessaria per questa lotta, senza indicare la via da seguire.» Sottolineando queste ultime parole, l’autore, a proposito della parola «via», nota: «Non si può trattare di scopi segreti, perché nel programma non si parla di un complotto, ma di un movimento di massa.
La massa non può seguire vie segrete. È forse possibile uno sciopero segreto? Una manifestazione ed una petizione segreta sono possibili?» (Vademecum, p. 59). L’autore affronta quindi la questione della «forza materiale» (organizzatori di scioperi e di manifestazioni) e delle «vie» della lotta, ma si dibatte nel dubbio e nel disorientamento perché «si prosterna» dinanzi al movimento di massa; lo considera cioè come un fattore che ci esime dall’attività rivoluzionaria e non come un fattore destinato a incoraggiare e a stimolare tale attività. È impossibile che uno sciopero sia segreto tanto per i suoi partecipanti quanto per coloro che vi sono direttamente interessati. Ma può rimanere (e, nella maggior parte dei casi, rimane) un «segreto» per la massa degli operai russi, perché il governo si preoccuperà di impedire qualsiasi contatto con gli scioperanti, qualsiasi diffusione di informazioni sullo sciopero. E allora occorre una «lotta» particolare «contro la polizia politica», lotta che non potrà mai essere attivamente sviluppata da una massa così numerosa come quella che partecipa allo sciopero. Questa lotta deve essere organizzata, «secondo tutte le regole dell’arte», da professionisti dell’azione rivoluzionaria. Dal fatto che la massa è spontaneamente trascinata nel movimento non scaturisce che l’organizzazione della lotta sia meno necessaria. Diventa invece ancora più necessaria perché noi socialisti, mancheremmo ai nostri obblighi diretti verso la massa se non sapessimo impedire alla polizia di tener segreto (e se, talvolta, non preparassimo segretamente anche noi) uno sciopero od una manifestazione qualsiasi. Noi possiamo farlo appunto perché la massa che si ridesta spontaneamente all’azione farà sorgere anche dal proprio seno un numero sempre più grande di «rivoluzionari di professione» (a condizione che non cominciamo ad invitare, su tutti i toni, gli operai a segnare il passo).
c) Organizzazione degli operai e organizzazione dei rivoluzionari
Se per un socialdemocratico il concetto di “lotta politica” coincide con il concetto di “lotta economica contro i padroni e contro il governo”, è naturale che per lui l’ “organizzazione dei rivoluzionari” coincida più o meno con l’ “organizzazione degli operai”. E ciò effettivamente accade agli economisti, sicché discutendo con costoro sull’organizzazione, parliamo letteralmente due linguaggi diversi. Ricordo per esempio una conversazione avuta un giorno con un economista abbastanza conseguente, di cui feci in quell’occasione la conoscenza. La conversazione cadde sull’opuscolo: Chi farà la rivoluzione politica? Ci trovammo subito d’accordo nel ritenere che il suo difetto essenziale consisteva nell’ignorare la questione organizzativa. Pensavamo già di essere completamente d’accordo, ma, proseguendo nella conversazione, ci accorgemmo che parlavamo di cose diverse. Il mio interlocutore accusava l’autore di ignorare le casse di sciopero, le società di mutuo soccorso, ecc.
Io, invece, mi riferivo all’organizzazione di rivoluzionari di professione, indispensabile per “compiere” la rivoluzione politica. Manifestatasi questa divergenza, a quanto ricordo, non mi sono mai più trovato d’accordo con quell’economista su una qualsiasi questione di principio.
Qual era l’origine delle nostre divergenze? Era nel fatto che gli economisti deviano costantemente dalla socialdemocrazia verso il tradunionismo, sia nei compiti organizzativi che nei compiti politici. La lotta politica della socialdemocrazia è molto più vasta e molto più complessa della lotta economica degli operai contro i padroni e contro il governo.
Parimenti (e per questa ragione) l’organizzazione di un partito socialdemocratico rivoluzionario deve necessariamente essere distinta dall’organizzazione degli operai per la lotta economica. L’organizzazione degli operai deve anzitutto essere professionale, poi essere la più vasta possibile e infine essere la meno clandestina possibile (qui e in seguito mi riferisco – è chiaro – solo alla Russia autocratica). Al contrario, l’organizzazione dei rivoluzionari deve comprendere prima di tutto e principalmente uomini la cui professione sia l’azione rivoluzionaria (ed è per questo che io parlo di un’organizzazione di rivoluzionari, riferendomi ai rivoluzionari socialdemocratici). Per questa caratteristica comune ai membri dell’organizzazione nessuna distinzione deve assolutamente esistere fra operai e intellettuali, e a maggior ragione nessuna distinzione sulla base del mestiere. Tale organizzazione necessariamente non deve essere molto estesa e deve essere quanto più clandestina è possibile. Soffermiamoci su questi tre punti.
Nei paesi politicamente liberi la differenza fra l’organizzazione tradunionista e l’organizzazione politica è evidente, come è evidente la differenza tra i sindacati e la socialdemocrazia. I rapporti di quest’ultima con le organizzazioni sindacali variano necessariamente da paese a paese, secondo le condizioni storiche, giuridiche, ecc.; possono essere più o meno stretti, complessi, ecc. (devono essere, secondo il nostro punto di vista, quanto più stretti e quanto meno complessi è possibile); ma nei paesi liberi l’organizzazione sindacale e quella del partito socialdemocratico non possono coincidere. In Russia l’oppressione autocratica cancella, a prima vista, ogni distinzione tra l’organizzazione socialdemocratica e le associazioni operaie, perché sia queste che i circoli sono tutti proibiti, e lo sciopero, manifestazione e arma principale della lotta economica operaia, è considerato un delitto comune (e qualche volta anche un delitto politico!).
Cosicché la situazione in Russia, da una parte “spinge” gli operai che partecipano alla lotta economica a porsi le questioni politiche, e dall’altra “spinge” i socialdemocratici a confondere il tradunionismo con la socialdemocrazia (i nostri Kricevski, Martynov e C, i quali parlano sempre del primo caso, non rilevano il secondo). Si pensi infatti a degli uomini assorbiti per il novantanove per cento dalla «lotta economica contro i padroni e contro il governo ». Taluni, per tutto il periodo della loro attività (quattro-sei mesi) non si troveranno mai di fronte alla necessità di una più complessa organizzazione di rivoluzionari. Altri, probabilmente, verranno a conoscere la letteratura bernsteiniana, relativamente abbastanza diffusa, e si convinceranno dell’importanza fondamentale dello «sviluppo della grigia lotta quotidiana». Altri infine si lasceranno forse sedurre dall’idea di dare al mondo un nuovo esempio di «legame stretto e organico con la lotta proletaria», di legame del movimento professionale con il movimento socialdemocratico. Essi penseranno che quanto più un paese giunge tardi al capitalismo, e quindi al movimento operaio, tanto più i socialisti possono partecipare al movimento sindacale e sostenerlo e tanto meno vi devono e vi possono essere dei sindacati non socialdemocratici. Fin qui il ragionamento è completamente giusto; il male è che si va oltre e si sogna una fusione completa fra la socialdemocrazia e il tradunionismo. Prendendo ad esempio lo statuto dell’«Unione di lotta di Pietroburgo», vedremo subito quale influenza nociva esercitino tali sogni sui nostri piani di organizzazione.
Le organizzazioni operaie per la lotta economica devono essere organizzazioni tradunioniste. Ogni operaio socialdemocratico deve, per quanto gli è possibile, sostenerle e lavorarvi attivamente. È vero. Ma non è nel nostro interesse esigere che solo i socialdemocratici possono appartenere alle associazioni “corporative”, perché ciò restringerebbe la nostra influenza sulla massa. Lasciamo partecipare all’associazione corporativa qualunque operaio il quale comprenda la necessità di unirsi per lottare contro i padroni e contro il governo! Le associazioni corporative non raggiungerebbero il loro scopo se non raggruppassero tutti coloro che comprendono almeno tale necessità elementare, se non fossero molto larghe. E quanto più saranno larghe, tanto più la nostra influenza su di esse si estenderà, non solo grazie allo sviluppo “spontaneo” della lotta economica, ma anche grazie all’azione cosciente e diretta degli aderenti socialisti sui loro compagni. Ma in un’organizzazione numerosa una stretta clandestinità è impossibile (poiché per questa occorre una preparazione ben più grande che per la lotta economica). Come conciliare la contraddizione tra la necessità di aver molti iscritti e insieme una severa clandestinità? Come ottenere che le organizzazioni corporative siano quanto meno clandestine è possibile? Non vi sono che due mezzi: o la legalizzazione delle associazioni corporative (che in alcuni paesi ha preceduto quella delle organizzazioni socialiste e politiche) o il mantenimento dell’organizzazione segreta, ma in modo così “libero”, così allentato, così lose, come direbbero i tedeschi, che per la massa dei soci la clandestinità si ridurrebbe a zero. La legalizzazione delle associazioni operaie non socialiste e non politiche è già cominciata in Russia, e non vi è dubbio che ogni passo nel rapido sviluppo del nostro movimento operaio socialdemocratico incoraggerà e moltiplicherà i tentativi di legalizzazione, che saranno fatti principalmente dai partigiani del regime attuale, ma anche dagli operai e dagli intellettuali liberali. I Vasiliev e gli Zubatov hanno già inalberato la bandiera della legalizzazione; gli Ozerov e i Wonns hanno promesso e dato il loro aiuto. Fra gli operai vi sono già dei seguaci della nuova tendenza. Dobbiamo perciò ormai tener conto di questa nuova corrente. In che modo? Su tale questione non vi possono essere tra i socialdemocratici due opinioni. Il nostro dovere è di smascherare senza tregua ogni partecipazione degli Zubatov, dei Vasiliev, dei poliziotti e dei preti a questa corrente, e svelarne agli operai le vere intenzioni. Dobbiamo smascherare anche qualsiasi nota «armonica» che, nelle riunioni operaie pubbliche, affiorasse nei discorsi dei liberali, sia che costoro credano sinceramente utile la pacifica collaborazione delle classi, sia che vogliano riuscir graditi alle autorità, sia che si tratti semplicemente di inetti.
Rete dei Comunisti Dobbiamo infine mettere in guardia gli operai contro le trappole della polizia, che nelle assemblee pubbliche e nelle società autorizzate prende nota degli «uomini che posseggono il fuoco sacro» e cerca di introdurre dei provocatori nelle organizzazioni illegali passando attraverso quelle legali.
