Capitolo 3 di “Bologna. Dove sta andando la vecchia signora?“
Con la fine della gestione della mano pubblica sul territorio, attraverso il contenimento dell’iniziativa municipale, si viene a rompere quell’equilibrio tra amministrazione pubblica, imprenditoria privata e parti sociali.
L’imprenditoria privata vedeva nell’industria il suo comparto di punta.
L’industria bolognese
L’industria bolognese presentava caratteristiche legate alla produzione a rete (unità produttive piccole e medio-grandi, strutturate a filiera) e legata a prodotti di contenuto tecnologico medio o medio-alto (come la motoristica e le macchine automatiche).
Il comparto industriale bolognese dagli anni 80 subisce però una lenta erosione, seguendo le tendenze generali del passaggio dall’industria ai servizi, modificando equilibri politici e con ripercussioni sulla città.
Tuttavia mantenne ancora una relativa centralità rispetto al quadro politico e sociale cittadino.
Pur essendo travolto dalla trasformazione del modello bolognese, questo comparto non subì una repentina flessione, grazie alle caratteristiche del suo prodotto e approfittando della svalutazione della lira all’epoca degli ultimi governi della Prima Repubblica.
La svalutazione della lira
Sfruttando prezzi di vendita ribassati dal cambio favorevole, l’imprenditoria locale si proiettò all’estero guadagnando porzioni di mercato.
Siamo dentro al neo-boom di fine anni 80 inizi 90, che vede l’economia emiliana e veneta scalare l’Europa: è la rivincita del nord-est (piccole e medie imprese) contro il vecchio triangolo industriale del nord-ovest (MI-GE-TO).
Esisteva comunque una importante differenza tra il tipo di produzione emiliana rispetto a quella veneta.
In Emilia il prodotto industriale meccanico realizzato da una rete industriale diveniva via via sempre più specializzato, mentre in Veneto la serialità rappresentava la tendenza egemone, di piccole unità produttive.
Questo spiega perché il risveglio Veneto fu ben più rapido di quello emiliano sotto il profilo industriale e al tempo stesso questa differenza è la chiave di lettura per leggere le diverse velocità rispetto ai fenomeni della crisi nelle due regioni.
L’euro
Il “muro” dell’Euro, fermò le “svalutazioni competitive” che tanto giovarono alla ripresa neo-industriale dell’Emilia.
Questo mutamento dei mercati a livello internazionale fece ancor più incrementare l’uso alla riduzione dei salari, utilizzando il processo di precarizzazione del lavoro e l’immissione di manodopera migrante.
Il padronato privo del meccanismo delle “svalutazioni competitive” si concentrò sui margini di guadagno dati incidendo sull’elemento vivo del costo del lavoro.
Servendosi di quel rapporto stretto, che si era creato su scala mondiale tra flessibilità produttiva e precarietà contrattuale, generatosi dentro ai primi segnali di crisi mondiale dalla metà degli anni 70.
La nuova composizione di classe
Questo fatto mutò drasticamente la composizione sociale dell’occupazione bolognese, ora costituita, oltre che da lavoratori ‘garantiti’, anche da lavoratori temporanei e stranieri.
Attraverso il binomio precarietà-flessibilità la parte economica-industriale della città continuava a fare profitti, anche in assenza dell’aiuto della “mano pubblica” locale, tanto da poter vivere con liberazione la fine dell’egemonia comunista sul Comune e l’ingresso di una nuova stagione di alternanza politica.
L’imprenditore privato, assume direttamente la gestione della politica pubblica, e sposta i profitti, ridimensionati dalla competizione globale, dalla produzione diretta ai servizi e alla logistica.
Mentre l’amministrazione pubblica, mutando il suo stato, diventa non più gestore ma figura notabile al servizio del privato, capace di volta in volta di sfruttare quello che rimane degli spazi di agibilità abbandonati dell’amministrazione pubblica rispetto al territorio e all’economia.
La crisi dei mutui
È solo con la recente crisi dei mutui, che inizia a farsi sentire la crisi generale del comparto privato-industriale, e questo modifica le prospettive economiche del futuro.
Una possibile previsione è che nel medio periodo la domanda estera, su cui il “modello privato industriale bolognese” ha costruito le proprie fortune, possa ridimensionarsi drasticamente.
La reazione dell’imprenditoria locale potrebbe essere altrettanto drastica: licenziamento della manodopera in esubero se non addirittura chiusura delle attività produttive. Inoltre l’imprenditoria privata sarebbe costretta a richiede con forza un intervento pubblico di aiuto, ma tutto dentro logiche interne, facendo pagare i debiti e la crisi alle fasce popolari, attraverso una maggiore pressione fiscale.
Il possibile declino
Siamo di fronte ad una città che rischia di precipitare in un declino caratterizzato dall’inerzia privata e dalla impotenza della “mano pubblica” locale.
Ovviamente i tempi della crisi sono importanti.
