Donne de Borgata in Comrade Sisters
Era il 2 maggio del 1967 quando davanti al parlamento della città di Sacramento, capitale della California, 24 ragazzi neri e 6 ragazze nere scendono da sei automobili e si posizionano sulle scalinate di ingresso. Indossano giacche di pelle e baschi neri e portano con sé fucili e mitra. Dopo aver letto un comunicato, entrano nel parlamento nel quale si stava discutendo di una proposta di legge per restringere la libertà di portare armi da parte dei cittadini privati, facendo scappare atterrito lo stesso Ronald Reagan, futuro presidente degli Stati Uniti. Dopo una breve contrattazione uno dei leader, Bobby Seale, riesce a leggere l’appello alla popolazione nera, in diretta TV:
Il Partito delle pantere nere per l’autodifesa esorta il popolo americano in generale e il popolo nero in particolare a prendere attentamente nota che gli organi legislativi razzisti della California stanno preparando leggi miranti a mantenere il popolo nero disarmato e senza potere proprio nel momento in cui in tutto il paese le agenzie razziste di polizia stanno intensificando il terrore, la brutalità, l’assassinio e la repressione della gente nera. […] La schiavitù dei neri fin dall’inizio stesso della storia di questo paese, il genocidio degli indiani americani e la relegazione dei superstiti in apposite riserve, il brutale linciaggio di migliaia di donne e di uomini neri, il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki e ora il vile massacro perpetrato in Vietnam, tutto dimostra che verso i popoli di colore la struttura di potere razzista di questo paese non ha che una politica: quella della repressione, del genocidio e del terrore, la “politica del grosso bastone”. […] Il Partito della pantera nera per l’autodifesa crede che sia venuto per la gente nera il momento di armarsi contro questo terrore prima che sia troppo tardi.
L’America aveva conosciuto così il Black Panther Party For Self-Defence, il partito fondato qualche mese prima da Huey P. Newton e Bobby Seale.
Sostituendo il principio della nonviolenza – tradizione di parte del movimento di liberazione nero che si stava diffondendo a partire dagli anni ’60 – con quello dell’autodifesa, il BPP basava la sua azione su 10 punti “programmatici” che avrebbero segnato le aspirazioni e le vite di una generazione di afroamericani.
Perché accanto all’autodifesa in senso stretto, praticata tramite il cosiddetto “patrolling”, ossia monitorando – visibilmente armati o meno – l’operato della polizia per evitare abusi, omicidi e violenze, le Black Panthers avevano strutturato programmi di formazione e agitazione politica, attività internazionalista e “Survival Programs”, azioni di supporto alla comunità nera, ispirati dal concetto del “Servire il Popolo”. Un metodo di lavoro che giorno dopo giorno permetteva agli afroamericani di prendere sempre maggiore coscienza della propria condizione – di classe e di “razza” –, di trasformarsi personalmente praticando la militanza, di tornare alle proprie origini rifiutando la visione bianca “integrazionista” e di riconoscersi in una comunità e in un movimento dai forti caratteri identitari. Giacche di pelle, basco, occhiali da sole, capelli stile afro e armi bene in vista rappresentavano in questo senso elementi di riconoscibilità che garantivano la visibilità dei militanti nei ghetti e valorizzavano il profondo radicamento che il partito, i suoi membri e le sue attività avevano nei territori, da una città all’altra del paese. Un’identità specifica che, discostandosi dagli altri movimenti per i diritti civili e andando oltre le altre esperienze dei movimenti per la liberazione degli afroamericani, mirava a costruire un modello praticabile di società alternativa a partire dai propri territori, promuovendo un’immagine collettiva di comunità militante in cui gli stessi leader, per quanto riconosciuti, non erano l’elemento centrale. E proprio la centralità dell’aspetto collettivo e comunitario del BPP ne rappresentava il suo valore aggiunto, come ampiamente riconosciuto dalle forze repressive dello stato che tramite il COINTELPRO cercarono – e purtroppo nel tempo riuscirono – a minare proprio dall’interno la comunità che si era andata a creare.