Ma fare tutto ciò, non significa dimenticare che la legalizzazione del movimento operaio avvantaggerà, in fin dei conti, noi e non gli Zubatov. Con la nostra campagna di denunce, noi separiamo appunto il loglio del grano. Il loglio, lo abbiamo indicato. Il grano è la nostra azione che consiste nell’interessare il maggior numero possibile di operai, anche degli strati arretrati, alle questioni politiche e sociali; nel liberarci, noi rivoluzionari, da funzioni che in fondo sono legali (diffusione di opere legali, mutuo soccorso, ecc.) e che sviluppandosi ci daranno immancabilmente sempre più argomenti per l’agitazione. In questo senso possiamo e dobbiamo dire agli Zubatov e agli Ozerov: lavorate, signori; fate quanto vi è possibile! Voi tendete delle trappole agli operai — mediante la provocazione diretta o servendovi dello «struvismo», mezzo «onesto» per corrompere gli operai —, ma noi ci incaricheremo di smascherarvi. Se voi fate veramente un passo avanti — anche con un «timido zigzag» — vi diciamo: fate pure! Un vero passo avanti amplia, anche di pochissimo, se volete, ma ciò nonostante amplia effettivamente lo spazio entro il quale si muovono gli operai.
Ciò non può che esserci utile ed affrettare il sorgere di associazioni legali in cui i provocatori non piglieranno più in trappola i socialisti, ma i socialisti guadagneranno degli aderenti. In una parola, dobbiamo distruggere il loglio. Non è affar nostro coltivare il grano in camera, in piccoli vasi. Estirpando il loglio, dissodiamo il terreno e permettiamo al frumento di crescere. E mentre gli Afanasi Ivanovic e le Pulkheria Ivanovna si occuperanno delle piante da serra, noi dovremo preparare dei mietitori che sappiano oggi strappare il loglio e domani raccogliere il grano.
Perciò, con la legalizzazione noi non possiamo risolvere il problema di creare un’organizzazione professionale che sia la meno clandestina e la più larga possibile (ma saremmo ben felici se gli Zubatov e gli Ozerov ce ne offrissero una possibilità anche parziale, e per questo dobbiamo combatterli con la massima energia!). A noi resta la via delle organizzazioni professionali segrete e dobbiamo aiutare con tutte le nostre forze gli operai che si mettono già su questa strada (come sappiamo da fonte sicura). Le organizzazioni professionali possono essere utilissime non solo per sviluppare e consolidare la lotta economica, ma offrono inoltre un aiuto prezioso per l’agitazione politica e per l’organizzazione rivoluzionaria. Per ottenere questi risultati, per incanalare il movimento professionale che sorge nell’alveo desiderato dalla socialdemocrazia, occorre prima di tutto comprendere bene che il piano di organizzazione sostenuto dagli economisti di Pietroburgo da più di cinque anni è assolutamente assurdo. Questo piano è esposto nello Statuto della cassa operaia, del luglio 1897 (Listok Rabotnika, n. 9-10, p. 46, n. 1 della Rabociaia Mysl) e nello Statuto dell’organizzazione operaia sindacale dell’ottobre 1900 (foglio volante stampato a Pietroburgo e menzionato nel n. 1 dell’Iskra). I due documenti hanno un difetto fondamentale: espongono tutti i particolari di una vasta organizzazione operaia e la confondono con l’organizzazione dei rivoluzionari. Esaminiamo il secondo statuto, che è il più elaborato. È composto di 52 paragrafi: 23 paragrafi contengono le norme organizzative, il metodo di gestione e le funzioni dei «circoli operai» da organizzarsi in ogni fabbrica («dieci uomini al massimo») e che eleggono dei «gruppi centrali (di fabbrica)». «II gruppo centrale osserva tutto ciò che avviene nella fabbrica o nell’officina e fa la cronaca degli avvenimenti» (§ 2). «II gruppo centrale presenta ogni mese a tutti i soci un rendiconto finanziario» (§ 17), ecc. Dieci paragrafi sono dedicati all’«organizzazione di quartiere» e diciannove ai legami estremamente complessi del «Comitato dell’organizzazione operaia» con il «Comitato pietroburghese dell’ “Unione di lotta”» (delegati di ogni quartiere e dei «gruppi esecutivi», «gruppi per la propaganda, per le relazioni con la provincia e con l’estero, per l’organizzazione dei depositi, della stampa, della cassa»).
Si identifica così la socialdemocrazia con i «gruppi esecutivi » per quel che concerne la lotta economica degli operai! Sarebbe difficile dimostrare con maggior evidenza come la concezione dell’economista devii dalla socialdemocrazia verso il tradunionismo, e quanto poco egli si renda conto che il socialdemocratico deve pensare innanzi tutto a un’organizzazione di rivoluzionari capaci di dirigere tutta la lotta di emancipazione del proletariato. Parlare dell’«emancipazione poliziesca della classe operaia», della lotta contro «il regime zarista di arbitrio», ed elaborare degli statuti come questi, significa non comprendere nulla, assolutamente nulla dei veri compiti politici della socialdemocrazia. Nessuno di quei 52 paragrafi mostra che gli autori abbiano compreso la necessità di una vasta agitazione politica tra le masse, di un’agitazione che metta in rilievo tutti gli aspetti del regime autocratico e le caratteristiche delle varie classi sociali in Russia. Inoltre, con un tale statuto, non solo le finalità politiche, ma anche gli scopi tradunionisti del movimento rimangono irraggiungibili, perché essi esigono un’organizzazione per mestiere e lo statuto non ne fa parola.
Ma la caratteristica più spiccata è forse la straordinaria pesantezza di tutto il « sistema», che cerca di collegare ogni officina al «comitato» attraverso tutta una serie di regole eguali per tutti e minuziose fino al ridicolo, e prevede un sistema elettorale a tre gradi. Il pensiero, stretto nell’angusto orizzonte dell’economismo, scende a particolari che puzzano di scartoffie e di burocrazia. In realtà, si capisce, i tre quarti di quei paragrafi non saranno mai applicati, e d’altra parte un’organizzazione così «clandestina», con un gruppo centrale in ogni fabbrica, facilita considerevolmente le più vaste retate poliziesche. I polacchi sono già passati attraverso questa fase del movimento; si entusiasmarono un tempo per la fondazione su vasta scala di casse operaie, ma vi rinunziarono presto, perché si accorsero di fare il giuoco dei poliziotti. Se vogliamo vaste organizzazioni operaie al riparo delle retate e non vogliamo rendere dei servizi alla polizia, dobbiamo fare in modo che queste organizzazioni non siano soggette a una rigida regolamentazione. Potranno allora funzionare? Pensate un po’ a queste funzioni: «Osservare tutto ciò che avviene nell’officina e fare la cronaca degli avvenimenti» (§ 2 dello statuto). Ma, per far questo, è assolutamente indispensabile un regolamento minuzioso? Forse che le corrispondenze alla stampa illegale non raggiungeranno meglio lo scopo, anche se non verranno costituiti gruppi appositi? «Dirigere la lotta degli operai per migliorare le loro condizioni nell’officina» (§ 3). Anche per questo non c’è nessun bisogno di regolamento. Qualsiasi agitatore, per poco intelligente che sia, comprenderà facilmente, con una semplice conversazione, quali sono le rivendicazioni degli operai e potrà poi, conoscendole, riferirle ad un’organizzazione ristretta, e non ampia, di rivoluzionari, che pubblicherà un manifestino appropriato. « […] Creare una cassa con una quota di due copechi per rublo» (§ 9) e fare ogni mese un rendiconto finanziario (§ 17); escludere i membri che non pagano le quote (§ 10), ecc.
Ecco per la polizia una vera manna, perché nulla sarà più facile che scoprire tutto il gruppo clandestino della «cassa centrale di officina», confiscargli il denaro ed arrestare tutti gli elementi attivi. Non sarebbe più semplice emettere delle marchette da uno a due copechi, stampigliate da una determinata organizzazione (molto ristretta, molto clandestina), oppure, senza alcuna marchetta, fare delle collette di cui un giornale illegale renderebbe conto in modo convenzionale? Si raggiungerebbe egualmente lo scopo, e per la polizia sarebbe più difficile scoprire l’organizzazione.
Potrei continuare questa analisi dello statuto, ma mi sembra di averne parlato a sufficienza.
Un piccolo nucleo compatto, formato dagli operai più sicuri, più sperimentati e più temprati, che abbia dei fiduciari nei principali quartieri e sia collegato in modo assolutamente clandestino all’organizzazione dei rivoluzionari, potrà, con l’aiuto delle masse e senza alcuna regolamentazione, adempiere perfettamente tutte le funzioni di un’organizzazione professionale e inoltre assolverle nel modo migliore per la socialdemocrazia.
Solo in questo modo si potrà, a dispetto dei poliziotti, consolidare e sviluppare un movimento sindacale socialdemocratico.
Mi si obietterà che un’organizzazione lose al punto da non avere un regolamento, da non aver neppure iscritti noti e registrati, non può essere chiamata organizzazione. Può darsi: non m’importa il nome. Ma questa “organizzazione senza iscritti” farà tutto il necessario, e assicurerà fin dal principio un solido collegamento fra i nostri futuri sindacati e il socialismo. Chi, in regime di assolutismo, vuole una vasta organizzazione di operai con elezioni, rendiconti, suffragio universale, ecc. non è che un incurabile utopista.
La morale è semplice: se cominciamo col creare una forte organizzazione di rivoluzionari, potremo assicurare la stabilità del movimento nell’assieme e, in pari tempo, attuare gli scopi socialdemocratici e gli scopi puramente tradunionisti. Ma se cominciamo col costituire una vasta organizzazione operaia con il pretesto che essa è “accessibile” alla massa (in realtà sarà più accessibile ai poliziotti e porrà più facilmente i rivoluzionari nelle mani della polizia), non raggiungeremo né l’uno né l’altro scopo, non ci sbarazzeremo del nostro primitivismo, della nostra dispersione, dei continui arresti, non faremo che rendere più accessibili alle masse le trade-unions del tipo Zubatov od Ozerov.
Quali dovranno essere precisamente le funzioni di questa organizzazione di rivoluzionari? Ne parleremo in modo minuzioso. Ma esaminiamo prima un altro ragionamento tipico del nostro terrorista, che ancora una volta (triste destino!) procede di pari passo con l’economista. La Svoboda, rivista per gli operai, pubblica nel suo primo numero un articolo intitolato L’organizzazione, il cui autore cerca di difendere i suoi amici, gli operai economisti d’Ivanovo-Voznesensk: 1. È un male che la folla sia silenziosa e incosciente; che un movimento non sorga dal basso. Così, quando gli studenti delle città universitarie durante le feste o durante l’estate tornano alle loro case, il movimento operaio ristagna. Un movimento operaio che vive così, per un impulso esterno, può essere una vera forza? Evidentemente, no. Esso non ha ancora imparato a camminare da solo; bisogna sostenerlo con le dande. E il quadro è lo stesso dappertutto: partiti gli studenti, il movimento cessa; i più capaci vengono presi: tolta la crema, il latte inacidisce; si arresta il «comitato», e fino alla costituzione di un nuovo comitato la calma è di nuovo assoluta. D’altra parte, non si sa come sarà il nuovo comitato; può non rassomigliare affatto al precedente; quello diceva una cosa e questo dirà tutto l’opposto. Il legame tra lo ieri e il domani è spezzato, e l’esperienza del passato non serve all’avvenire. E tutto ciò perché il movimento non ha radici profonde nella folla, perché il lavoro non è fatto da un centinaio di imbecilli, ma da una decina di teste forti. Una decina di uomini cadono facilmente in bocca al lupo, ma quando nell’organizzazione c’è la folla, quando tutto sorge dalla folla, nessuno, per quanti sforzi faccia, può averne ragione (p. 63).