Questi processi potrebbero assumere connotati diversi se inseriti dentro un contesto temporale di due piuttosto che di dieci anni.
Tuttavia possiamo supporre che se un comparto industriale di Bologna e provincia potrà uscire da questa recessione, sarà quello legato ai prodotti di medio-alta tecnologia (meccanica), ovvero un settore industriale basato su “nicchie produttive”.
Quindi il comparto industriale storico di Bologna e provincia perderebbe comunque importanza rispetto al quadro economico generale del territorio, indirizzando Bologna verso una città di servizi, e un nodo di trasporti, invece che come un centro in grado di coordinare e orientare l’attività economica-industriale del territorio.
Scheda 1. Bologna industriale
“fer o sfer, l’è tott un lavurer’
Storia industriale emiliana
Bologna e più in generale l’Emilia è stata contraddistinta da un’elevata presenza di determinati comparti industriali dove si sono riscontrate alcune caratteristiche uniche rispetto al quadro nazionale:
- l’assenza di metropoli in grado di assorbire una rete produttiva, che si irradiava dentro tutto il territorio. Non siamo mai stati in presenza di un gigantismo industriale, ma di una fitta rete di industrie che ha di fatto coperto la via Emilia e le diverse cerchie urbane. Le stesse fabbriche bolognesi presenti nella città non hanno mai potuto essere paragonate in termini numerici a quelle del vecchio triangolo industriale o di altre zone nel nord Italia basate su una mono-produzione (come il tessile nel vicentino);
- un’industria altamente specializzata che si è contraddistinta fin da subito nel mettersi a rete sfruttando appieno la logistica e le caratteristiche del territorio. Tutto questo è stato sorretto da un sistema che ha visto compenetrare le amministrazioni locali, le organizzazioni sociali e le industrie;
- una disponibilità di capitali provenienti dal settore agricolo che, attraverso la scomparsa del mondo contadino tradizionale, aveva sviluppato attività ad alta produttività e ad alto reddito, integrata a monte con produzioni chimiche e meccaniche e a valle con l’industria alimentare.
È importante segnalare come la campagna emiliana sia stata tra le prime a meccanizzarsi e a creare una fitta rete di infrastrutture legate alla lavorazione dei prodotti agricoli e animali, anche attraverso la struttura del mondo cooperativo che. grazie al suo essere capillare sul territorio, ha permesso un altrettanto capillare sfruttamento delle risorse naturali.
L’industria oggi in Emilia
Ora tutti e tre questi fattori sono profondamente modificati o finiti (vedi le difficoltà del sistema agro-alimentare e dell’agricoltura più in generale rispetto alla competizione globale). È da almeno 20 anni che assistiamo ad un restringimento del comparto industriale in Emilia, mentre è cresciuto il settore dei servizi e della logistica: Bologna con il 73,5 % di occupazione legata ai servizi sorpassa la media regionale del 64%. I 445.000 occupati nella provincia si distribuiscono tra l’agricoltura (8.000 addetti), l’industria (155.000), i servizi e il commercio (282.000). I lavoratori dipendenti sono 332.000 mentre quelli autonomi sono 113.000, questi ultimi distribuiti nei servizi (77.000), nell’industria (31.000) e nell’agricoltura (4.000).
Questa dinamica ha modificato enormemente l’assetto urbano cittadino, da ormai diversi anni di fatto svuotandolo dalle “fabbriche con i mattoni rossi”.
Sarebbe errato leggere questa trasformazione esclusivamente sotto il profilo delle desertificazione industriale.
Se scomponiamo i servizi, vediamo infatti, come che una buona fetta è legata alla logistica e quindi al servizio diretto del nuovo modello industriale basato sulla specializzazione che, se contrae il numero degli addetti alla produzione, aumenta l’occupazione in tutti gli altri aspetti legati all’organizzazione complessiva del lavoro (progettazione, movimentazione, gestione, diffusione, vendita del prodotto).
Dentro questo processo si assiste ad uno spostamento dei rapporti di forza tra l’industria manifatturiera e i servizi, nel senso che l’impulso strategico e il potere economico sembrano spostarsi verso i centri di governo della distribuzione e della logistica.
Questo ovviamente cambia anche il ruolo dell’imprenditore, il suo rapporto con il territorio e i margini di profitto che cerca di sviluppare sia in termini temporali che materiali.
La struttura industriale in Emilia
I principali settori industriali in Emilia sono tre:
- industria alimentare
- lavorazione minerali non metalliferi
- fabbricazione di macchine e apparecchi
Gli addetti nel comparto industriale manifatturiero in Emilia sono l’11% del totale nazionale. A sua volta l’incidenza del comparto industriale a Bologna (rispetto al valore aggiunto per settore di attività economica) è del 26,0% rispetto al 32,9% su base regionale; soltanto le città di Reggio Emilia e Modena sorpassano la media regionale.