Agendo nel “ventre della bestia” degli Stati Uniti d’America, maggiore potenza imperialista dell’epoca, il BPP si muoveva su due piani principali.
Primo, portare un “attacco alto”, inquadrando il razzismo nei termini di una qualità intrinseca della società capitalistica funzionale allo sfruttamento e al profitto e, in tal senso, inserendo la lotta anti-razzista nella più ampia lotta anticapitalista e anti-imperialista: in quest’ottica vanno letti gli strumenti di supporto a Cuba, sfiancata dall’embargo USA, e l’opposizione alla politica interventista statunitense in Vietnam, in America Latina così come in Medio Oriente. Grazie alle influenze del pensiero marxista-leninista e allo studio dei testi di Lenin, Mao, Che Guevara e dei massimi esponenti del movimento comunista internazionale e dei movimenti di liberazione degli afroamericani, il partito delle BPP è riuscito a portare migliaia di persone, la maggior parte proveniente dai ghetti statunitensi, su un piano di lotta concreto che superasse le battaglie per i diritti civili per abbracciare una prospettiva generale di alternativa di sistema per tutti gli oppressi, in qualsiasi parte del mondo.
Secondo, riconoscere e combattere gli strumenti di sfruttamento della “colonia interna” rappresentata dalle comunità oppresse e discriminate che vivevano negli USA, andando ad agire sulle disuguaglianze e sulle problematiche concrete e materiali della comunità nera, ascoltando e organizzando direttamente quello di cui avevano bisogno. Una dimostrazione pratica dell’agire da una prospettiva “di classe”, costruita a partire dalle condizioni materiali in cui viveva la comunità nera: colazioni per i bambini, distribuzione di generi alimentari, istruzione e doposcuola per i bambini, ambulanze e assistenza sanitaria gratuita, test e supporto per l’anemia falciforme, sostegno agli anziani e agli adolescenti, trasporti per visitare i propri cari incarcerati, distribuzione di abiti, così come formazione storica, economica e politica. Strumenti con cui non intendevano sostituirsi allo stato ma costruire una comunità in grado di fornire veri e propri strumenti di sopravvivenza e di indicare un’alternativa al sistema presente.
Ma una delle caratteristiche principali del BPP era che gran parte della gestione di questi due piani era portata avanti dalle pantere donne. Perché, nonostante il rimosso storico per il quale il BPP era un’organizzazione maschilista a trazione maschile, in realtà due pantere su tre erano donne e partecipavano attivamente a tutti i livelli dell’organizzazione, secondo le loro attitudini e volontà, come descritto da Mumia Abu-Jamal nelle pagine che seguono. Da un lato, attiviste e militanti erano coinvolte attivamente nei Survival Programs a servizio della comunità, così come nelle formazioni e nella produzione di stampa, materiale informativo e di propaganda per la diffusione capillare del BPP. Dall’altro, militanti, quadri e dirigenti, lontane da desideri carrieristici individuali, assumevano coraggiosamente posizioni di comando in funzione della difesa e del benessere della collettività, affrontando la concreta possibilità di essere incarcerate, torturate, ammazzate o di vivere in latitanza per questo.
Un protagonismo femminile che rappresentava un esempio per tante donne afroamericane e che vedeva le pantere ribaltare il ruolo e i modelli imposti dalla società, ponendosi in prima linea nell’attività quotidiana, nell’autodifesa armata e nella direzione politica. Una funzione, questa, riconosciuta dagli stessi uomini a capo del BPP che avevano chiari il valore delle proprie sorelle nere e la necessità di portare avanti la lotta al loro fianco, senza le quali non ci sarebbe potuta essere nessuna liberazione. In questo senso, il triplice sfruttamento di classe, di genere e di “razza” a cui erano sottoposte le donne del partito si trasformava in una pratica e in una militanza che vedeva l’antisessismo tra i suoi principi fondamentali, sia fuori sia dentro l’organizzazione, nonostante i retaggi culturali di natura patriarcale eredità della società in cui vivevano che talvolta emergevano, ma che venivano affrontati attivamente nel BPP.