L’esposizione dei fatti è esatta. Il quadro del nostro primitivismo è ben tracciato. Ma per illogicità e mancanza di senso politico, le conclusioni sono degne della Rabociaia Mysl.
Esse sono illogiche, perché l’autore confonde il problema filosofico, storico e sociale delle «radici profonde» del movimento con il problema di una migliore organizzazione tecnica della lotta contro la polizia. E mancano di senso politico, perché, invece di voler sostituire i cattivi dirigenti con buoni dirigenti, l’autore vuole sostituirli in generale con la «folla». Questo è un tentativo di farci fare macchina indietro nel campo organizzativo, così come si tenta di farci retrocedere politicamente sostituendo lo stimolante terroristico all’agitazione politica. In verità mi trovo di fronte a un vero embarras de richesses, e non so da dove cominciare l’analisi del guazzabuglio che ci offre la Svoboda.
Per maggior chiarezza comincerò con un esempio. Ecco i tedeschi. Non negherete, spero, che la loro organizzazione abbraccia la folla, che tutto viene dalla folla, che il movimento operaio ha imparato in Germania a camminare da solo. Ciò nonostante, quanto sono apprezzati da quella folla di parecchi milioni di uomini i suoi «dieci» capi politici provati! Come si stringe attorno ad essi! Quante volte i socialisti non si sono sentiti irridere in parlamento dai deputati avversari: «Bei democratici! Con voi il movimento della classe operaia non esiste che a parole: in realtà è sempre lo stesso gruppo di capi che fa tutto. Ogni anno, da decine di anni, sempre lo stesso Bebel, sempre lo stesso Liebknecht! I vostri delegati, che si dicono eletti dagli operai, sono più inamovibili dei fun-zionari nominati dall’imperatore!». Ma i tedeschi hanno accolto con sprezzante ironia quei tentativi demagogia di contrapporre la «folla» ai «capi», di risvegliare nella prima gli istinti cattivi e vanitosi e di togliere al movimento la solidità e la stabilità minando la fiducia della massa in una «decina di teste forti». Essi sono politicamente abbastanza educati, hanno sufficiente esperienza politica per comprendere che senza una «decina» di abili capi (e gli uomini abili non sorgono a centinaia), provati, professionalmente preparati ed istruiti da una lunga esperienza, che siano d’accordo fra loro, nessuna classe della società contemporanea può condurre fermamente la sua lotta. Hanno avuto tra di loro dei demagoghi che lusingavano le «centinaia di imbecilli», li ponevano sopra le «decine di teste forti», glorificavano il «pugno muscoloso» della massa, spingevano (come Most o Hasselmann) la massa ad atti « rivoluzionari» sconsiderati e seminavano la sfiducia nei capi energici e risoluti. E solo in seguito a una lotta tenace, implacabile, contro tutti gli elementi demagogici esistenti nel suo seno, il socialismo tedesco è cresciuto e si è rafforzato. Orbene, proprio quando tutta la crisi della socialdemocrazia russa si spiega con il fatto che le masse, entrate spontaneamente in movimento, non hanno dirigenti abbastanza preparati, sviluppati ed esperti, ecco i nostri sapientoni venirci a dire con tono sentenzioso: «È un male che il movimento non sorga dal basso!».
“Un comitato di studenti non serve: è troppo instabile”. Benissimo! Ma la conseguenza è che ci occorre un comitato di rivoluzionari di professione. Studenti od operai, poco importa; essi sapranno fare di se stessi dei rivoluzionari di professione. La vostra conclusione invece è che non bisogna stimolare dall’esterno il movimento operaio.
Nella vostra ingenuità politica non vi accorgete di fare così il giuoco dei nostri economisti e del nostro primitivismo. In che modo i nostri studenti hanno “stimolato” fino ad oggi gli operai? Permettetemi di porvi la questione. Solamente portando ad essi le briciole di cognizioni politiche che essi stessi avevano, le briciole di idee socialiste che avevano potuto raccogliere (perché il principale nutrimento spirituale degli studenti contemporanei, il marxismo legale, ha potuto dar loro soltanto l’abbiccì, soltanto delle briciole).
Questo “stimolo esterno” del nostro movimento non è stato eccessivo, ma scarso, vergognosamente scarso; fino ad oggi ci siamo cotti nel nostro brodo, ci siamo servilmente prosternati dinanzi alla “lotta economica degli operai contro i padroni e contro il governo”. Di questo “stimolo” noi, rivoluzionari di professione, dobbiamo occuparci e ci occuperemo molto di più. Ma con la vostra espressione odiosa, “stimolo dall’esterno”, che inevitabilmente ispira all’operaio (almeno all’operaio poco sviluppato come voi) la sfiducia verso tutti coloro che gli portano dal di fuori le cognizioni politiche e l’esperienza rivoluzionaria e suscita istintivamente in lui la voglia di cacciare lontano da sé tutti coloro che lo stimolano, voi fate della demagogia e i demagoghi sono i peggiori nemici della classe operaia.
Sì, sì! E non protestate contro sistemi polemici “inammissibili fra compagni!”. Non sospetto la purezza delle vostre intenzioni; ho già detto che si può diventare demagogo anche solo per ingenuità politica. Ma ho dimostrato che voi siete scesi fino alla demagogia. E non mi stancherò mai di ripetere che i demagoghi sono i peggiori nemici della classe operaia. I peggiori, perché risvegliano i cattivi istinti della folla e perché è impossibile agli operai arretrati di riconoscere questi nemici che si presentano, e qualche volta anche sinceramente, come amici. I peggiori, perché in questo periodo di dispersione e di tentennamenti, nel quale il nostro movimento cerca ancora se stesso, è facilissimo trascinare demagogicamente la folla, alla quale solo le prove più amare potranno in seguito aprire gli occhi. Ecco perché gli odierni socialdemocratici russi devono combattere senza pietà e la Svoboda e il Raboceie Dielo caduti nella demagogia (ne riparleremo in seguito).
“È più facile arrestare una decina di teste forti che un centinaio di imbecilli”. Questo magnifico assioma (che vi procurerà sempre gli applausi del centinaio di imbecilli) vi sembra evidente solo perché, nel vostro ragionamento, siete saltati da una questione a un’altra. Avevate cominciato ed avete continuato a parlare dell’arresto del “comitato”, dell’”organizzazione”, e ora saltate a un’altra questione, alla distruzione delle “radici profonde” del movimento. Certo il nostro movimento è inafferrabile soltanto perché ha centinaia e centinaia di migliaia di radici profonde. Ma non è di questo che si tratta.
Anche adesso, nonostante tutto il nostro primitivismo, è impossibile “distruggere” le nostre “radici profonde”, e tuttavia dobbiamo continuamente deplorare arresti di intere “organizzazioni”, che impediscono ogni continuità del movimento. E poiché voi ponete la questione delle organizzazioni scoperte dalla polizia e vi intrattenete su di essa, vi dirò che è molto più difficile impadronirsi di una decina di teste forti che non di un centinaio di imbecilli. E sosterrò questa mia affermazione, qualunque cosa facciate per eccitare la folla contro la mia “antidemocrazia”. Per “teste forti” in materia di organizzazione bisogna intendere, come ho già detto più di una volta, solo i rivoluzionari di professione, poco importa se studenti od operai di origine. E affermo: 1) che non potrà esservi un movimento rivoluzionario solido senza un’organizzazione stabile di dirigenti che ne assicuri la continuità; 2) che quanto più numerosa è la massa entrata spontaneamente nella lotta, la massa che è la base del movimento e partecipa ad esso, tanto più imperiosa è la necessità di siffatta organizzazione e tanto più questa organizzazione deve essere solida (sarà facile, altrimenti, ai demagoghi trascinare con sé gli strati arretrati della massa); 3) che tale organizzazione deve essere composta principalmente di uomini i quali abbiano come professione l’attività rivoluzionaria; 4) che in un paese autocratico sarà tanto più difficile “impadronirsi” di siffatta organizzazione quanto più ne ridurremo gli effettivi, fino ad accettarvi solamente i rivoluzionari di professione, educati dalla loro attività rivoluzionaria alla lotta contro la polizia politica; 5) che in tal modo, tanto più numerosi saranno gli operai e gli elementi delle altre classi che potranno partecipare al movimento e militarvi attivamente.
I nostri economisti, i nostri terroristi e i nostri “terroristi-economisti” confutino, se lo possono, queste mie affermazioni. Non mi arresterò qui che sulle ultime due. È più facile impadronirsi di una “decina di teste forti” o di “un centinaio di imbecilli”? Tale questione si ricollega a quella che ho analizzato precedentemente: è possibile un’organizzazione di massa a regime strettamente clandestino? Non riusciremo mai a dare a una vasta organizzazione quel carattere clandestino senza di cui una lotta energica e continua contro il governo non è concepibile. La concentrazione di tutte le attività clandestine nelle mani del minor numero possibile di rivoluzionari di professione non significa affatto che questi ultimi “penseranno per tutti”, che la folla non parteciperà attivamente al movimento. Al contrario, la folla genererà in sempre maggior numero i rivoluzionari di professione, perché imparerà allora che non basta che alcuni studenti o alcuni operai, i quali guidano la lotta economica, si riuniscano per costituire un “comitato”, ma che è necessario, attraverso un processo che durerà degli anni, forgiare dei rivoluzionari di professione, ed essa “penserà” a formarli abbandonando il proprio primitivismo. La centralizzazione del lavoro clandestino dell’organizzazione non implica affatto la centralizzazione di tutta l’attività del movimento. La collaborazione attiva della grande massa alla stampa illegale, lungi dal diminuire, aumenterà enormemente quando una “decina” di rivoluzionari di professione concentrerà nelle sue mani i compiti relativi. Così, e solo così, riusciremo ad ottenere che la lettura della stampa illegale, la collaborazione alle pubblicazioni illegali e in parte la loro stessa diffusione cessino quasi di essere attività clandestine, perché la polizia comprenderà ben presto l’assurdità e l’impossibilità di procedimenti giudiziari e polizieschi a proposito di ogni esemplare di pubblicazioni diffuse a migliaia di copie. E ciò vale non solo per la stampa, ma per tutte le attività del movimento, comprese le manifestazioni. La partecipazione più attiva e larga della massa a una manifestazione non sarà danneggiata, ma di molto avvantaggiata, se una “decina” di rivoluzionari provati, professionalmente addestrati almeno quanto la nostra polizia, ne accentrerà tutto il lato clandestino: pubblicazione di manifestini, elaborazione del piano approssimativo generale, nomina di un gruppo di dirigenti per ogni quartiere della città, per ogni aggruppamento di fabbriche, per ogni istituto scolastico, ecc.