Il comparto relativo alle macchine automatiche con il 20% degli addetti coinvolti a Bologna è quello principale.
Esso costituisce il 32% delle esportazioni e il 64% del saldo attivo dell’interscambio regionale. Nel settore specifico delle macchine automatiche legate al Packaging troviamo tra Bologna e provincia 101 imprese con 7139 dipendenti.
Un secondo comparto industriale importante di Bologna è quello legato ai motocicli dove si contano oltre 150 imprese con più di 4.000 addetti.
Sia il comparto delle macchine automatiche sia quello dei ciclomotori sono strutturati come veri e propri distretti industriali presenti sul territorio.
Un’altra caratteristica importante dell’industria bolognese e emiliana è la presenza di una fitta rete di aziende medio-grandi. In regione in questi anni abbiamo assistito ad una vera e propria controtendenza nazionale.
Vi è stata infatti una diminuzione delle piccolissime imprese e un aumento di quelle medio-grandi, con un rafforzamento sotto il profilo produttivo di quelle sopra i 250 addetti e sopra i 500 addetti (+76% a scapito di -52% sul dato nazionale: i dati si riferiscono al 2001).
La contrazione ha colpito le piccolissime imprese passate dal 19% al 14% tra gli anni novanta e il 2000.
Questo è stato possibile grazie ad un modello a rete che non ha mai privilegiato il nanismo industriale, come nel caso veneto, o il gigantismo, come nel caso del nord-ovest italiano.
Una tale situazione la si riscontra anche dentro gli specifici distretti industriali dove esiste una rete di medie aziende che hanno sorpassato la piccola industria.
Bisogna inoltre considerare che 1/3 delle imprese medio grandi aggiuntesi in Italia negli ultimi 10 anni sono dislocate in Emilia Romagna.
Un altro dato è la presenza sul territorio bolognese di ditte che presentano un alto contenuto tecnologico.
Vi sono inoltre ben 5500 imprese con la certificazione di qualità rispetto al settore industriale, che fa di Bologna e dell’Emilia Romagna una delle zone dove si concentra maggiormente questo attestato.
Circa il 55% delle imprese a Bologna è guidato da manager che provengono dall’interno dell’area distrettuale, ben al di sopra della media nazionale, sebbene in regione abbiamo picchi ancora più alti, come a Reggio Emilia dove si arriva al 70%.
Un altro dato da mettere in relazione con il precedente è l’alto tasso di scolarizzazione presente nel mondo del lavoro nella regione emiliana, favorito da una interazione tra le strutture formative, come nel caso degli istituti tecnici e delle Università, con il tessuto produttivo locale.
Questo ha permesso di avere una robusta fascia di tecnici e ingegneri legati all’innovazione tecnologica.
Esportazioni e flessione industriale
Sul piano generale l’aumento del grado di interdipendenza con l’estero è stata la tendenza comune dei sistemi economici che si è manifestata con il progressivo aumento del peso degli scambi commerciali sul PIL.
Questa dinamica trova conferma anche nell’analisi specifica del territorio emiliano-bolognese.
Dopo un boom delle esportazioni fra il 1992 e il 1996 (dallo 0,6 allo 0,8% rispetto alle quote di mercato dell’Emilia Romagna sulle esportazioni mondiali), favorito dalla svalutazione della lira, abbiamo assistito ad un forte ridimensionamento delle esportazioni, tuttavia non cosi negativo se confrontato con l’andamento nazionale.
La data del primo sintomo di crisi dell’export italiano si è registrato nel 1999, quando le vendite estere sono rimaste invariate rispetto all’anno precedente, nonostante un amento del 5,6% del commercio mondiale.
Tra il 2000-2004, a fronte di un aumento del commercio mondiale del 30%, in Italia abbiamo assistito ad un aumento del 9,3%, con una ricaduta sul quadro emiliano-bolognese.
I fattori nazionali che hanno provocato questa flessione sono stati essenzialmente tre:
a) il rientro da un eccesso di proiezione sui mercati internazionali, sospinto nella seconda metà degli anni 90 dalla svalutazione della lira, con l’introduzione dell’Euro
b) la debolezza del modello industriale e di specializzazione, nel quale conservano un peso particolarmente rilevante molti prodotti tradizionali esposti alla concorrenza di prezzo dei paesi di nuova industrializzazione (la debolezza del Made in Italy essenzialmente legato a prodotti con un basso profilo tecnologico)
c) I limiti settoriali della politica dei distretti sotto il profilo della logistica e della capacità di investimento e innovazione, ossia un eccessivo localismo che è stato travolto dai mercati internazionali
Tuttavia mentre l’economia italiana è stata investita da questi tre fattori, l’Emilia Romagna pur in flessione, ha subito solo gli ultimi due dei tre fattori.
La capacità del suo comparto manifatturiero legato alle macchine automatiche e ai motori, è riuscita a dare nuova linfa al mercato estero, all’interno di questi settori altamente specializzati grazie ad una forte dinamica di investimenti in tecnologia e ricerca.