“Sorelle, il popolo nero non sarà mai libero se le donne non partecipano ad ogni aspetto della nostra lotta, ad ogni livello della nostra lotta… Sorelle, noi abbiamo una lunga e gloriosa storia di lotte su questo pianeta… Le donne africane erano combattenti forti e coraggiose molto prima di arrivare in catene in questo paese. E qui, in amerikkka, le nostre sorelle sono sempre state in prima linea” (Un messaggio alle mie sorelle, 1980).
Queste parole di Assata Shakur hanno il merito di rappresentare plasticamente la necessità della lotta per la liberazione femminile nell’ambito della più ampia lotta per la liberazione dallo sfruttamento. Antisessismo e protagonismo femminileerano infatti vissuti nel BPP non come feticcio ideologico e “cruccio” dal sapore borghese, ma come risposte a necessità materiali, come esigenze concrete di liberazione, qui e ora, da parte delle donne, sfruttate in quanto proletarie e sottoproletarie, nere e donne.
Ed è proprio da questa stessa urgenza di liberazione ed emancipazione delle sfruttate che, anche nel nostro paese, l’anello più debole della catena dell’imperialismo occidentale, abbiamo dato inizio al progetto di Donne de Borgata, lavorando sul coinvolgimento e la partecipazione attiva delle donne e delle ragazze delle nostre periferie per la costruzione di strumenti di liberazione collettiva.
Per quanto il contesto storico e sociale sia differente – e il livello di conflitto e organizzazione attuale non sia nemmeno paragonabile – è anche grazie agli esempi storici di organizzazione collettiva come il BPP che noi Donne de Borgata possiamo utilizzare e recuperare oggi la concezione di Autodifesa non solo come strumento pratico di difesa “fisica” dalla violenza ma provare a praticare forme di autodifesa “di classe” nei quartieri, nelle piazze, nelle scuole, nelle università e nei posti di lavoro. Un’autodifesa che per noi assume un significato ampio e si sostanzia nel rifiuto della delega della difesa dalla violenza; nell’opposizione all’individualismo e nella costruzione di legami di solidarietà e di comunità, assieme ad altre donne, uomini e libere soggettività che condividono le stesse condizioni di sfruttamento; nella difesa dei diritti e delle tutele che ci hanno tolto, perché la liberazione delle donne passa per la riconquista di quartieri dignitosi, servizi pubblici, scuole e università adeguate e accessibili, lavori e salari decenti, consultori e CAV, diritto all’aborto e alla contraccezione, un reddito di cui vivere; nella pratica della violenza agita in caso di necessità; nel rifiuto della vittimizzazione delle donne; nel contrasto dei ruoli di genere imposti dall’apparato ideologico e culturale di questa società, che riguardano sia gli uomini sia le donne; e, in generale, nel ribaltamento delle logiche di potere su cui si fonda la società in cui viviamo.
In questo senso il Black Panther Party rappresenta per noi un esempio di autodifesa collettiva, di classe, senza divisioni di genere e un’esperienza tangibile di ribaltamento dei ruoli di potere e di genere imposti da questo sistema. Rifiutando qualsiasi vittimizzazione, le donne del BPP si assumevano la responsabilità dalla difesa propria e della propria comunità e utilizzavano consapevolmente la violenza agita, lottando in direzione ostinata e contraria verso un intero apparato ideologico culturale che le vedeva subalterne in quanto nere, povere e donne. Donne che insieme ai fratelli uomini hanno scelto di lottare per la liberazione degli afroamericani in chiave anticapitalista e antimperialista, per un’alternativa sociale, economica e politica di quello che era l’allora stato delle cose, a maggior ragione in contrapposizione ai neri che avevano raggiunto posizione di potere e che non rappresentavano il grido che proveniva dai ghetti americani del “All power to the people!”.