(Si obietterà, lo so, che le mie idee sono “antidemocratiche”, ma confuterò più oltre questa stupida obiezione.). L’accentramento delle funzioni più clandestine nell’organizzazione dei rivoluzionari, non indebolirà, ma arricchirà e rafforzerà l’azione di moltissime altre organizzazioni destinate al gran pubblico (e quindi il meno possibile regolamentate e clandestine): associazioni operaie di mestiere, circoli operai di istruzione e di lettura delle pubblicazioni illegali, circoli socialisti e anche democratici per tutti gli altri ceti della popolazione, ecc. Dappertutto vi è necessità di questi circoli, associazioni e organizzazioni; bisogna che essi siano il più possibile numerosi, con i compiti più diversi, ma è assurdo e dannoso confonderli con l’organizzazione dei rivoluzionari, cancellare la distinzione che li separa, spegnere nella massa la convinzione già debolissima che per “servire” un movimento di massa sono necessari uomini i quali si consacrino specialmente e interamente all’azione socialdemocratica, si diano pazientemente, ostinatamente un’educazione di rivoluzionari di professione.
Sì, questa convinzione si è indebolita in modo incredibile. Con il nostro primitivismo abbiamo abbassato il prestigio del rivoluzionario in Russia: è questo il nostro peccato mortale nelle questioni organizzative. Un rivoluzionario fiacco, esitante nelle questioni teoriche, con un orizzonte limitato, che giustifichi la propria inerzia con la spontaneità del movimento di massa, più rassomigliante a un segretario di trade-union che non a un tribuno del popolo, incapace di presentare un piano ardito e vasto che costringa al rispetto anche gli avversari, un rivoluzionario inesperto e malaccorto nel proprio mestiere (la lotta contro la polizia politica), può forse chiamarsi un rivoluzionario? No. È solo un povero artigiano.
Nessun militante deve offendersi di questo epiteto severo: per quanto riguarda l’impreparazione, lo applico prima di tutto a me stesso. Ho lavorato in un circolo che si proponeva compiti molto vasti universali e, come tutti i miei compagni, membri di quel circolo, soffrivo, fino a provarne un vero dolore, nel sentire che eravamo solo degli artigiani grossolani in un momento storico in cui, parafrasando la celebre frase, sarebbe stato giusto dire: dateci un’organizzazione di rivoluzionari e capovolgeremo la Russia! E quando ripenso al cocente sentimento di vergogna provato allora, sento salire in me l’amarezza contro quegli pseudosocialdemocratici, la cui propaganda “disonora il nome di rivoluzionari” e che non comprendono come il nostro compito non consista nell’abbassare il rivoluzionario al lavoro dell’artigiano, ma nell’elevare quest’ultimo al lavoro del rivoluzionario.
d) Ampiezza del lavoro di organizzazione
Come abbiamo visto, B-v parla dell’ «insufficienza di forze rivoluzionarie adatte all’azione, che si fa sentire non solo a Pietroburgo, ma in tutta la Russia». Nessuno, credo, vorrà contestare questo fatto. Si tratta però di spiegarlo. B-v scrive: 1. Non cercheremo di approfondire le ragioni storiche di questo fenomeno; diremo solo che, demoralizzata da una reazione politica prolungata e divisa dai cambiamenti economici che sono avvenuti e continuano a prodursi, la società fornisce solo un piccolissimo numero di uomini atti al lavoro rivoluzionario; diremo che la classe operaia, fornendo rivoluzionari operai, alimenta in parte le organizzazioni illegali, ma che il numero di questi rivoluzionari non corrisponde alle necessità dell’epoca. Tanto più che l’operaio, occupato undici ore e mezza al giorno in officina, di solito non può essere che un agitatore. Ma la propaganda e l’organizzazione, la pubblicazione di proclami, ecc, incombono fatalmente su un numero infimo di intellettuali (Raboceie Dielo, n. 6, pp. 38- 39).
Su molti punti non siamo d’accordo con Bv: in particolare le parole che abbiano sottolineato mostrano, in modo evidente, che B-v, tormentato dal nostro primitivismo (come ogni militante più o meno intelligente), non può trovare nell’economismo che lo soffoca un’uscita a questa situazione intollerabile.
No. La società fornisce un grandissimo numero di persone utilizzabili per la «causa», ma noi non sappiamo utilizzarle tutte. La situazione critica, la situazione transitoria del nostro movimento, sotto questo rapporto, può essere così indicata: c’è una massa di individui, ma gli uomini mancano. C’è una massa di individui, perché la classe operaia e i ceti sempre più diversi della società forniscono ogni anno un numero sempre maggiore di malcontenti, pronti a protestare e a dare il loro concorso alla lotta contro l’assolutismo, l’intollerabilità del quale, se non è ancora compresa da tutti, è sentita in modo sempre più acuto da una massa sempre più grande. In pari tempo gli uomini mancano, perché non vi sono intelligenze capaci di organizzare un lavoro vasto e nello stesso tempo coordinato, armonico, che permetta di utilizzare qualsiasi forza, anche la più insignificante. «La crescita e lo sviluppo delle organizzazioni rivoluzionarie » è in ritardo non solo rispetto allo sviluppo del movimento operaio — come riconosce anche B-v —, ma anche rispetto allo sviluppo del movimento democratico in tutti gli strati del popolo. (Del resto, è probabile che lo stesso B-v sottoscriverebbe oggi quest’aggiunta alla sua constatazione.) I limiti del lavoro rivoluzionario sono oggi troppo ristretti rispetto alla base spontanea del movimento, troppo compressi dalla misera teoria della “lotta economica contro i padroni e contro il governo”. Oggi invece, non solo gli agitatori politici, ma anche gli organizzatori socialdemocratici devono “andare fra tutte le classi della popolazione”. I socialdemocratici potrebbero assai bene ripartire le mille funzioni particolari del lavoro organizzativo fra elementi delle classi più diverse; nessun militante, credo, ne dubiterà. La mancanza di specializzazione, che B-v deplora così vivamente e così giustamente, è uno dei maggiori difetti della nostra tecnica. Quanto più minute saranno le varie “operazioni” dell’attività generale, tanto più si troveranno degli individui capaci di eseguirle (e completamente incapaci, nella maggior parte dei casi, di diventare dei rivoluzionari di professione), e tanto più riuscirà difficile alla polizia di mettere le mani su tutti quei militanti che compiono un lavoro specifico e montare con l’insignificante reato di una persona un grosso “affare” che giustifichi le spese della polizia segreta. Per quanto concerne il numero delle persone disposte ad aiutarci, abbiamo segnalato, nel capitolo precedente, l’enorme mutamento avvenuto in questi ultimi cinque anni. Ma, d’altra parte, per raggruppare tante piccole frazioni, per non spezzettare, insieme alle funzioni, anche il movimento, per infondere nell’esecutore di un piccolo compito la fiducia nella necessità e nell’importanza del suo lavoro – e senza questa fiducia non farà mai niente – per tutto ciò è necessaria appunto una forte organizzazione di rivoluzionari provati. Con una tale organizzazione la fiducia nella forza del partito si consoliderà e si diffonderà tanto più quanto più l’organizzazione sarà clandestina.
E in guerra, è noto, occorre innanzi tutto infondere nel proprio esercito la fiducia in se stesso, ma occorre anche farsi tenere in grande considerazione dal nemico e da tutti gli elementi neutrali, perché una neutralità benevola può talvolta decidere della vittoria.
Con una tale organizzazione, costituita su una base teorica solida, e un giornale socialdemocratico a propria disposizione, non si dovrà più temere che il movimento sia sviato dai numerosi elementi che vi avranno aderito. In una parola, la specializzazione presuppone il centralismo, e a sua volta lo esige in modo assoluto.
Ma lo stesso B-v, che ha così ben dimostrato la necessità della specializzazione, ne apprezza, secondo noi, insufficientemente il valore nella seconda parte del ragionamento che abbiamo citato. Il numero dei rivoluzionari provenienti dagli strati operai è insufficiente, egli dice. Questa osservazione è giustissima, e noi sottolineiamo ancora una volta che la ” preziosa informazione di un osservatore bene informato ” conferma interamente le nostre opinioni sulle cause dell’attuale crisi della socialdemocrazia e quindi sul modo di porvi rimedio. Non soltanto i rivoluzionari in generale, ma anche gli operai rivoluzionari sono in ritardo sullo slancio spontaneo delle masse operaie. Questo fatto conferma in modo evidente, anche dal punto di vista “pratico”, non solo l’assurdità, ma persino il carattere politico reazionario della “didattica” che ci è così spesso ammannita a proposito dei nostri doveri verso gli operai.
Esso prova che il nostro primo obbligo, il nostro obbligo più imperioso, consiste nel contribuire alla formazione di rivoluzionari operai, i quali, per quanto riguarda l’attività del partito, siano allo stesso livello dei rivoluzionari intellettuali. (Sottolineiamo: per quanto riguarda l’attività del partito, perché negli altri campi non è per gli operai né così facile né così urgente, benché sia necessario, raggiungere un tale livello.) Perciò bisogna che noi lavoriamo soprattutto per elevare gli operai al livello di rivoluzionari e non bisogna che ci abbassiamo, noi, al livello della “massa operaia”, come vogliono gli economisti, al livello degli “operai medi”, come vuole la Svoboda (che, da questo punto di vista, sale al secondo gradino della “didattica” economista). Naturalmente, non nego affatto la necessità di una letteratura popolare per gli operai e di un’altra ultrapopolare (ma non volgare, certo) per gli operai più arretrati. Ma mi disgusta questa sovrapposizione continua della didattica alle questioni politiche e organizzative. Infatti, voi, signori campioni dell’ “operaio medio”, in fin dei conti insultate l’operaio con la vostra maniera di chinarvi verso di lui per parlargli della politica operaia e dell’organizzazione operaia. Parlategli dunque di cose serie, rialzatevi e lasciate la didattica agli insegnanti e non ai politici e agli organizzatori! Non vi sono forse anche fra gli intellettuali elementi superiori, elementi “medi” e una “massa”? Non esiste forse la necessità, da tutti riconosciuta, di una letteratura popolare per gli intellettuali, e questa non esiste forse? Ma immaginate che in un articolo sull’organizzazione degli studenti universitari o liceali l’autore, con il tono di un uomo che ha fatto una scoperta, brontoli che è innanzi tutto necessaria un’organizzazione di “studenti medi”. Farà ridere tutti, e giustamente. Dateci, gli diranno, delle idee sull’organizzazione, se ne avete, e lasciate a noi di vedere quali sono fra noi gli elementi “medi”, superiori o inferiori. E se non avete idee vostre sull’organizzazione, tutti i vostri discorsi sulla “massa” e sugli elementi “medi” non serviranno che a importunarci. Rendetevi finalmente conto che le questioni di “politica” e di “organizzazione” sono talmente serie che devono essere trattate con la massima serietà. Si possono e si devono preparare gli operai (come pure gli studenti universitari e liceali) in modo da poter poi discutere con loro su tali questioni, ma se avete cominciato a discuterle, dateci delle vere risposte, non fate macchina indietro verso i “medi” o verso la “massa”, non sgattaiolate via con frasi e con aneddoti! Per prepararsi completamente ai propri compiti, l’operaio rivoluzionario deve diventare anche lui un rivoluzionario di professione.