Il settore dei macchinari ormai copre il 45% del totale delle vendite estere.
Il settore legato ai “prodotti di lavorazione delle materie prime”, che ha una incidenza regionale notevole, anche se in forma ridotta a Bologna, ha contribuito a questa capacità di tenuta sul mercato estero, tuttavia ora è destinato ad infrangersi.
Infatti la concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione in questo settore dove si può parlare di medio-valore tecnologico, diventa via via sempre più aggressiva. 1 segnali di crisi sono ormai conclamati, per fare un esempio, nell’epicentro della ceramica, nella provincia di Modena.
Crisi e fine del mondo industriale?
In altre parole l’Emilia Romagna si distinguerebbe dall’Italia in questi comparti per una maggiore capacità di resistenza a un trend sfavorevole, piuttosto che per un movimento di crescita rapido.
Nel complesso la storia dell’ultimo decennio sembra spiegata più da una progressiva intensificazione alla specializzazione e, quindi, da un aggancio a nicchie e segmenti di mercato ben precisi, piuttosto che da un generico riferimento alla tendenza della domanda mondiale nei grandi comparti.
Questo però potrebbe non bastare a contrastare i processi di crisi in atto poiché, mentre un tempo i servizi integravano e assorbivano l’industria, oggi essi stessi sono colpiti, così che ben difficilmente potranno avviare un processo inverso, visto che la modificazione dell’organizzazione del lavoro e della progettazione produttiva è ormai una scelta obbligata se si vuole sopravvivere dentro la competizione globale.
Quindi, anche se un determinato segmento industriale manifatturiero resistesse, verrebbe comunque trascinato dentro gli attuali processi di contrazione economica che stanno investendo sia il settore dei servizi e della logistica che il grosso del comparto industriale legato alla produzione con un basso profilo tecnologico.
Non deve ingannare l’attuale tenuta rispetto ai tassi di occupazione che fa si che la nostra provincia sia fra le poche realtà ad avere superato l’obiettivo del 70% fissato dall’Unione Europea per il 2010.
Oggi assistiamo ad inediti processi di crisi che investono settori industriali ritenuti un tempo “intoccabili”.
Nel 2008 nel solo comparto industriale abbiamo avuto nel territorio bolognese più di 40.000 addetti coinvolti nella crisi e ben 400 aziende che subiscono le veloci modificazioni dell’attuale competizione globale.
Questi dati sono destinati a salire nei prossimi mesi, con l’ampliarsi della crisi in atto ed il perdurare di questa condizione accelererà i processi di desertificazione industriale rendendo, ancor più precario il rapporto tra industria e servizi.
Scheda 2. Bologna operaia
“gli operai dell’Emilia-Romagna
guardavano con occhi stupiti”
I treni per Reggio Calabria
Giovanna Marini 1973
L’epopea operaia
La classe operaia industriale bolognese è stata specchio dei cambiamenti socio-economici e politici avvenuti in questi anni.
La fabbrica nel nostro territorio era si il luogo di sfruttamento e di instupidimento mentale (chi ha lavorato dentro ad una fabbrica sa benissimo di cosa stiamo parlando), ma anche paradossalmente del “saper fare”, di una nuova versione moderna dell’artigiano costruttore.
La classe operaia come soggetto sociale era centrale nell’analisi del PCI che costruiva il suo modello di alleanze in regione (impresa-amministrazione-parti sociali) basandosi sulla forza che esercita la classe operaia cittadina.
Questa classe operaia secondo l’analisi del PCI era la maggiore beneficiaria di questa santa alleanza per il progresso sociale.
Il PCI, vero e proprio partito operaio nella regione, poteva esercitare una forza compatta da giocare dentro questo meccanismo trovando un equilibrio tra le diverse forze sociali.
Estremizzando la parola comunista e operaio erano sovrapponibili in Emilia.
Una simile centralità operaia nella comunità sociale cittadina nasce da diversi fattori:
– la figura operaia bolognese (emiliana) era legata profondamente al territorio, prevalentemente di estrazione post-contadina, con ancora un solido legame con quello che era il territorio extra-urbano.
Questo gli dava maggiore forza in quanto non esisteva quella frattura tra centro e periferie che si andò a connaturare nelle grandi città industriali del nord.
Inoltre era sostenuta da quella fitta rete cooperativa nata dal mondo socialista contadino, che gli permetteva di avere una seconda linea sempre mobilitata.
– era stata per molti versi la componente più attiva dentro il processo di democraticizzazione della regione dando un contributo massiccio alla lotta al nazi-fascismo, basti pensare che i primi gruppi gappisti nascono direttamente dentro le fabbriche a Bologna come nel caso del gruppo della Sasib in via Corticella, dove il muro davanti alla fabbrica era la naturale bacheca del movimento antifascista cittadino.
