«Le donne diressero davvero il Partito.
Non so come possa essere divenuto un partito di maschi
o considerato un partito di maschi».
Frankye Malika Adams, membro del BPP
Da “Vogliamo la libertà. Una vita nel Partito delle Pantere Nere” di Mumia Abu-Jamal in Comrade Sisters
La grande educatrice americana e leader dei diritti civili Mary McLeod Bethune (1875-1955), una figura di spicco nel movimento dei club delle donne nere negli anni Venti e Trenta, incitava le donne ad “andare al fronte nel posto che ci spetta di diritto, combattere le nostre battaglie e rivendicare le nostre vittorie”. Le donne tentarono di farlo fin dagli inizi del movimento per la liberazione dei neri e per i diritti civili, con esiti differenti. In questi movimenti, le donne furono in genere relegate a ruoli subordinati e rimasero virtualmente invisibili nelle gerarchie delle organizzazioni, nonostante costituissero la massa degli iscritti e degli attivisti. Ciò indusse la fondatrice dello SNCC (Student Nonviolent Coordinating Committee), Ella Baker (1903- 1986), a dichiarare che “un popolo forte non ha bisogno di leader forti”, rivendicando una direzione collettiva in opposizione allo stile messianico dell’epoca. In sostanza la Baker metteva in discussione le organizzazioni per i diritti civili, modellate a somiglianza della chiesa dei neri, con i credenti in maggioranza donne e il clero in maggioranza composto da uomini, e rivendicava l’inclusione delle donne nella leadership di tali organizzazioni.
Un simile modello non fu ereditato dalle organizzazioni del movimento di liberazione dei neri, come il Revolutionary Action Movement (RAM), la Republic of New Afrika (RNA), il Congress Of Racial Equality (CORE), la Junta Of Militant Organizations (JOMO), gli United Slaves (US), il BPP e una moltitudine di gruppi locali, che non avevano la chiesa come loro base. Detto questo, gran parte del movimento era in realtà profondamente maschilista e considerava la donna in modo assai irrispettoso e marginale. Di qui la celebre frase attribuita a Kwame Turè (Stokely Carmichael), “la sola posizione della donna nel movimento è sdraiata”.
È in quest’ottica maschilista e misogina che gran parte della stampa ha descritto il ruolo delle donne nere nel BPP. Nel suo The Shadow of the Panther, Hugh Pearson, che peraltro non fece mai parte del movimento di liberazione dei neri e quindi non ha conoscenza diretta di quanto scrive, condanna il maltrattamento “abituale e alla luce del sole” delle donne nel BPP. Pearson si basa su tre membri, “quelli che non perdonano Huey per ciò che fece al Partito”, e su “non-neri associati con Newton e il Partito”, che definisce le fonti “più facili” da intervistare. Non sorprende che partendo da fonti così parziali e affette da pregiudizi si arrivi a conclusioni erronee.
Lo storico e studioso Errol A. Henderson critica fortemente Pearson sull’argomento e altri studiosi hanno definito il lavoro di Pearson “di parte” e “giornalismo partigiano”. Il professore di studi neri Reginald Major lo ha definito “un falso storico con il preciso obiettivo politico di screditare, denigrare e demonizzare il potenziale rivoluzionario degli afro-americani”. Kathleen Cleaver mette in discussione il ritratto delle donne nel BPP:
«Chiediti, da dove viene l’immagine che hai del BPP? Hai letto gli articoli che scriveva l’FBI sui giornali? Quante foto hai visto delle donne del Partito? Pensa: quanti fotografi dei giornali erano donne? Quanti articolisti erano donne? Quanti cronisti televisivi erano donne? Quanti produttori, editori, erano donne? Chi decideva quali informazioni dovessero girare e – una volta deciso – chi pensi che presentassero?… Non sarà che le immagini e le storie del BPP che hai visto e sentito erano tutt’altro che la realtà?»
Sebbene possa essere lecito criticare in generale il movimento di liberazione dei neri, è anche necessario riconoscere ciò che è vero. Ed è innegabile che il BPP, per ragioni ideologiche e per motivi di pura sopravvivenza, dette alle donne al suo interno molto più potere e molte più opportunità di qualunque organizzazione dell’epoca, bianca o nera che fosse.