Perciò B-v ha torto di affermare che le funzioni rivoluzionarie, eccetto l’agitazione, “incombono fatalmente su un numero infimo di intellettuali” perché l’operaio deve passare undici ore e mezza nell’officina. Ciò non avviene “fatalmente”, ma in conseguenza della nostra arretratezza, dell’incomprensione del nostro dovere di aiutare ogni operaio che si faccia notare per le sue qualità a divenire agitatore, organizzatore, propagandista, diffusore di stampa, ecc., di professione. Da questo punto di vista, noi sprechiamo vergognosamente le nostre forze, non sappiamo aver cura di ciò che è necessario conservare e sviluppare con particolare sollecitudine.
Guardate i tedeschi: le loro forze sono cento volte superiori alle nostre, ma essi comprendono perfettamente che gli operai “medi” non forniscono troppo frequentemente degli agitatori veramente capaci. Si sforzano perciò di porre immediatamente ogni operaio capace in condizione di sviluppare e di applicare tutte le sue attitudini; ne fanno un agitatore di professione, lo incoraggiano ad allargare il campo della sua attività, a estenderlo da un’officina a tutta l’industria, da una località a tutto il paese. Così quell’operaio acquista esperienza e abilità professionale, allarga il suo orizzonte ed aumenta le sue cognizioni, osserva da vicino i maggiori capi politici delle altre località e degli altri partiti, si sforza di elevarsi al loro livello e di riunire in sé la conoscenza dell’ambiente operaio e l’ardore della fede socialista con la competenza professionale, senza la quale il proletariato non può condurre una lotta tenace contro un nemico perfettamente allenato.
Così e soltanto così i Bebel e gli Auer sorgono dalla massa operaia. Ma ciò che spesso avviene naturalmente in un paese politicamente libero, deve essere, nel nostro paese, opera sistematica delle nostre organizzazioni.
Qualunque agitatore operaio che abbia un certo ingegno e “dia delle speranze” non deve lavorare undici ore in officina. Dobbiamo fare in modo che egli viva a spese del partito, che possa, quando sarà necessario, passare alla vita illegale, trasferirsi in altre città. Senza di ciò non acquisterà mai una grande esperienza, non allargherà il suo orizzonte, non resisterà se non per qualche anno, nella lotta contro la polizia. Via via che la spinta spontanea del movimento operaio si rafforza e si estende, le masse operaie ci forniscono sempre più non solo degli agitatori, ma anche degli organizzatori, dei propagandisti di ingegno e dei “pratici” (pratici nel miglior senso della parola, come ve ne sono ben pochi tra i nostri intellettuali, per natura piuttosto noncuranti e fiacchi). Quando avremo dei gruppi di operai rivoluzionari, opportunamente preparati da un lungo addestramento (beninteso in “tutte le armi” dell’azione rivoluzionaria), nessuna polizia al mondo potrà liquidarli, perché quei gruppi di uomini, devoti anima e corpo alla rivoluzione, godranno anche della fiducia illimitata delle più larghe masse operaie. Se spingiamo troppo poco gli operai su questa via, sulla via dell’addestramento rivoluzionario che è comune a loro ed agli “intellettuali”, se li tratteniamo troppo spesso con dei discorsi stupidi su quello che è “accessibile” alla massa operaia, agli “operai medi”, la colpa ricade direttamente su noi.
Sotto questo, come sotto gli altri rapporti, la ristrettezza del lavoro organizzativo è certo indissolubilmente legata al restringimento della nostra teoria e dei nostri compiti politici (per quanto questo legame non sia percepito dalla immensa maggioranza degli “economisti” e dei militanti all’inizio del loro lavoro). La sottomissione alla spontaneità genera una specie di paura di allontanarsi anche di un passo da ciò che è “accessibile” alla massa, di elevarsi troppo al di sopra del semplice soddisfacimento dei suoi bisogni immediati. Non abbiate questa paura, signori! Ricordate che, per quanto riguarda l’organizzazione, ci troviamo a un livello così basso che è assurdo pensare che potremmo spingerci troppo in alto.
e) Organizzazione “cospirativa” e “democrazia”
È invece precisamente questo che molti fra di noi – così sensibili alla “voce della realtà” – paventano come il fuoco, accusando i partigiani delle opinioni qui esposte di essere come i seguaci della “Volontà del popolo”, di non comprendere la “democrazia”, ecc.
Bisogna soffermarsi su queste accuse, naturalmente ripetute dal Raboceie Dielo.
Chi scrive sa benissimo che gli economisti pietroburghesi accusavano anche la Rabociaia Gazieta di pencolare verso la “Volontà del popolo” (ed è comprensibile, se si confronta la Rabociaia Gazieta con la Rabociaia Mysl). Non ci siamo quindi meravigliati quando abbiamo saputo da un compagno che i socialdemocratici della città X definivano l’Iskra, poco dopo la sua comparsa, un organo della “Volontà del popolo”. Questa accusa era in fondo lusinghiera per noi, perché a quale buon socialdemocratico non è stata mossa questa accusa dagli economisti? Queste accuse sono originate da un duplice malinteso. Innanzi tutto, nel nostro paese si conosce così male la storia del movimento rivoluzionario che su qualunque tipo di organizzazione di combattimento centralizzata e che dichiari risolutamente guerra allo zarismo si appiccica l’etichetta della Volontà del popolo. Ma l’eccellente organizzazione che avevano i rivoluzionari degli anni settanta, e che dovrebbe servire di esempio a noi tutti, non è stata creata dai seguaci della Volontà del popolo, bensì da quelli di Terra e libertà, i quali, più tardi, si scissero in partigiani della ripartizione nera e in partigiani della Volontà del popolo. Considerare dunque ogni organizzazione rivoluzionaria di combattimento come qualcosa che appartenga specificamente a quest’ultima organizzazione, è assurdo storicamente e logicamente, perché nessuna corrente rivoluzionaria può fare a meno di un’organizzazione simile se si propone di lottare sul serio. Lo sforzo compiuto dai seguaci della Volontà del popolo per attrarre tutti gli scontenti nella propria organizzazione e orientarli verso la lotta effettiva contro l’assolutismo non fu un errore, ma un grande merito storico. Il loro errore consisté invece nell’essersi basati su una teoria che in sostanza non era per nulla rivoluzionaria e nel non aver saputo e potuto legare indissolubilmente il loro movimento alla lotta di classe nella società capitalistica in sviluppo.
E solo la più grossolana incomprensione del marxismo (o la sua interpretazione “struvista”) poteva far credere che il sorgere di un movimento operaio di massa spontaneo ci esonerasse dal dovere di costituire un’organizzazione rivoluzionaria solida come quella di Terra e libertà, anzi incomparabilmente migliore. Questo dovere ci è invece imposto dal movimento, perché la lotta spontanea del proletariato diventerà una vera “lotta di classe” solo quando sarà diretta da una forte organizzazione di rivoluzionari.
In secondo luogo, molti – compreso evidentemente Kricevski (Raboceie Dielo, n. 10, p.18) – interpretano falsamente la polemica contro la concezione “cospirativa” della lotta politica, che i socialdemocratici sempre hanno condotto. Noi ci siamo sempre opposti – e beninteso continueremo a farlo – a ogni tentativo di restringere la nostra lotta politica per ridurla ad un complotto, ma ciò non significa affatto negare la necessità di una forte organizzazione rivoluzionaria. Per esempio, nell’opuscolo ricordato in nota, si polemizza contro coloro i quali vorrebbero ridurre la lotta politica ad una cospirazione e si parla, in pari tempo, di un’organizzazione (presentata come l’ideale socialdemocratico) abbastanza forte per poter “ricorrere all’insurrezione” e ad ogni “altro mezzo di attacco” “per infliggere il colpo decisivo all’assolutismo”. Ove si tenga conto solo della forma, un’organizzazione rivoluzionaria di tal genere, in un paese autocratico, può anche essere definita “cospirativa”, perché il segreto le è assolutamente necessario, tanto necessario che determina in via pregiudiziale tutte le altre condizioni (numero, scelta, funzione di militanti, ecc.). Perciò, quando ci si accusa di voler creare un’organizzazione cospirativa, noi, socialdemocratici, saremmo molto ingenui se ce ne spaventassimo. Una simile accusa è, per ogni avversario dell’economicismo, non meno lusinghiera dell’accusa di essere un partigiano della “Volontà del popolo”.
Ma, si obietterà, un’organizzazione così forte e così rigorosamente segreta, che concentri nelle sue mani tutti i fili dell’azione clandestina, un’organizzazione necessariamente centralizzata può molto facilmente lanciarsi in un attacco prematuro e forzare il movimento in modo inconsulto, prima che l’attacco sia reso possibile e necessario dallo sviluppo del malcontento politico, dall’impeto del fermento e della irritazione esistenti nella classe operaia, ecc. Risponderemo: astrattamente parlando non si può negare che un’organizzazione di combattimento possa ingaggiare avventatamente una battaglia che in altre condizioni non si sarebbe forse perduta. Ma, in realtà, non ci si può limitare a considerazioni astratte, perché in ogni battaglia vi sono possibilità astratte di sconfitta, e il solo mezzo per delimitarle è di prepararsi sistematicamente alla lotta. Ma, se si pone la questione sul terreno concreto della situazione russa attuale, si giunge alla conclusione positiva che una forte organizzazione rivoluzionaria è assolutamente necessaria per rendere stabile il movimento e per premunirlo contro la possibilità di attacchi inconsulti. Proprio in questo momento, data la mancanza di una simile organizzazione, dato il rapido sviluppo spontaneo del movimento operaio, si possono già notare due estremi (che, come è naturale, “si toccano”): un economismo assolutamente inconsistente, che predica la moderazione, e un “terrorismo stimolante” che è altrettanto inconsistente e cerca “di provocare artificialmente i sintomi della fine di un movimento il quale è in progresso continuo, ma ancora più vicino al punto di partenza che non al punto di arrivo” (Vera Zasulic, nella Zarià, n.2-3, p. 353). L’esempio del Raboceie Dielo indica che vi sono già dei socialdemocratici i quali capitolano dinanzi a questi due estremismi. E non è affatto strano perché, a parte le altre ragioni, è evidente che “la lotta economica contro i padroni e contro il governo” non soddisferà mai un rivoluzionario, ed è quasi fatale che i due estremismi opposti sorgano qua e là. Soltanto un’organizzazione di combattimento centralizzata, che esplichi con energia un’azione politica socialdemocratica e soddisfi, per così dire, tutti gli istinti e tutte le aspirazioni rivoluzionarie, può premunire il movimento contro un’offensiva inconsulta e preparare un attacco che possa concludersi con la vittoria.