Vi era quindi una diversa percezione tra gli operai emiliani, non essere unicamente massa di manovra, ma di essere soggetto attivo del cambiamento.
L’essere produttore non solo di oggetti ma di una diversa via di sviluppo.
Non è un caso che proprio nella nostra regione, culla del socialismo riformista, si sia sviluppata parallela e integrata ad esso una forte tradizione comunista, che univa gli aspetti di gestione e sviluppo del territorio con una dimensione egemonica sulla società nel suo complesso.
Dentro la classe operaia emiliana si percepiva questa forza ed è per questo che qui il problema del potere e di come raggiungerlo è stato cosi pressante anche negli anni immediatamente successivi alla Liberazione (le armi disseminate dai partigiani comunisti nei nostri appennini sono li a dimostrarlo).
La liberazione venne vissuta sotto un duplice aspetto da questo soggetto sociale, da una parte come processo di democraticizzazione della società dall’altro come lotta di classe. La stessa cultura di riferimento, quella comunista, poneva al centro il soggetto operaio rovesciando compietamente la scala di valori culturali nella società. Da noi l’epopea dei trattori “rossi” non era solo propaganda sovietica, ma si realizzava sul territorio.
– L’orgoglio del sapere operaio era un patrimonio palpabile dentro la classe industriale bolognese.
Questo orgoglio non era solo vissuto sotto il profilo politico, ma anche del fare: l’industria bolognese, va ricordato, è stata legata prevalentemente a prodotti di media-alta tecnologia che richiedevano una figura operaia specializzata o semi specializzata, ben diversa dal mero lavoro della catena di montaggio.
Abbiamo lo sviluppo delle fabbriche motoristiche di lusso e dei ciclomotori, cosi come la fabbricazione di macchine automatiche o della componentistica.
Abbiamo numerosi operai che si sono fatti imprenditori, realizzando loro stessi i brevetti progettati.
Paradossalmente questo atteggiamento si deve mettere in relazione con il mondo contadino, dove l’agricoltura nell’Emilia sarà una delle prime a svilupparsi tramite la meccanizzazione perché, come ricordavano i vecchi, la terra è bassa.
L’89 della classe operaia bolognese
I cambiamenti sociali di questa comunità non sono intervenuti alla fine degli anni 70, cosi come invece è avvenuto in altre città del nord Italia, ma verso la fine degli anni 80, seguendo involontariamente la storia internazionale della sinistra.
Alla fine degli anni 70 Bologna è attraversata da movimenti che romperanno alcuni schemi, sebbene il corpo centrale della classe operaia bolognese non fu coinvolto da questi fenomeni, in quanto l’organizzazione del lavoro e il rapporto impresa-amministrazione-parti sociali non era affatto mutato.
Si trovò quindi impreparata e non saprà cogliere le spinte progressiste e innovatrici di questi nuovi movimenti, anzi si adoperò per contrastarli, in quanto minavano l’equilibrio sociale.
La classe operaia cittadina non capiva, in quanto si percepiva ancora rispetto alla società in posizione di vantaggio.
Il PCI utilizzò in città, oltre alle forze di polizia questo soggetto sociale per riportare l’ordine.
È drammatico constatare oggi, la cecità della classe operaia cittadina rispetto agli avvenimenti del 77, che non accorgendosi che la ristrutturazione e i nuovi modelli di organizzazione del lavoro in atto erano denunciati dai ragazzi che si battevano in quegli anni nelle strade della città, e che la stessa forza degli operai bolognesi ne sarebbe stata intaccata.
È negli anni 80 che si è avuto il lento ma progressivo mutamento degli assetti economici-sociali in città che hanno portato via via alla dismissione dei diversi stabilimenti, modificando perciò anche l’assetto urbano.
Le fabbriche venivano o spostate fuori dai confini municipali, o venivano definitivamente chiuse.
Questo processo è ancora oggi in atto, sebbene ormai ci sia poco da spostare o da chiudere.
La classe operaia, un tempo in bicicletta, il mezzo più usato per andare al lavoro, visto la vicinanza, si muove ora con le autovetture, gli orari si ampliano e arriva la precarietà contrattuale provocata dalla flessibilità produttiva.
Pur avendo ancora un peso notevole rispetto alla composizione sociale della città la classe operaia perde il suo primato in termini di centralità politica.
Il partito di riferimento svanisce e quello che rimane è solo un robusto sindacato di categoria che, tutto proiettato nel passato, difende il meno peggio, sebbene sia sempre più marginalizzato rispetto agli equilibri sindacali confederali (il peso della FIOM dentro la Camera del lavoro di Bologna è oggi sicuramente minore di 30 anni fa, non solo sotto il profilo numerico, ma soprattutto politico).
Anche il mondo cooperativo muta e diventa soggetto attivo imprenditoriale, rompendo quel cordone ombelicale che aveva rappresentato fino agli anni 80 rispetto alla classe operaia industriale.