Nel nostro piccolo, analogamente, ci impegniamo ad agire e a portare avanti ogni giorno le nostre battaglie in un contesto di crisi del sistema capitalista, che si manifesta su diversi piani: da quello economico a quello politico, da quello sociale a quello culturale. Così come pesavano sulle spalle degli afroamericani e delle altre comunità le conseguenze delle crisi e delle guerre degli USA a quel tempo, così le donne de borgata e le componenti maggiormente sfruttate della nostra società pagano oggi sulla propria pelle le conseguenze di questo modello di sviluppo, le guerre e la riorganizzazione di un sistema produttivo in crisi basata sull’aumento dello sfruttamento e sul peggioramento materiale delle condizioni di vita e di lavoro. Al contempo, da un punto di vista ideologico, le donne delle nostre periferie sono bombardate da una narrazione femminista liberale che gli propina un’emancipazione individuale e di élite, irraggiungibile alla stragrande maggioranza di donne e specialmente da quelle delle classi popolari, che vede come riferimento donne di potere che non rappresentano altro che ulteriori fonti di sfruttamento come i loro analoghi uomini.
Le “comrades, sisters” erano, come riportato nell’introduzione del libro fotografico curato da Ericka Huggins da cui abbiamo attinto le fotografie presentate in queste pagine, “madri, sorelle, zie, cuoche, addette alle pulizie, frequentatrici di chiese, studentesse delle scuole medie e superiori, studentesse degli Historical Black Colleges and Universities (HBCU), insegnanti, artiste, lavoratrici di fabbriche e negozi, poetesse, ballerine, scrittrici e musiciste, tutte attratte dal modello del BPP”. Le Donne de Borgata per noi sono ancora loro, siamo ancora noi, assieme alle lavoratrici, alle donne e ragazze delle periferie, alle studentesse, alle libere soggettività, alle precarie, alle migranti, alle disoccupate, alle occupanti di case. E lavoreremo insieme per ribaltare il ruolo di vittime che la società ci assegna e diventare protagoniste convinte e attive nella lotta per la liberazione femminile all’interno di processo di rottura con questo sistema.
Come riportato nel programma in dieci punti, anche noi “vogliamo la libertà, vogliamo il potere di determinare il destino della nostra comunità”.
Il programma del Black Panther Party in dieci punti:
- Vogliamo la libertà, vogliamo il potere di determinare il destino della nostra comunità nera
- Vogliamo piena occupazione per la nostra gente
- Vogliamo la fine della rapina della nostra comunità nera da parte dell’uomo bianco
- Vogliamo abitazioni decenti, adatte a esseri umani
- Vogliamo per la nostra gente un’istruzione che smascheri la vera natura di questa società americana decadente. Vogliamo un’istruzione che ci insegni la nostra vera storia e il nostro ruolo nella società attuale
- Vogliamo che tutti gli uomini neri siano esentati dal servizio militare
- Vogliamo la fine immediata della brutalità della polizia e dell’assassinio della gente nera
- Vogliamo la libertà per tutti gli uomini neri detenuti nelle prigioni e nelle carceri federali, statali, di contea e municipali
- Vogliamo che tutta la gente nera rinviata a giudizio sia giudicata in tribunale da una giuria di loro pari o da gente delle comunità nere, come è previsto dalla costituzione degli Stati Uniti
- Vogliamo terra, pane, abitazioni, istruzione, vestiti, giustizia e pace
CREDITS
Immagine in evidenza: All power to the people
Autore: Steve Rhodes, 20 gennaio 2009
Licenza: Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic
Immagine originale ridimensionata e ritagliata