Il che è confermato anche da un paragone con la società dell’epoca. Eldridge Cleaver scrisse: “Dobbiamo riconoscere le donne come eguali… i principi rivoluzionari ci impongono di intraprendere azioni disciplinari a tutti i livelli contro chi manifesti comportamenti maschilisti e sciovinisti”. E ancora:
«So che in tutte le organizzazioni a Babylon è sempre stato un problema strutturare la nostra lotta in modo che le nostre sorelle, le nostre donne, siano liberate e rese eguali nella lotta… So che il ministro della Difesa, Huey P. Newton ha più volte dichiarato che lo sciovinismo maschile abbonda ovunque a Babylon e anche nelle nostre file».
Il punto 7 dei Points of Attention delle regole del Partito recita: “Non prendetevi libertà con le donne”, dimostrando che una condotta sessuale scorretta sarebbe stata punita nel Partito. Kathleen Cleaver scrive: “Nel 1970 il BPP prese formalmente posizione per la liberazione delle donne. Lo ha mai fatto il congresso degli USA o la polizia di Oakland si è mai schierata contro la discriminazione di genere?”.
Chi scrive non ricorda gruppi radicali dell’epoca, specie quelli con membri in maggioranza maschi, che promuovessero donne nella leadership nella stessa misura del BPP. In esso le donne diressero sezioni locali, regionali e a volte l’intera organizzazione.
Afeni Shakur (nota a milioni di giovani come la madre del defunto rapper Tupac Shakur) fu assegnata a una posizione di responsabilità nella sezione di Harlem, ma era convinta di non essere all’altezza, pensava di non essere abbastanza “brillante” e di non avere le “capacità di leadership” per essere a capo della sezione. Dal punto di vista psicologico colpisce come spesso la gente percepisca se stessa diversamente da come viene percepita da altri, ma, a meno che Shakur non mostrasse una falsa modestia, il suo caso è un esempio stupefacente di questa differenza. Molti membri attivi che lavorarono con lei furono colpiti dalla sua intelligenza e dalla sua dignità nel lavoro quotidiano. Safiya A. Bukhari, che ebbe vari incarichi di direzione nel Partito e più tardi comandò un’unità della Black Liberation Army (BLA), incontrò e lavorò insieme a moltissimi compagni da tutte le parti del Paese, più o meno conosciuti. Erano tutte persone notevoli, ma Afeni Shakur la colpì profondamente. La descrisse come “una donna snella, scura di pelle, con una cortissima pettinatura afro”:
«Afeni Shakur spiccava alta e distinta tra questa gente. Esprimeva una forza e una sicurezza interiore che mi fecero pensare: ecco una donna nera degna di rispetto. Non ricordavo una donna simile dal tempo della mia nonna materna… Afeni Shakur era nel caos l’esempio di forza e dignità di cui avevo bisogno».
Afeni, percependosi attraverso i giudizi che davano di lei gli insegnanti così come altri esponenti della struttura di potere bianca, aveva una bassa autostima di sé, ma coloro che le vivevano vicino vedevano un’altra Afeni. In effetti, Bukhari nota che “Afeni non seppe mai che mi faceva quell’effetto”. Io stesso posso testimoniare che Bukhari non era la sola a pensarla così.
Gli altri membri del Partito vedevano in lei qualcosa che lei stessa forse non riconosceva. Nonostante le sue obiezioni, fu promossa quando due leader furono arrestati per vecchie accuse. Più tardi avrebbe raccontato: “ogni volta che dicevo che quello non era il lavoro per me, mi guardavano e dicevano che non c’era nessun altro per farlo. E così lo giustificavano”. Jamal Joseph, che a sedici anni era uno dei membri più giovani di New York, avrebbe più tardi elencato tra i suoi “insegnanti e amiche migliori”, che gli avevano insegnato a opporsi allo sciovinismo e apprezzare la saggezza delle donne, Assata Shakur, Janet Cyril (una delle fondatrici della sezione di Brooklyn) e Afeni Shakur.
Come poté Afeni Shakur, una ragazza arrabbiata, alienata e disperatamente povera del North Carolina interessarsi al BPP? Ascoltò uno che poi descrisse come “un negretto carino”, che poi era Bobby Seale, in un infuocato comizio all’angolo tra la Centoventicinquesima e la Settima Avenue a proposito di qualcosa chiamato Black Panther. Cercò l’indirizzo della sezione di Harlem, frequentò un corso di educazione politica e aderì al Partito. Fu molto importante il modo in cui la trattarono:
«Quando incontrai Sekou (Odinga) e Lumumba (Shakur) fu la prima volta che trovai uomini che non maltrattassero le donne. Semplicemente. Niente a che vedere con la politica. Solo che in tutta la vita non avevo mai incontrato uomini che non maltrattavano le donne, che amavano le donne perché erano donne e perché erano persone».