La nascita del sindacalismo di base nella regione e a Bologna non ha coinvolto prevalentemente il settore industriale, ma alcune importanti segmenti dei servizi e della logistica.
Questo è stato causato, oltre che dalla resistenza del sindacalismo ufficiale, dalla tenuta economica del sistema industriale bolognese che, pur contraendosi numericamente rimaneva all’avanguardia.
I nuovi operai “bolognesi” senza dialetto
La composizione interna operaia muta, con l’inizio degli anni 90, l’industria è spinta dalla locomotiva tedesca e da una congiuntura economica favorevole. Bologna e l’Emilia hanno visto una espansione notevole, di fatto simile all’impennata del cosiddetto nord-est.
Le fabbriche si sono riempite di giovani meridionali e di immigrati extra-comunitari.
Un simile fenomeno è stato nuovo se si considera l’evoluzione in regione dei flussi migratori, ancora a metà degli anni 80 la lingua più diffusa dentro le fabbriche era il dialetto bolognese.
Oggi la percentuale di lavoratori bolognesi direttamente coinvolti nell’industria non raggiunge nemmeno la metà, essendo la maggior parte legata ai flussi migratori italiani o esteri.
La dimensione operaia politica ne è stata cosi stravolta da far finire la figura dell’operaio comunista.
Nuove formazioni politiche attraversano le fasce operaie autoctone che, spingendo verso una guerra tra poveri, introducono con forza elementi razzisti e neo-fascisti (vedi lo sviluppo della Lega Nord anche a Bologna).
Questo dato ha modificato non solo le fabbriche ma l’intera città. I quartieri hanno oggi una nuova fisionomia e nuovi colori e lingue.
Ma questo cambiamento della comunità sociale operaia non è stato ancora metabolizzato dalla città, e gran parte dell’isteria legata al mantenimento di una tranquillità sociale si basa su un “piccolo mondo antico” che non esiste più.
La mobilità produttiva si riflette nella mobilità urbana. Si assiste a un fenomeno di cambio di abitazione e residenza dentro la città o tra la città e la provincia inedito per Bologna.
Rimane tuttavia abbastanza definita la zona dove vivono le fasce operaie, rappresentata dai quartieri che si sviluppano verso la pianura e lungo la via Emilia (Borgo Panigale, Barca, Navile, San Donato, Savena) mentre hanno assunto problematiche nuove quelle legate alla viabilità: lo spostarsi per lavoro dalla città ai vari distretti industriali collocati oltre Bologna negli attigui e ricchi “paesoni” dell’hinterland.
Una nuova Bologna operaia?
Oggi il peso dell’industria a Bologna è ancora importante nel quadro economico generale. Abbiamo una città praticamente de-industrializzata, ma una prima cintura urbana provinciale con diverse aree industriali, che si sono sviluppate prevalentemente verso la pianura seguendo le linee storiche della via Emilia.
Tuttavia le tendenze in atto mostrano una flessione al ribasso di questo comparto, che sta accelerando a causa degli attuali processi di crisi in atto.
La forza sociale operaia sembra oggi svanita.
Ma se molto di questo deficit lo si può imputare all’evoluzione politico-sindacale, tuttavia questa spiegazione risulterebbe monca.
Il peso della classe operaia è mutato a livello nazionale, in quanto è proprio il comparto industriale che non riveste più quelle caratteristiche di un tempo.
L’incapacità di reagire agli attuali processi di ristrutturazione o di chiusura di numerose industrie, provocate dagli attuali processi di crisi, è la conferma di una debolezza e di una impreparazione operaia nel riformulare una strategia di resistenza.
Abbiamo una classe operaia che non solo si sente orfana e abbandonata dal privato (l’industria), ma anche dal pubblico (l’amministrazione municipale).
Un’amministrazione che non può supplire alla crisi e lascia indifese le fasce operaie rispetto a nuove problematiche come la questione abitativa, la mancanza di servizi, la disoccupazione, ecc…
In mancanza di soluzioni e di forme organizzative adeguate sotto il profilo politico-sindacale, per rispondere a questa nuova complessità di problemi, le fasce operaie autoctone possono finire per trovare nella destra populista il loro punto di riferimento.
L’immagine della classe operaia è generalmente rivolta al passato, e questo non permette di considerare l’attuale composizione sociale delle fabbriche bolognesi, dove oggi esistono moderne aggregazioni sociali, come e fasce immigrate e i precari.
Inoltre la flessibilità produttiva rende altamente vulnerabile una simile organizzazione del lavoro e potrebbe essere utilizzata come nuova arma operaia sindacale (zero magazzino, zero scorte).
Se sicuramente è finita un’epoca, siamo ancora alla ricerca di un nuova definizione per la nuova Bologna operaia.
Questa nuova comunità deve scoprire una propria identità, rispetto alla prospettiva e all’incidenza che ha dentro l’attuale quadro economico e sociale cittadino.