Ci si obietterà ancora che la nostra concezione sulle questioni organizzative contrasta con il “principio democratico”. Se l’accusa precedente era di origine specificamente russa, quest’ultima ha un carattere specificamente estero. Soltanto un’organizzazione che sta all’estero (l’ “Unione dei socialdemoctici”) poteva dare alla propria redazione, fra le altre, le istruzioni seguenti: 1. Direttiva di organizzazione. Nell’interesse dello sviluppo e della unità della socialdemocrazia, è opportuno mettere in rilievo, sviluppare, rivendicare il principio di una larga democrazia nell’organizzazione di partito. Ciò è tanto più necessario in quanto certe tendenze antidemocratiche si sono già manifestate nelle file dell’organizzazione (Due congressi, pag. 18).
Vedremo nel prossimo capitolo come il Raboceie Dielo lotti contro le “tendenze antidemocratiche” dell’Iskra. Il “principio di una larga democrazia” implica – tutti ne converranno – due condizioni sine qua non: la prima è che tutto si svolga alla luce del sole, e la seconda che tutte le cariche siano elettive. Sarebbe ridicolo parlare di democrazia, se gli atti del partito non fossero pubblici, ma accessibili solo ai membri dell’organizzazione. Chiameremo democratica l’organizzazione del partito socialista tedesco, perché tutto vi si svolge apertamente, perfino le sedute del congresso; ma nessuno chiamerà democratica un’organizzazione che rimanga segreta per tutti coloro che non vi sono iscritti. Perché allora formulare il “principio di una larga democrazia”, se l’organizzazione clandestina non può rispettare la condizione essenziale per applicarlo? In questo caso, tale “principio” è soltanto una frase, sonora ma vuota. Anzi, questa frase dimostra una completa incomprensione dei nostro compiti immediati nel campo organizzativo. Tutti sanno quanto la “grande” massa dei rivoluzionari custodisca male i segreti in Russia. Abbiamo potuto costatarlo al pari di B-v, il quale se ne lagna amaramente e domanda a buon diritto una “selezione rigorosa degli iscritti” (Raboceie Dielo, n. 6, p. 42). Eppure ecco dei militanti che si vantano del loro “senso della realtà” e sottolineano in una simile situazione non la necessità di un segreto rigoroso e di una selezione rigorosa (e quindi ristretta) degli iscritti, ma il “principio di una larga democrazia”! Che aberrazione! Lo stesso dicasi per la seconda premessa della democrazia, l’eleggibilità. Essa è naturalmente sottintesa nei paesi di libertà politica. “Sono considerati iscritti al partito tutti coloro che accettano i princìpi del programma del partito e che lo sostengono nella misura delle loro forze”, dice il primo articolo dello statuto del partito socialdemocratico tedesco. Poiché tutta l’arena politica è visibile a tutti, come la scena di un teatro per gli spettatori, tutti sanno dai giornali e dalle assemblee pubbliche se questa o quella persona accetta o non accetta il programma, se sostiene o no il partito. Si sa che questo o quel militante politico ha cominciato in questo o quel modo, ha compiuto questa o quella evoluzione, ha preso questo o quell’atteggiamento in un momento difficile della sua vita, è dotato di questa o quella qualità.
Così tutti i membri del partito possono, con conoscenza di causa, eleggerlo o no a questa o a quella carica di partito. Il controllo generale (nel significato letterale della parola), esercitato da ognuno su ogni iscritto al partito nel corso della sua carriera politica, crea un meccanismo che funziona automaticamente ed assicura ciò che in biologia si chiama la “sopravvivenza dei più adatti”. Per effetto di questa “selezione naturale”, derivante dal carattere pubblico di ogni atto, dall’eleggibilità e dal controllo generale, ogni militante si trova, alla fine, al proprio posto, assume il compito più adatto per le sue forze e per le sue capacità, sopporta lui stesso tutte le conseguenze dei suoi errori e dimostra dinanzi a tutti la propria capacità di comprendere i suoi errori e di evitarli.
Cercate di immaginare una situazione simile sotto la nostra autocrazia! È possibile che in Russia tutti “coloro che accettano i princìpi del programma del partito e che lo sostengono nella misura delle loro forze” controllino ad ogni passo i rivoluzionari clandestini? È forse possibile per loro fare una scelta fra questi ultimi, quando il rivoluzionario è costretto, nell’interesse della causa, a nascondere la propria identità ai nove decimi degli iscritti all’organizzazione? Si rifletta un momento sul significato reale delle grandi parole del Raboceie Dielo e si comprenderà che una “larga democrazia” in una organizzazione di partito che vive nelle tenebre dell’autocrazia, nel regime della selezione poliziesca, non è che un balocco inutile e dannoso. Inutile, perché nessuna organizzazione rivoluzionaria ha mai applicato, né, anche volendo, potrà mai applicare, una larga democrazia. Dannoso, perché i tentativi di applicare effettivamente il “principio di una larga democrazia” servono solo a facilitare le larghe retate, a perpetuare il regno del primitivismo, a distogliere i militanti dal pensiero del loro compito serio ed impellente, che consiste nel formare la propria educazione di rivoluzionari di professione, per concentrarlo su quello della compilazione di statuti particolareggiati e “cartacei” sui sistemi elettorali. Solo all’estero, ove spesso si raccoglie gente che non ha la possibilità di svolgere un vero lavoro attivo, s’è potuto manifestare qua e là, e soprattutto nei diversi piccoli gruppi, questo “giuoco alla democrazia”.
Per dimostrare al lettore quanto sia disonesto il metodo preferito dal Raboceie Dielo, che applica il bel «principio» della democrazia all’azione rivoluzionaria, citeremo ancora un testimonio, Serebriakov, direttore della rivista Nakanunie di Londra, che unisce ad una pronunciata simpatia per il Raboceie Dielo una forte avversione contro Plekhanov e i suoi seguaci. Negli articoli sulla scissione della «Unione dei socialdemocratici russi» all’estero, il Nakanunie ha preso decisamente la parte del Raboceie Dielo e ha fatto piovere una grandine di recriminazioni contro Plekhanov. Ancora più preziose sono perciò le sue opinioni su questo problema. Nell’articolo intitolato A proposito dell’appello del gruppo di autoemancipazione degli operai (Nakanunie, n. 7, luglio 1899), Serebriakov, segnalando la «sconvenienza» di sollevare le questioni «di presunzione, di preminenza, del cosiddetto areopago in un movimento rivoluzionario serio», scrive fra l’altro: 1. Mysckin, Rogacev, Geliabov, Mikhailov, Pierovskaia, Fighner ed altri non si sono mai considerati come dei capi. Nessuno li ha nominati né eletti. Eppure erano in realtà dei capi, perché, sia nei periodi di propaganda che nei periodi di lotta contro il governo, si addossavano il lavoro più difficile, andavano nei luoghi più pericolosi ed esplicavano l’attività più utile. E questa preminenza non era il risultato di un loro desiderio, ma della fiducia che i compagni che li circondavano avevano nella loro intelligenza, nella loro energia e nella loro devozione. Preoccuparsi di un areopago (e se non ce se ne preoccupa, perché parlarne?) che dirigerebbe dittatorialmente il movimento, sarebbe troppo ingenuo. Chi ubbidirebbe? Lo domandiamo al lettore: quale differenza vi è fra un «areopago» e le «tendenze antidemocratiche»? Non è forse evidente che lo «specioso» principio di organizzazione del Raboceie Dielo è tanto ingenuo quanto sconveniente? Ingenuo, perché l’ «areopago» o gli uomini di «tendenze antidemocratiche» non sarebbero obbediti da nessuno, se «i compagni che li circondano non avessero fiducia nella loro intelligenza, nella loro energia e nella loro devozione»; sconveniente perché si tratta solo di una trovata demagogica, che specula sulla vanità di taluni, sul fatto che altri non conoscono la reale situazione del movimento, sul fatto che altri ancora sono impreparati e ignorano la storia del movimento rivoluzionario. Per i militanti del nostro movimento, il solo principio organizzativo serio dev’essere: rigorosa clandestinità, scelta minuziosa degli iscritti, preparazione di rivoluzionari di professione.
Con queste qualità avremo anche qualcosa di più della “democrazia”: avremo una fiducia completa e fraterna fra rivoluzionati. E questo qualcosa di più è senza dubbio necessario per noi, perché da noi, in Russia, non è possibile sostituirlo con il controllo democratico generale. Sarebbe d’altra parte un errore gravissimo credere che, a causa dell’impossibilità di un controllo veramente “democratico”, non si possano controllare i membri dell’organizzazione rivoluzionaria.
Questi ultimi infatti non hanno il tempo di pensare alle forme esteriori della democrazia (in un piccolo nucleo di compagni che abbiano gli uni verso gli altri una completa fiducia), ma sentono molto fortemente la propria responsabilità e sanno inoltre per esperienza che, per sbarazzarsi di un membro indegno, una organizzazione di veri rivoluzionari non arretrerà dinanzi a nessun mezzo. Inoltre, nel nostro ambiente rivoluzionario russo (e internazionale), esiste un’opinione pubblica abbastanza sviluppata, che ha una lunga tradizione e che punisce implacabilmente ogni mancanza verso i doveri dei compagni (ora la “democrazia”, autentica, che non è un semplice balocco, è un elemento che fa parte organicamente dei rapporti fra compagni!). Si tenga conto di tutto questo e si comprenderà come i discorsi e le risoluzioni sulle “tendenze antidemocratiche” puzzino di chiuso e rivelino la burlesca tendenza degli emigrati a fare i generali! Si deve inoltre notare che l’ingenuità — seconda sorgente di tali discorsi — è la conseguenza di un’idea abbastanza confusa sulla natura della democrazia. L’opera dei coniugi Webb sul tradunionismo contiene un capitolo curioso sulla «democrazia primitiva». Gli autori vi raccontano che gli operai inglesi nel primo periodo d’esistenza dei loro sindacati consideravano come condizione necessaria della democrazia la partecipazione di tutti gli iscritti a tutti i particolari dell’amministrazione del sindacato. Tutte le questioni erano risolte mediante il voto di tutti i membri e le cariche stesse erano coperte, a turno, da tutti gli iscritti. Fu necessaria una lunga esperienza storica perché gli operai comprendessero l’assurdo di una simile concezione della democrazia e la necessità di organi rappresentativi da una parte e di funzionari sindacali dall’altra. Occorsero parecchi fallimenti di casse sindacali per far comprendere agli operai che la questione del rapporto diretto fra le quote versate e i sussidi accordati non poteva essere risolta solo da un voto democratico, ma che era necessario il consiglio di una persona esperta nei problemi delle assicurazioni sociali. Prendete il libro di Kautsky sul parlamentarismo e la legislazione popolare e vedrete che le conclusioni cui giunge il teorico marxista concordano con la lunga esperienza del movimento operaio «spontaneo ».
