Capitolo 2 di “Bologna. Dove sta andando la vecchia signora?“
Quel modello ha cominciato a perdere colpi a seguito della crisi fiscale dello Stato che, dagli anni ’70 in poi, ha finito per portare all’affossamento delle politiche keynesiane di deficit spending e di Welfare State.
Per “riportare i conti in ordine” si è affermato il principio “monetarista” secondo il quale il bilancio dello Stato deve chiudere in pareggio e questo va guadagnato a colpi di tagli delle spese e/o di aumenti delle entrate.
La resa definitiva dei conti avviene però comunque soltanto con l’approvazione delle micidiali “regole di Maastricht”, reiterate a livello nazionale dal patto di stabilità interno con cui quelle regole sono state imposte anche agli enti locali, che dal 1997 vedono diminuire le erogazioni di cassa dal Tesoro.
È la devolution indotta dal “furore federalista” del ministro Bassanini, in forza della quale ogni comunità periferica dovrebbe alimentare le proprie spese soprattutto con mezzi propri.
Le privatizzazioni
Di fronte alla “stretta monetarista” in Comune si procede inizialmente a vendere i “gioielli di famiglia”.
È la stagione delle privatizzazioni, che non ammette opposizioni di sorta. In questi venti anni, sono stati ceduti ai privati numerosi servizi c.d. “strumentali” (es. mense, manutenzione, ecc.) così come servizi “alla persona” (assistenza anziani, nidi d’infanzia, ecc.) Aziende Municipalizzate sono state vendute (le Farmacie Comunali, che erano in attivo e sono state acquistate da una società straniera) o trasformate in s.p.a. (HERA).
Ma siccome non basta, si ritoccano verso l’alto le aliquote fiscali disponibili, dalla nuova Addizionale IRPEF istituita per compensare gli enti locali dai mancati trasferimenti pubblici (dallo 0,2% del 2000 allo 0,7% del 2009) alla Imposta Comunale sugli Immobili (ICI) alla Tassa sui Rifiuti Solidi Urbani (TARSU) che a metro quadrato d’abitazione passa dai 2 euro del 2000 al 2, 44 euro del 2009.
Fare cassa
Eppure nemmeno questo aumento della pressione fiscale, che porta Bologna con 718 euro pro-capite ad essere al secondo posto in Italia dopo Venezia (Fondazione CIVICUM), è sufficiente.
E allora si spremono i cittadini con le tasse per divieto: divieto di sosta, sfruttando la pedonalizzazione del centro storico; poi grazie ai “varchi” di Sirio e Rita si multa chi non rispetta le proibizioni di ingresso: infine si diffondono i “controllori di velocità” sulle strade periferiche per caricare gli utenti di balzelli per “infrazione di…”.
È aumentata la rendita parassitarla del Comune sui suoli urbani (strisce blu, tasse sulla pubblicità, ecc.) e in generale la propensione a “far cassa” (tasse comunali, multe, ecc.). Curiosamente però, non si è dimostrato altrettanto zelo nella sorveglianza sugli enti esattori (scandali Gerico e Gestor). Sembra che dal buon Peppone si sia passati alle grinfie dello Sceriffo di Nottingham.
Ma è giocoforza vedersela anche con gli stessi servizi sociali erogati che vanno (come si dice) “razionalizzati”. Se ne aumentano i prezzi, se ne riducono i beneficiari e, se nel caso, se ne cede l’esercizio ad operatori esterni (solitamente cooperative) che così trattano direttamente con i privati sfruttando la posizione monopolistica assicurata dalla concessione pubblica ed esercitando il servizio utilizzando manodopera precarizzata, mentre il Comune incassa subito il prezzo dell’appalto.
Il risultato è lo stillicidio di un Comune esattore che, alla disperata ricerca di far “quadrare” i conti, progressivamente rinuncia ad essere quel Comune “produttore” di infrastrutture e servizi sociali di una volta.
Il Comune di Bologna ha subito una trasformazione strutturale profonda: da ente di governo e programmazione amministrativa della città, è divenuto un ente di mediazione e servizio per il potere economico, che ha assunto in proprio la funzione di governo e programmazione.
Infatti, oggi il Comune funge da mediatore fra ditte private che producono determinati beni o servizi, e gli utenti, trasformati in clienti che pagano tariffe dettate dai fornitori.
La mitica “partecipazione democratica” ha rapidamente perso concretezza, quando è venuto a mancare il “pane” da spartire.
Di un bene pubblico si può discutere e decidere democraticamente su finalità, modalità di gestione, ecc. ma quando questo bene è in mani private, spetta ai c.d’a. la decisione.