Scheda 3. Flessibili e precari
Flessibilità produttiva
Il modello bolognese si basava su una stabilità produttiva che andava di pari passo con la stabilità contrattuale.
Con l’implodere di un tale modello si è avviata anche nel territorio bolognese una diversa modellistica produttiva e contrattuale.
La produzione si basa oggi su di un sistema di flessibilità che impone l’azzeramento del magazzino, dove il prodotto è di fatto praticamente già venduto al momento della sola progettazione.
Questo ha investito tutta l’organizzazione del lavoro, dove la ricerca di un guadagno immediato è andata a scapito di una programmazione di lungo periodo.
La stessa tipologia industriale manifatturiera bolognese, contraddistinta da un prodotto medio-alto tecnologico, si è uniformata a questo nuovo modello.
Oggi la flessibilità dei lavoro investe tutti i comparti, da quello industriale a quello legato ai servizi e alla logistica.
Questo ha modificato il rapporto che esiste tra i lavoratori e l’organizzazione complessiva del lavoro, provocando la distruzione della vecchia comunità sociale.
La flessibilità diventa un modello che si irradia in tutti gli aspetti della società, basta pensare al ruolo molto più flessibile che ha oggi l’amministrazione pubblica rispetto alla programmazione economica.
La gamba su cui poggia l’attuale flessibilità produttiva è la precarietà contrattuale che è stata sdoganata dal primo governo Prodi e ha visto una applicazione massiccia in Emilia, come risposta al mini-boom di inizio anni 90 e successivamente come soluzione per sopperire alla contrazione dei mercati esteri, visto l’impossibilità di utilizzare le svalutazioni competitive con l’ingresso dell’euro.
I dati
Abbiamo ormai un trend che vede il 70% di assunzioni con contratti atipici.
Tra i nuovi contratti il più diffuso è quello a tempo determinato (38%), seguito dalla somministrazione (l’ex interinale) all’11,3%, l’apprendistato (6%), il lavoro a progetto e occasionale (5,4%), il socio di cooperativa (3. 8), l’intermittente (2,3%), la collaborazione coordinata e continuativa (1,3%), il tirocinio formativo (1%), il lavoro autonomo con partita Iva (0,4) e il contratto di inserimento (0,4).
Il 70% delle assunzioni ha riguardato persone sotto i 40 anni, mentre solo il 16% è oltre i 45. I giovani sono i più assunti con contratti atipici, ma la precarietà riguarda anche gli adulti: il 60% delle persone assunte over 45 hanno contratti precari.
Altro dato interessante è che più della metà dei lavoratori non sceglie volontariamente di avere contratti precari.
Inoltre vi è la porzione dei tirocinanti. Il tirocinio non è un vero e proprio rapporto di lavoro e non ha nessuna tutela. Il 52% dei tirocini dura più di tre mesi e, considerando anche che a quelli curricolari si aggiungono i post laurea, si finisce con avere lavoratori che ancora a 34 anni svolgono tirocini.
Precarietà sociale diffusa
I precari sono oggi il settore che viene più colpito dai processi di crisi, essendo il segmento più debole, e quindi i primi che vengono disoccupati.
I dati attuali parlano di più di 80.000 contratti precari a rischio per il 2009, e queste stime sono destinate a crescere perdurando la crisi in atto.
È un precariato che assume un carattere generale rispetto a tutti gli aspetti sociali, da quello abitativo, perché con un contratto precario è difficile contrarre un mutuo o anche prendere una casa in affitto, a quello legato ai servizi come trasporti, sanità, istruzione. Questa porzione lavorativa trasversale ai settori e alle varie fasce sociali tradizionali (operai e ceti medi impiegatizi), non è stata ancora capace di trovare forme adeguate d’organizzazione sindacale.
La compattezza della società bolognese sembra ormai un ricordo, tanto da potersi dire che oggi abbiamo una generazione di precari nati.
Scheda 4. I Migranti
Composizione
La popolazione migrante residente nel Comune di Bologna a dicembre 2008 è pari a 39.480 unità. Le nazionalità più numerose sono la Romania con 5.047 residenti e le Filippine con 4.068 unità. Seguono poi il Bangladesh (3.477), il Marocco (3.014) e l’Albania (2.302 unità).
La predominanza dei rumeni è valida anche nella Provincia di Bologna, a cui segue la comunità marocchina situate prevalentemente nella area montana. In paesi come Vergato, Castel del Rio e Monghidoro i migranti superano il 10% della popolazione totale.
I migranti rappresentano ormai il 20, 6 % dei giovani residenti a Bologna, con una spiccata prevalenza femminile tra le cittadinanze dell’Europa orientale, mentre sono a maggioranza maschile quelle del Medio Oriente, del sub-continente indiano, nonché dell’Africa centro-settentrionale.
Tutti questi dati escludono i flussi migratori clandestini: se in Italia ci sono oltre 650.000 di stranieri irregolari (circa 1, 1 clandestino per ogni 100 abitanti), a Bologna si ipotizza che 20 persone ogni mille abitanti siano clandestine, quasi il doppio della media nazionale.