Questa è un’osservazione rivelatrice, perché se Pearson avesse ragione ad affermare che il BPP “di solito” maltrattava le donne, una giovane bella e ingenua che entrava nel Partito partendo dalla base avrebbe avuto un’impressione assai più negativa.
Afeni più tardi fece parte delle famose Panther 21 che lo Stato tentò di incarcerare con un processo farsa. Le Panther 21 furono arrestate il 2 aprile 1969 con una pletora di capi di accusa: detenzione di armi, tentati attentati con bombe, cospirazione e altri. Tre non furono mai prese, due furono prosciolte per l’età e due erano già in galera nel New Jersey. Due anni dopo, i tredici imputati rimasti furono prosciolti da tutti e 156 i capi d’accusa, ma nel frattempo al Partito mancarono molti dei suoi migliori leader e organizzatori.
A Brooklyn, un altro membro del BPP, Frankye Malika Adams, mise in discussione l’idea che si trattasse di una questione tra maschi:
«Le donne diressero davvero il Partito. Non so come possa essere divenuto un partito di maschi o considerato un partito di maschi. Perché queste cose, se le vedi come le vede la società, sono cose da donne, tipo dar da mangiare ai bambini, curare i malati e così via. Noi lo facevamo, eravamo noi che portavamo avanti i programmi del BPP».
La prospettiva di Adams rivela la vera vita quotidiana delle Pantere, dar da mangiare a migliaia di bambini in tutta la nazione, dare cure mediche ai poveri del ghetto, distribuire scarpe e vestiti gratis, cose così. Il conflitto armato, nonostante la preminenza che ebbe sui media, in realtà accadeva di rado.
E in effetti, se si dovesse scrivere un resoconto più obiettivo sulla sezione di Oakland, smentirebbe significativamente le affermazioni di Pearson sugli abusi sessuali “di routine”. Prendiamo l’esperienza della prima donna che aderì al Partito, Tarika Lewis, nata a Oakland, che fu a lungo la sola femmina a vivere, lavorare e lottare in un ambiente totalmente maschile.
In quanto donna, Tarika non fu affatto coccolata e fu soggetta a tutte le regole dei suoi compagni maschi. Oltre a frequentare i corsi di istruzione politica, fu addestrata all’uso, alla pulizia, al montaggio e allo smontaggio delle armi da fuoco.
Dopo un anno, fu assegnata per i suoi meriti all’insegnamento nei corsi di istruzione politica, il che la portò a confrontarsi con resistenze e atteggiamenti maschilisti che gestì con stile. “Quando i ragazzi mi dicevano ‘Non farò quello che dici tu, che sei una sorella’, li portavo al poligono di tiro e sparavo meglio di loro”. E così una Pantera del genere, donna o no, si guadagnò il rispetto dei compagni per le sue innegabili capacità e il suo operato.
Nei documenti pubblici troviamo molti altri esempi disponibili e la loro omissione dal libro di Pearson denota una grave ignoranza o una consapevole negazione del ruolo positivo che le donne ebbero nel Partito. Oltretutto, a detta del presidente, Bobby Seale, le donne costituivano più del 60% degli iscritti.
Non vogliamo con ciò dire in alcun modo che il sessismo non fosse un serio problema nel Partito, che non influiva sul suo sviluppo, sulla sua crescita o sulla sua maturazione. È chiaro però che non nasceva dal nulla. Essendo un tratto preminente dell’ordine sociale dominante, come poteva non esistere in una formazione che da tale ordine nasceva, tra i ranghi dei suoi strati subalterni?