L’ulteriore conseguenza, quando si parla di decisioni che riguardano servizi di pubblica utilità, è che i c.d.a. delle aziende appaltatrici, delle banche creditrici/esattrici, delle s.p.a. di “public Utilities” svolgono la funzione politica del governo della città.
Il resto son chiacchiere vane…
Scheda 1 Cooperative sociali
Un esempio caratteristico della mutazione del “pubblico” è quello relativo al ruolo della cooperazione.
Il sistema della cooperazione a Bologna è un aspetto consolidato della vita sociale della città da quasi due secoli.
Non esiste tuttavia un’età dell’oro dal punto di vista dei lavoratori.
Le contraddizioni legate all’organizzazione del lavoro e del comando si possono riscontrare fin agli albori, e non è un caso che anche all’inizio dell’800, la città di Bologna abbia vissuto scioperi e mobilitazioni dei lavoratori contro le loro stesse cooperative.
Ovviamente il sistema cooperativo aveva in se molteplici fattori positivi: un maggiore controllo da parte dei lavoratori del processo lavorativo e una redistribuzione più equa dei profitti.
Il mondo cooperativo era uno dei pilastri del “socialismo all’emiliana” che poteva essere tranquillamente sovrapposto al “cattolicesimo popolare”, anch’esso basato su una forte spinta verso la cooperazione.
Le cooperative inoltre erano, nella versione più combattiva del socialismo emiliano, i fortini di retroguardia per la lotta operaia, che permettevano di reinserire lavoratori espulsi dal ciclo produttivo sia per motivi oggettivi (ristrutturazioni) sia soggettivi (scioperi e lotte).
Cooperazione sociale
Nello specifico, il settore della “cooperazione sociale” si caratterizza per l’estrema diversificazione delle forme contrattuali e lavorative: dalla movimentazione, alle assicurazioni, alla distribuzione e alla produzione vera e propria. Il boom delle “cooperative sociali” a Bologna e la loro trasformazione si spiega per due importanti fattori:
– l’invecchiamento anagrafico della città, Bologna è assieme a Trieste e Genova una delle città con il più alto numero di anziani in rapporto alla popolazione attiva, aumentando quindi la domanda di servizi;
– la privatizzazione delle strutture pubbliche legate alle politiche sociali, con 1’ appalto di tutti i servizi sociali: politiche giovanili, supporto scolastico, handicap, disagio sociale, immigrazione e ovviamente anziani.
Lo spirito d’azienda
Le cooperative sociali raccolgono circa 8 mila posti di lavoro, sono vere e proprie strutture aziendali dove la forma contrattuale prevalente è quella del contratto “atipico” e flessibile. Sono un naturale bacino per le centinaia di figure universitarie uscite in questi anni dalle nuove facoltà (Scienze della formazione, ecc..).
Dove l’imprinting ideologico sul “valore sociale” del proprio lavoro, si scontra con le esigenze del mercato. Lo stesso ruolo lavorativo è meno “solidale” di quello che si possa pensare sui banchi universitari.
La figura dell’assistente sociale, per esempio, diventa quella di un esecutore di precise politiche manageriali e in molti casi poliziesche.
La mitologia del “lavoro sociale” che le cooperative hanno portato sempre avanti, è quindi ambivalente, proprio come la stessa struttura cooperativa dentro una società di mercato come la nostra.
Se vi è stata un’accelerazione del sistema manageriale cooperativo, questo è andato di pari passo con una sempre più attenta copertura formativa: si moltiplicano i corsi di formazione, la documentazione, i convegni e i seminari per gli operatori, rispetto alle politiche ed alle pratiche con il disagio.
Tutto questo avviene tuttavia all’interno di una generale dismissione della “cosa pubblica” a vantaggio della “cosa privata”, condizionando il mondo cooperativo e non viceversa.
Le relazioni politiche
Gli enti pubblici danno in appalto alle diverse cooperative settori di competenza specifici, creando un meccanismo vizioso dove la lottizzazione e gli sponsor politici gestiscono il mercato.
Il potere delle cooperative e delle lobby politiche si intreccia ancor più che nel passato: non è solamente l’influenza elettorale che conta, ma assume centralità la dimensione di struttura di potere economico, così da garantirsi spazi di manovra in cogestione con le amministrazioni locali che si susseguono.
Le esternalizzazioni dal pubblico verso il privato (cooperative sociali) vengono fatte in nome di un presunto abbattimento dei costi per il pubblico, tuttavia in molti settori una tale politica ha aumentato i costi da parte del pubblico stesso (attraverso l’aumento delle sovvenzioni) e una drastica diminuzione della quantità e qualità dei servizi.