Lavoro
Gli immigrati hanno un tasso d’attività (73%) di 12 punti più elevato degli italiani e l’inquadramento lavorativo più richiesto è quello operaio, che tra gli extracomunitari tocca quasi il 90%.
I migranti sono inseriti nelle piccole aziende, specialmente in quelle da due a cinque dipendenti. Ed anche se il settore dove è occupato la maggior parte dei lavoratori immigrati è l’industria, con oltre 10 mila dipendenti e un migliaio di interinali, è nelle costruzioni che gli immigrati hanno l’incidenza più significativa con quasi 8 mila dipendenti.
Si ha pure una specializzazione ‘etnica’, con i lavoratori marocchini che sono presenti in un’ampia varietà di settori, sebbene quasi la metà si occupa di commercio, costruzioni e trasporti, in quest’ultimo settore quasi un terzo degli extra-UE sono del Marocco; mentre tunisini, rumeni e albanesi si dedicano prevalentemente alle costruzioni, con quote pressoché equivalenti tra il 72% e il 74%; pakistani e bengalesi si occupano principalmente di commercio, ma se i bengalesi sono fino a 2/3 in tale settore, i pakistani sono attivi discretamente anche in altri settori e il commercio concentra circa la metà di essi.
L’unica variante che spicca a Bologna, ma anche in altre città italiane, si riferisce specificamente al settore tessile/abbigliamento in cui ben 1’80% dei lavoratori e imprenditori stranieri appartiene alla comunità cinese.
Le modalità d’assunzione dei lavoratori migranti seguono in prevalenza il contatto personale o la segnalazione di altri dipendenti, mentre è meno utilizzato il ricorso ad agenzie di selezione esterna, anche se in notevole aumento.
Disoccupazione e tutela sindacale
Attualmente gli immigrati rappresentano il 22, 5% dei disoccupati iscritti presso i Centri per l’impiego della Provincia di Bologna, ma e’ un dato che cresce esponenzialmente di quasi 5 o 6 punti percentuali ogni mese.
Il lavoro immigrato, di fatto, gode di una ridotta protezione sindacale e di conseguenza dispone di un minor potere contrattuale rispetto alla forza lavoro locale, a causa della scarsa conoscenza della normativa in materia di lavoro e dei diritti che incentiva il ricorso al lavoro irregolare, a cui si ricorre qualche volta anche per massimizzare i profitti senza avere nessun tipo di copertura sociale.
Ogni qualvolta l’immigrato cambia lavoro (ciò avviene mediamente due volte l’anno) ed ove secondo la legge dovrebbe avvenire l’assunzione, viene teoricamente costretto a tornare al suo Paese di origine. Ciò non fa che spingere i lavoratori più qualificati a tornare al proprio paese di origine, mentre gli stranieri meno istruiti e qualificati che sono più disponibili a sottostare a meccanismi così perversi restano più facilmente obbligati alla irregolarità.
Gli addebiti giudiziari sono più ricorrenti tra gli immigrati che si trovano in situazione irregolare solo perché lo stato di irregolarità si tramuta in un reato che li trasforma per principio in delinquenti.
Abitazione
Per quanto riguarda l’argomento casa vi è un’emergenza abitativa a causa di un proibitivo mercato immobiliare e delle scarsissime risorse pubbliche che hanno sempre frustrato la volontà di accedere a quella normalizzazione del vivere di cui la casa è uno degli elementi imprescindibili.
Indagini recenti dimostrano che gli immigrati, nel momento in cui hanno un lavoro relativamente sicuro e garantito, tentano di dare maggiore stabilità alla loro vita ricongiungendosi con la famiglia o cercando di formarsene una, ma questo progetto è negato dal prezzo esorbitante degli affitti e dei mutui per ottenere una casa di proprietà.
Associazionismo
Alle difficoltà che incontrano i migranti cercano di reagire con forme solidali d’associazionismo.
Ma se è molto attiva la popolazione immigrata che nel bolognese si auto-costituisce mettendo in atto interventi di solidarietà attraverso più di 60 associazioni, questo viene osteggiato dalla burocrazia e dalla rete sfilacciata dei rapporti: non a caso 3 associazioni su 4 hanno sede legale nel Comune di Bologna.
E questo in controtendenza rispetto ai trend demografici che vedono invece molti immigrati andare a risiedere in provincia, vedendosi così inesorabilmente tagliati fuori da quelle esperienze associative per motivi sia economici che di mobilità, col rischio di costituire pezzi di comunità ulteriormente indebolite a livello sociale di un categoria perennemente vessata, che subisce uno sfruttamento doppio: quello salariale e quello neocoloniale, tramite leggi razziste e anti-democratiche.
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Immagine in evidenza: Proprietà privata
Autore: Del-Uks, 23 ottobre 2018
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