Kautsky si leva risolutamente contro la concezione rudimentale della democrazia sostenuta da Rittinghausen, schernisce coloro che sono pronti a domandare, in nome di una simile democrazia, che i «giornali popolari siano redatti direttamente dal popolo», dimostra la necessità di giornalisti professionali, di parlamentari, ecc. per la direzione socialdemocratica della lotta di classe proletaria, attacca il «socialismo degli anarchici e dei letterati» che, «mirando all’effetto», esaltano il potere legislativo esercitato direttamente dal popolo e non comprendono che l’applicazione di questo principio è molto relativa nella società attuale. Chi ha lavorato praticamente nel nostro movimento sa quanto sia diffusa la concezione «primitiva» della democrazia nella massa della gioventù universitaria e degli operai. Nulla di strano quindi che essa appaia anche negli statuti e nella letteratura. Gli economisti della scuola di Bernstein scrivono nel loro statuto: «§ 10.
Tutte le questioni che interessano l’intera organizzazione sono decise da tutti gli iscritti a maggioranza di voti». Gli economisti del tipo terrorista ripetono, seguendoli: «È necessario che le decisioni dei comitati passino per tutti i circoli prima di essere obbligatorie » (Svoboda, n. 1, p. 67). Notate che a questa richiesta di una larga applicazione del referendum si unisce quella di una struttura di tutta l’organizzazione basata sul principio elettivo! Naturalmente, con ciò non vogliamo affatto condannare quei militanti che hanno avuto troppo poche possibilità per conoscere bene la teoria e la pratica delle organizzazioni veramente democratiche. Ma quando il Raboceie Dielo, che pretende di dirigere, si limita, in tali condizioni, a una risoluzione sul principio di una larga democrazia, come non dire che «mira» puramente e semplicemente « all’effetto»?
f) Lavoro locale e lavoro nazionale
Se le obiezioni secondo cui il piano di organizzazione qui esposto non sarebbe democratico e avrebbe un carattere clandestino sono prive di qualsiasi fondamento, rimane ancora una questione sollevata molto spesso e che merita un esame particolareggiato: quella del rapporto fra lavoro locale e lavoro nazionale. La costituzione di un’organizzazione centralizzata – ci si domanda con qualche inquietudine – non farà spostare il centro di gravità dal primo sul secondo? E ciò non danneggerà il movimento? I nostri legami con la massa operaia non ne saranno indeboliti, e, in generale, la continuità dell’agitazione locale non ne soffrirà? Risponderemo che in questi ultimi anni il nostro movimento si è trovato indebolito proprio per il fatto che i militanti locali sono troppo assorbiti dal lavoro locale, che è quindi assolutamente necessario spostare alquanto il centro di gravità verso il lavoro nazionale e che questo spostamento non indebolirà, ma rafforzerà i nostri legami con la massa e la continuità della nostra agitazione locale. Per dimostrarlo, esaminiamo la questione del giornale centrale e dei giornali locali. Non dimentichi però il lettore che la stampa è per noi solo un esempio per illustrare tutta l’azione rivoluzionaria, infinitamente più vasta e multiforme.
Nel primo periodo del movimento di massa (1896-1898), i militanti locali fanno un tentativo per organizzare un giornale per tutta la Russia: la Rabociaia Gazieta; nel periodo successivo (1898-1900) il movimento progredisce notevolmente, ma l’attenzione dei dirigenti è completamente assorbita dai giornali locali. Se si esamina il complesso di quei giornali si trova che ne è stato pubblicato, in media, un numero al mese. Non è questo un esempio evidente del nostro primitivismo? Non prova forse che la nostra organizzazione rivoluzionaria è in ritardo sullo slancio spontaneo delle masse? Se lo stesso numero di giornali fosse stato pubblicato non da gruppi locali dispersi, ma da un’organizzazione unica, avremmo economizzato una notevole quantità di forze e il nostro lavoro sarebbe stato incomparabilmente più stabile e continuo. Ecco una constatazione molto semplice, di cui troppo spesso non tengono conto quei militanti che lavorano attivamente quasi soltanto per i giornali locali (disgraziatamente, nella stragrande maggioranza dei casi, la situazione è oggi ancora questa) e quei pubblicisti che in questa questione danno prova di un donchisciottismo stupefacente. Il militante si accontenta ordinariamente di ritenere “difficile” per dei militanti locali l’organizzazione di un giornale per tutta la Russia e preferibile perciò di avere dei giornali locali, anziché non averne affatto.
Questo è certamente giusto e riconosciamo, senza difficoltà, la grandissima importanza e la grandissima utilità dei giornali locali in generale. Ma non si tratta di questo: si tratta di sapere se non è possibile rimediare alla dispersione, al primitivismo, attestato così chiaramente dalla comparsa di trenta numeri di giornali locali in tutta la Russia nel giro di due anni e mezzo. Non limitatevi dunque ad affermazioni incontestabili, ma troppo generiche, sull’utilità dei giornali locali in generale, ma abbiate anche il coraggio di rilevarne apertamente i lati negativi, messi in luce dall’esperienza di due anni e mezzo. L’esperienza dimostra che, nelle nostre condizioni, i giornali locali sono per lo più tentennanti dal punto di vista dei principi, senza importanza politica, troppo onerosi per il dispendio di forze rivoluzionarie che esigono e per nulla soddisfacenti tecnicamente (non parlo, beninteso, della tecnica tipografica, ma della frequenza e della regolarità della pubblicazione). E tutti questi difetti non dipendono dal caso, ma sono l’inevitabile risultato di quello spezzettamento che, da una parte, spiega la prevalenza dei giornali locali nel periodo in questione e, dall’altra, perpetua questa prevalenza. Un’organizzazione locale isolata non ha la forza di assicurare al proprio giornale la fermezza dal punto di vista dei princìpi, né di farne un organo politico nel vero senso della parola, non può raccogliere e utilizzare materiali sufficienti per mettere in luce tutta la nostra vita politica.
L’argomento che comunemente si adduce nei paesi liberi per giustificare la necessità di numerosi giornali locali: basso costo (perché sono fatti da operai del posto), larghezza e rapidità di informazioni alla popolazione locale; questo argomento, come è provato dall’esperienza, si ritorce nel nostro paese contro i giornali locali. Questi ultimi costano assolutamente troppo, come consumo di forze rivoluzionarie, e compaiono ad intervalli estremamente lunghi, per la semplice ragione che un giornale illegale, per quanto piccolo, ha bisogno di un immenso apparato clandestino, il quale può esistere solo in un grande centro industriale e non può essere organizzato in una bottega d’artigiano. Il carattere rudimentale dell’apparato clandestino permette ordinariamente alla polizia, dopo la pubblicazione e la diffusione di uno o due numeri, di effettuare una vasta retata e di distruggere tutta l’organizzazione, di modo che si deve ricominciare da capo (ogni militante pratico conosce infiniti casi di questo genere). Un buon apparato clandestino esige una buona preparazione professionale dei rivoluzionari e una divisione rigorosamente logica del lavoro. Ma un’organizzazione locale, per quanto forte essa sia in questo momento, non può assolutamente rispondere a queste due esigenze. Anche astraendo dagli interessi generali del nostro movimento (educazione socialista e politica conseguente degli operai), gli interessi specificamente locali sono meglio difesi dagli organi non locali. Sembra a prima vista un paradosso ed è invece un fatto incontestabile, provato da una esperienza, di due anni e mezzo. Tutti riconosceranno che, se tutte le energie locali che hanno fatto comparire trenta numeri di giornali avessero lavorato per un solo giornale, quest’ultimo avrebbe pubblicato facilmente sessanta, se non cento numeri, e avrebbe quindi dato un quadro più completo delle particolarità puramente locali del movimento. Certo non è facile giungere a questo grado di organizzazione, ma bisogna che ne riconosciamo la necessità, bisogna che ogni circolo locale vi pensi e lavori attivamente, senza attendere alcun impulso dall’esterno, senza lasciarsi sedurre dall’idea che un organo locale sia più accessibile alla popolazione locale, il che è in gran parte un’illusione, come dimostra la nostra esperienza rivoluzionaria.
E rendono un cattivo servizio al lavoro pratico quei pubblicisti che, credendosi particolarmente vicini ai «pratici», non se ne rendono conto e se la sbrigano con un ragionamento straordinariamente facile e straordinariamente vuoto: occorrono dei giornali locali, occorrono dei giornali regionali, occorrono dei giornali per tutta la Russia. Tutto ciò è necessario, indubbiamente; ma bisogna pensare anche alle condizioni ambientali e al momento quando si cerca di risolvere concretamente una questione organizzativa. Non è infatti donchisciottesco scrivere, come fa la Svoboda (n. 1, p. 68) quando «si sofferma particolarmente sulla questione del giornale»: «Secondo noi, ogni agglomerazione operaia di qualche importanza deve avere un proprio giornale operaio: non un giornale proveniente da altre località, ma un giornale suo proprio»? Se questo giornalista non riflette sul significato delle sue parole, rifletteteci voi, lettori, per lui: quante decine e centinaia «di agglomerazioni operaie di qualche importanza» vi sono in Russia e per quanto tempo persisterebbe ancora il nostro primitivismo se ogni organizzazione locale si mettesse a pubblicare il proprio giornale! E come tanta dispersione faciliterebbe il lavoro della polizia! Come le permetterebbe di mettere le mani senza nessuno sforzo «di qualche importanza» sui militanti locali fin dall’inizio della loro azione, prima ancora che abbiano avuto il tempo di diventare dei veri rivoluzionari! In un giornale per tutta la Russia — continua l’autore — le malefatte degli industriali e «i fatterelli della vita d’officina di questa o quella città sconosciuta» non offrirebbero nessun interesse; ma «l’abitante di Oriol sarà sempre contento di leggere quanto avviene ad Oriol. Egli conosce coloro a cui “sono state rivedute le bucce”, coloro ai quali “si è detto il fatto loro”; e “la sua anima canta”» (p. 69). Certamente, l’anima dell’abitante di Oriol canta, ma anche il pensiero del nostro pubblicista «canta» troppo.
È opportuna questa difesa della lotta per cose meschine? Ecco su che cosa egli dovrebbe riflettere. Certo, le rivelazioni sulla vita di officina sono necessarie ed importanti, siamo i primi a riconoscerlo. Ma bisogna ricordare che oggi siamo giunti a un momento in cui le corrispondenze pietroburghesi del giornale pietroburghese Rabociaia Mysl cominciano già ad annoiare i pietroburghesi. Per le rivelazioni sulle officine abbiamo sempre avuto e dovremo sempre avere dei volantini locali, ma, per quanto riguarda il nostro giornale, dobbiamo elevarlo e non abbassarlo al livello di un foglio di officina. Per mezzo di un «giornale» dobbiamo rivelare non tanto i «fatterelli» quanto i difetti essenziali, tipici della vita di officina; dobbiamo esporre esempi particolarmente importanti e che possono quindi interessare tutti gli operai e tutti i dirigenti del movimento, aumentarne le cognizioni, allargarne l’orizzonte, risvegliare alla vita un nuovo rione urbano, una nuova categoria di operai.
«In un giornale locale si possono cogliere immediatamente tutte le malefatte dei padroni o delle autorità. A un giornale centrale lontano, invece, la notizia arriva dopo molto tempo e, prima ancora che il giornale compaia, l’avvenimento è già dimenticato ed il lettore dirà: “Ma quando è accaduto questo fatto? Signore, aiuta la mia memoria”» (ivi).