Le cooperative sociali quindi, da strutture di supporto al settore pubblico, sono divenute agenti economici diretti all’interno della dismissione del pubblico, dove il ruolo delle istituzioni e delle amministrazioni diventa quello di mero ufficio di smistamento per le diverse aziende private (cooperative, e associazioni) che intervengono nel settore.
Scheda 2. Sull’università
Da un po’ di anni studenti e cittadini si chiedono dove sia andata a finire quella Bologna che conoscevano, che tanti maturandi in attesa di partire faceva sognare attraverso i racconti dei vecchi universitari.
Potremmo dire che questa è andata via, quando le varie riforme dell’università hanno cancellato molti dei diritti conquistati negli anni 70.
Queste riforme hanno teso a inserire la concorrenza anche nel settore universitario per poter aumentarne l’efficienza.
In questa concorrenza l’Università di Bologna ha deciso di concorrere per la “fascia alta” delle università, attuando così politiche chiaramente classiste volte a selezionare gli studenti più talentuosi o con maggiore potere d’acquisto.
La statistica
L’ufficio di statistica del Ministero dell’Università e della Ricerca ha infatti pubblicato i dati definitivi. Il trend generale dell’Italia è in ribasso del 1%, anche se sono soprattutto le grandi città a pagare il prezzo. In particolare Bologna, nonostante riesca a mantenere uno dei primi posti a livello nazionale per numero di iscritti, come perdita si attesta al terzo posto con un calo del 9, 1% dal 2006 al 2008.
Le ragioni di questa tendenza sono facilmente rintracciabili in una ricerca promossa dall’università stessa. Per un posto letto a Bologna, uno studente spende in media dai 299 euro per una doppia ai 388 per una singola (+50% sul 1997).Gli stessi aumenti vertiginosi si osservano in altri costi sostenuti dagli studenti:+338% per gli spostamenti a Bologna; +60% per le spese di studio.
E nessuna parola viene detta per il costo di iscrizione all’università, che è scandalosamente aumentato negli ultimi anni, arrivando quasi a raddoppiare (per le triennali, e va anche peggio per le specialistiche). In totale. la domanda che essi portano a Bologna è di 456 milioni di euro all’anno, aumentata del 70% rispetto a 10 anni prima.
Rendita e affitti
A nostro parere però, anche la ricerca dell’università riesce a intercettare solo parzialmente la realtà universitaria bolognese. L’economia a nero (dal lavoro agli affitti) è, a nostro parere, sottostimata, così come quella fascia di semilegalità.
Trovare un locatore disposto a stipulare un contralto regolare è un’impresa ardua. Affitti “in nero”, subaffitti, contratti stipulati per un prezzo inferiore rispetto a quello effettivamente pagato: sono tra le vessazioni e gli abusi ordinari che molti studenti devono sopportare.
In ogni regione, degli appositi Accordi Territoriali tra le organizzazioni della proprietà edilizia e tra le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappresentative, stabiliscono le fasce di oscillazione dei prezzi del canone di locazione mensile per ogni singola zona ma dell’esistenza di questi contratti tipici non ne è fatta né pubblicità né menzione dalla quasi totalità dei proprietari.
Difatti a quale locatore converrebbe redigere un contratto-tipo a canone concertato, quando potrebbe stipularne uno in cui può praticare qualsiasi prezzo?
Lo sviluppo urbano della città di Bologna, è sempre stato caratterizzato, fin dai tempi antichi, da una stretta relazione tra rendita abitativa, studenti e università.
Basti pensare che lo sviluppo dei portici legato al millecinquecento è riconducibile a questa relazione. I residenti bolognesi per non pagare la tassa del suolo, legata all’edificazione, costruirono i portici, su cui ampliare la metratura degli appartamenti da destinare agli studenti universitari.
Le privatizzazioni
Un altro punto negativo che rende insoddisfacente il servizio universitario si può scorgere nelle mense universitarie -bolognesi- che detengono un costo di 5,80 euro per un pasto completo, cifra che classifica la mensa universitaria di Bologna come la più cara in Italia.
Essa inoltre si caratterizza strutturalmente insufficiente rispetto al numero degli studenti bolognesi, per di più privatizzata e affidata in gestione alla “Concerta S.p.a”.
Emerge in modo molto netto invece la predominanza degli studenti fuori sede nell’uso di questo servizio; in pratica, risulta che chi può evitare di mangiare in mensa, come gran parte degli studenti in sede, decide di evitarlo.
La privatizzazione dei diversi servizi ha creato una nuova leva di lavoratori precari e flessibili che ruotano attorno all’azienda universitaria.
Si assiste oggi ad una inedita relazione di precarietà tra le figure manuali o legate ai servizi dell’università con gli stessi ricercatori universitari e corpo docente.
La sicurezza
Il tema della sicurezza legato nella città da una campagna contro il degrado ha portato in maniera direttamente proporzionale la diminuzione di giovani studenti nei ritrovi storici di socialità, e l’aumento spropositato di forze dell’ordine, effettuato dalle diverse amministrazioni succedutesi negli anni, aumentando i problemi più che diminuirli, congestionando la socialità solo in determinati spazi.
Le possibilità negate
La formazione estera degli studenti è un altro onere gravoso per le famiglie che sostengono economicamente gli studenti; come si realizza questo intento? Con il progetto Erasmus; ma la “borsa di studio” che l’Università eroga, 200 euro mensili, non riesce a coprire l’intero costo del soggiorno di studi all’estero, compensando in minima parte i costi supplementari nel Paese ospitante. Anche in questo caso siamo di fronte ad una selezione di classe rispetto a questo servizio formativo e culturale.
L’aziendalizzazione
L’altro aspetto più sconcertante dell’impronta che sta solcando l’Alma Mater. ma che investe tutto il sistema universitario italiano è l’aziendalizzazione di questo servizio.
Come per gli altri rapporti di lavoro, anche nel nostro caso alcuni provvedimenti hanno recentemente aumentato i margini di libertà nella gestione delle risorse umane e finanziarie; si potranno dare incentivi ad personam, si potrà assumere personale di vario livello con contratti di diritto privato.
E si costituirà una università governata con un sempre più forte spirito manageriale.
Fino a tempi recentissimi, si diceva che l’università chiudeva con un bilancio in attivo se venivano “prodotti” molti laureati con buona formazione e senza “sprechi di lavorazione”, ossia abbandoni dello studio.
Per il futuro, essere in attivo significherà proprio “riempire le casse” della struttura.
Tra i principali sogni di molti buoni rettori di università e direttori di dipartimento vi è, già oggi, quello di riuscire ad attivare un cospicuo numero di contratti (convenzioni) con enti pubblici e privati, così da migliorare l’immagine della struttura e avere più margine di autonomia gestionale.
L’aziendalizzazione inoltre si compenetra con la rete di relazioni creata dall’università rispetto ai diversi bacini produttivi e di servizi del territorio metropolitano emiliano-bolognese. Il modello dell’università azienda, come nel caso parmense con l’azienda Barilla, è ormai una costante di tutta la regione.
Non pensiamo che sia esistita una epoca d’oro per l’università e per il sapere, seguendo un vecchio adagio le idee dominanti sono quelle della classe dominante, e la stessa ricerca scientifica risente inevitabilmente dei rapporti sociali tra le classi, tuttavia oggi assistiamo ad una vera e propria egemonia delle classi dominanti che porta a strutturare non solo 1 università sotto un profilo manageriale, ma è lo stesso sapere scientifico e culturale che assume connotati manageriali sempre più evidenti.
L’università e la nuova città
Le modificazioni strutturali dell’università hanno trasformato lo stesso studente universitario, visto unicamente come un consumatore di ‘“saperi”, “servizi”, ecc.. selezionando ancor di più la classe sociale di appartenenza originaria.
Il movimento studentesco è stato travolto da queste modificazioni, e non è riuscito al di là delle generose ondate di protesta a porsi come elemento critico dentro questi processi. Sopravvive dentro il movimento studentesco un approccio escludente rispetto alle dinamiche sociali della città.
Se un tale atteggiamento era specchio di una reciproca esclusione, le cosiddette due città, quella universitaria e quella bolognese, ora l’aziendalizzazione dell’università e la nuova dimensione metropolitana della città (con la possibilità di spostare interi dipartimenti fuori dalle mura cittadine, o ipotizzare veri e propri campus) porta inevitabilmente al sorpassa- mento di queste due città e ad immaginare inedite forme di relazione tra i diversi settori sociali e culturali.
Le relazioni quindi economiche produttive legate all’università di Bologna assumeranno nei prossimi anni aspetti inediti e sempre più importanti rispetto all’evoluzione socio-produttiva dell’area metropolitana bolognese.
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Immagine in evidenza: Il Nettuno
Autore: Stefano Zocca. 14 gennaio 2021
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