Proprio così: signore, aiuta la mia memoria! I trenta numeri pubblicati in due anni e mezzo sono comparsi, secondo lo stesso rapporto, in sei città. Il che significa, in media, un numero per ogni semestre in ogni città! Anche se il nostro pubblicista irriflessivo triplica nelle sue supposizioni il rendimento del lavoro locale (e sarebbe un calcolo assolutamente sbagliato per una città media, perché il nostro primitivismo impedisce un aumento considerevole del rendimento) avremmo solo un numero ogni due mesi e sarebbe quindi impossibile «cogliere immediatamente» le notizie. Ma basta che dieci organizzazioni locali si uniscano e affidino a dei delegati la funzione attiva di organizzare un giornale comune per poter allora «cogliere» — ogni quindici giorni— in tutta la Russia, non i fatterelli, ma gli abusi tipici! Coloro che sanno ciò che avviene nelle nostre organizzazioni non ne possono dubitare. In quanto a cogliere effettivamente — e non a parole — il nemico in flagrante delitto, un giornale illegale non lo potrebbe fare; ciò è possibile unicamente ai fogli volanti, perché nella maggior parte dei casi non si ha più di un giorno o due di tempo (se si tien conto per esempio dei casi abituali: un breve sciopero, un conflitto fra operai e poliziotti in officina, una manifestazione qualsiasi, ecc).
«L’operaio non vive soltanto nell’officina, ma anche nella città», continua il nostro autore, passando dal particolare al generale con una logica ferrea che farebbe onore perfino a Boris Kricevski. E segnala le questioni relative alle dume municipali, agli ospedali, alle scuole, ecc, esigendo che il giornale operaio si occupi degli affari municipali in generale.
L’esigenza è giustissima, ma dimostra che quando si discute di giornali locali ci si accontenta troppo spesso di astrazioni prive di contenuto. Innanzi tutto, se, come vorrebbe la Svoboda, in «ogni agglomerazione operaia di qualche importanza» si fondassero dei giornali con una rubrica municipale particolareggiata, si degenerebbe fatalmente, nelle condizioni russe attuali, in una lotta per cose meschine, si indebolirebbe la nozione dell’importanza di una spinta rivoluzionaria generale contro lo zarismo, si rafforzerebbero i germi, più dissimulati e compressi che non effettivamente estirpati, della tendenza resa ormai famosa dalla celebre frase sui rivoluzionari che parlano troppo del parlamento inesistente e troppo poco delle dume municipali esistenti. Fatalmente, diciamo, sottolineando così che la Svoboda non vuole questo ma l’opposto. Però le buone intenzioni non bastano. Per ottenere che le questioni municipali siano viste in una giusta prospettiva rispetto all’insieme del nostro lavoro, bisogna dapprima determinare questa prospettiva e stabilirla con chiarezza, non solo con dei ragionamenti, ma con un complesso di esempi, bisogna darle la solidità di una tradizione. Ne siamo ancora ben lontani, e quindi di li bisogna cominciare, prima di poter anche solo pensare e parlare di una grande stampa locale.
In secondo luogo, per scrivere veramente bene e in modo interessante sulle questioni municipali, bisogna conoscerle a fondo, e non solo attraverso i libri. Invece in tutta la Russia non ci sono quasi, si può dire, dei socialdemocratici che le conoscano. Per trattare su un giornale (e non in un opuscolo popolare) le questioni della città e dello Stato, bisogna disporre di numerosi documenti recenti, messi insieme ed elaborati da un uomo intelligente. Ma per raccoglierli ed elaborarli, non basta la “democrazia primitiva” di un circolo primitivo, in cui tutti si occupano di tutto e si divertono con dei referendum. È necessario uno stato maggiore di scrittori specializzati, di corrispondenti specializzati, un esercito di cronisti socialdemocratici che stabiliscano dei contatti dappertutto, che sappiano scoprire tutti i “segreti di Stato” (il funzionario russo che li conosce si dà tante arie ma nello stesso tempo li divulga così facilmente!), che sappiano penetrare tutti i “retroscena”, e un esercito di uomini che abbiano l’ “incarico” di essere in ogni luogo e di saper tutto. E noi – partito della lotta contro ogni oppressione economica, politica, sociale, nazionale – possiamo e dobbiamo trovare, raccogliere, istruire, mobilitare e mettere in marcia quest’esercito di uomini onniscienti: ma ecco, bisogna ancora farlo! E non solo nella stragrande maggioranza delle località non abbiamo ancora fatto niente da questo punto di vista, ma spesso non comprendiamo neppure la necessità di farlo. Si cerchino, nella nostra stampa socialdemocratica, degli articoli vivaci e interessanti, delle corrispondenze e denunce che chiariscono le nostre questioni e questioncelle diplomatiche, militari, religiose, municipali, finanziarie, ecc.: non vi si troverà quasi niente o molto poco. Ecco perché “vado sempre su tutte le furie quando qualcuno viene a raccontarmi delle cose molto belle, magnifiche”, sulla necessità di avere “nelle agglomerazioni operaie di qualche importanza” dei giornali che smascherino gli abusi commessi nelle officine e nelle amministrazioni municipali e statali.
La prevalenza della stampa locale sulla stampa centrale è un segno o di povertà o di lusso: di povertà, quando il movimento non ha ancora dato forze sufficienti per la produzione in grande, quando vegeta ancora nel primitivismo ed è quasi sommerso dai “fatterelli della vita d’officina”; di lusso, quando è già riuscito a adempiere i propri compiti di denuncia e di agitazione multiforme e quando, oltre al bisogno di un organo centrale, si fa sentire il bisogno di numerosi giornali locali. Ognuno può vedere che cosa significa la prevalenza dei giornali locali in Russia, nel momento attuale. Per evitare ogni malinteso, formulerò le mie conclusioni in modo preciso. Fino ad oggi, la maggior parte delle nostre organizzazioni locali pensa quasi esclusivamente ai giornali locali e lavora quasi esclusivamente in tal senso. È anormale. Bisogna invece che la maggior parte delle organizzazioni locali pensi alla fondazione di un giornale destinato a tutta la Russia e lavori soprattutto per questo. Fino a quando ciò non avverrà, non riusciremo ad organizzare neppure un giornale che possa veramente servire al movimento con una multiforme agitazione. Ma quando ciò sarà stato fatto, si stabiliranno automaticamente relazioni normali fra l’indispensabile organo centrale e gli indispensabili giornali locali.
A prima vista può sembrare impossibile applicare nel campo della lotta economica pura l’affermazione della necessità di trasferire il centro di gravita dal lavoro locale al lavoro nazionale. Infatti il nemico diretto degli operai è qui rappresentato da imprenditori isolati o da gruppi di imprenditori non legati da un’organizzazione che assomigli, anche lontanamente, ad una organizzazione puramente militare, rigorosamente centralizzata, diretta sin nei minimi particolari da una volontà unica, come è quella del governo russo, il nostro nemico diretto nella lotta politica.
Ma ciò non è vero. La lotta economica — come abbiamo già detto parecchie volte — è una lotta di categoria ed esige perciò l’unione degli operai secondo il loro mestiere e non soltanto sulla base del loro luogo di lavoro. E questa organizzazione è tanto più urgente in quanto i padroni si affrettano a riunirsi in associazioni e sindacati di ogni genere. Il nostro spezzettamento ed il nostro primitivismo la intralciano, perché essa esige in tutta la Russia un’organizzazione di rivoluzionari capace di assumere la direzione di sindacati operai nazionali. Abbiamo esposto precedentemente il tipo di organizzazione necessario per questo scopo. Aggiungeremo ora qualche parola a proposito della nostra stampa.
È poco probabile che qualcuno contesti che ogni giornale socialdemocratico debba avere una rubrica per la lotta di categoria (economica), ma lo sviluppo del movimento sindacale ci obbliga a prevedere anche la creazione di una stampa specializzata. Ciò nonostante, ci sembra che, salvo qualche rara eccezione, non si possa ancora pensare in Russia a una stampa di tal genere; sarebbe un lusso, e noi manchiamo spesso del pane quotidiano. In questo campo la forma più adatta alle condizioni attuali del lavoro illegale, la forma fin d’ora necessaria per la stampa sindacale, è piuttosto l’opuscolo sindacale. Sarebbe utile raccogliervi e raggrupparvi sistematicamente dei materiali legali e illegali sulle condizioni di lavoro in un dato mestiere, sulle differenze di tali condizioni nelle varie località della Russia, sulle rivendicazioni principali degli operai di una determinata categoria, sulle lacune della legislazione che la concerne, sui casi più importanti di lotta economica degli operai di questa o quella categoria, sull’origine, sulla situazione attuale e sui bisogni della loro organizzazione sindacale, ecc. Innanzi tutto, questi opuscoli eviterebbero alla nostra stampa socialdemocratica di doversi occupare di una quantità di particolari che interessano solo una determinata categoria di operai. In secondo luogo, fisserebbero i risultati della nostra esperienza nella lotta economica, conserverebbero e generalizzerebbero i materiali raccolti che oggi sono letteralmente dispersi nella massa dei fogli volanti e delle corrispondenze isolate e frammentarie. In terzo luogo, essi potrebbero servire, in qualche modo, come manuali per gli agitatori, perché le condizioni di lavoro cambiano abbastanza lentamente e le rivendicazioni fondamentali degli operai di un dato mestiere sono straordinariamente stabili. (Si paragonino le rivendicazioni dei tessitori della regione di Mosca nel 1885 e quelle dei tessitori della regione di Pietroburgo nel 1896). Lo studio di tali rivendicazioni e di tali necessità potrebbe per vari anni costituire un aiuto prezioso per l’agitazione economica nelle località arretrate o tra gli strati di operai arretrati. Gli esempi di scioperi vittoriosi in una data regione, le informazioni sull’esistenza di un tenore di vita superiore, di migliori condizioni di lavoro in questa o quella località incoraggerebbero gli operai delle località meno favorite ad ingaggiare la lotta. Infine, prendendo l’iniziativa di generalizzare la lotta economica, rafforzando cioè i legami del movimento sindacale russo con il socialismo, la socialdemocrazia si preoccuperebbe anche di fare in modo che la nostra azione tradunionista non abbia una parte né troppo grande né troppo piccola nella somma del nostro lavoro socialdemocratico. È molto difficile, e qualche volta anche impossibile, per un’organizzazione locale isolata da quelle delle altre città conservare un giusto equilibrio (l’esempio della Rabociaia Mysl mostra a quale mostruosa esagerazione tradunionista si può arrivare).
Ma per un’organizzazione nazionale di rivoluzionari, che rimanga costantemente sulla piattaforma del marxismo, che diriga tutta la lotta politica e che disponga di uno stato maggiore di agitatori di professione, non sarà mai difficile determinare questo giusto equilibrio.
CREDITS
Immagine in evidenza: V. I. Lenin at the Parade of the Vsevobuch Detachments. Moscow
Autore: sconosciuto 25 maggio 1919
Licenza: Public Domain Mark 1.0
Immagine originale ridimensionata e ritagliata