Per uomini che spesso per la prima volta nella vita esercitavano un potere straordinario su altri il maschilismo divenne uno strumento di dominazione sessuale sui subordinati, come racconta Regina Jennings, una giovane Pantera:
«Volevo solo essere un soldato. Non volevo legami romantici con nessuno dei compagni e, anche se davo tutta la mia vita al Partito – il mio tempo, le mie energie, i miei vestiti e il mio lavoro, il mio capitano voleva di più, voleva me… Non avevo la maturità per affrontare uomini autoritari e cercai dei modi per evitare il suo sessismo. Non volevo lasciare il Partito, che mi pareva il posto migliore per una nera rivoluzionaria in America… Dopo un anno di crescita tra il mio popolo, nel quale avevo goduto dei diritti e dei privilegi di una militante a Oakland, scoprii che il mio capitano cercava di buttarmi fuori… C’erano donne che venivano al Partito e se andavano immediatamente per il comportamento volgare dei maschi. Altre, come me, che cercavano di resistere perché capivano la forza, il significato e la necessità della nostra organizzazione. I maschi neri, che non avevano mai avuto alcuna forma di potere, non avevano gli strumenti per capire e cambiare atteggiamento nei confronti dei quadri di genere femminile. Forse, se il Partito avesse avuto osservatori esterni – anziani e persone rispettate nella comunità – quei comportamenti non sarebbero stati possibili».
L’esempio di Jennings è ancora più tragico se si esaminano le modalità della sua adesione. Immaginate l’idealismo e la determinazione di una sedicenne che prende un aereo da Philadelphia dove è nata e si presenta alla sede del BPP di Oakland chiedendo di aderire. Alla richiesta sul perché volesse iscriversi, rispose con brio giovanile: “Voglio ammazzare tutti i bianchi, ecco perché”.
I compagni più maturi intravidero il gioiello nascosto in quella bambina drogata. L’ufficiale di giornata prese le generalità di Jennings, le consigliò di tornare (sobria) dopo qualche giorno e ne accettò l’iscrizione. Quando tornò a drogarsi, la curarono e il vuoto lasciato dalla droga fu riempito da “un nobile e puro amore per il mio popolo”.
Jennings ci ricorda comunque che la norma nel BPP non era quella del suo stupido capitano, poiché “non tutti gli uomini del Partito erano sessisti. In effetti, molti mi appoggiarono contro il capitano e furono ostracizzati dalla leadership”. L’esperienza di Jennings ci insegna che, nonostante certamente nel Partito vi fosse del sessismo che avvelenava i rapporti tra compagni maschi e femmine, si trattava più spesso di una questione di relazioni di potere tra la base e il vertice.
E infatti l’ascesa e la caduta dell’ex capo del Partito Elaine Brown e la storia della sua vita sul “trono” è un racconto avvincente sulle politiche di genere, le dinamiche di potere, la coscienza di razza e la dominazione sessuale, come dimostra il fatto che, essendo l’amante di Huey, fu messa al suo posto con lui in esilio.
Quando arrivò al potere, Brown dimostrò che l’abuso di potere non era una prerogativa unicamente maschile. Non tollerò che si mettesse in discussione il suo ruolo e non si lasciò sfuggire l’opportunità di “disciplinare” un membro della malavita di Los Angeles dimostrandogli chi era il capo:
“Ora ti darò un’opportunità di chiedere scusa e di riconoscere la leadership del Partito”.
“Vuoi dire, chiederti scusa per averti preso a calci in culo”, la interruppe. “Mi hai stufato, Larry”, dissi alzandomi e spingendo indietro la sedia.
Big Bob lo prese, lo sollevò dal divano, lo sbatté contro il muro… Quattro uomini gli saltarono addosso e Larry lottò per sopravvivere sotto tutti quei piedi… Fu punito senza pietà… C’era sangue dappertutto e Larry era letteralmente sfigurato.
Era questo un tipo di “sessismo alla rovescia”?
Difficilmente, poiché il sessismo è il sistematico, non incidentale, disprezzo per una persona a causa del suo sesso. Non c’è dubbio che si trattasse invece di un abuso di potere e di grado per scopi personali.
Il racconto di Brown rivela anche la doppia natura del sessismo e l’opportunità che dava alle donne di usare la sessualità per guadagnare influenza, accoglienza, gradi e potere. Brown si serviva di questo strumento se necessario. Il sessismo influiva anche su quello che potremmo chiamare il “privilegio della pelle più chiara”, vale a dire la maggiore facilità che avevano le donne con la pelle più chiara di attirare l’attenzione degli uomini della gerarchia del Partito rispetto alle sorelle più scure, spesso dotate di un’etica lavorativa superiore.
L’ex Black Panther Safiya A. Bukhari svolse un ruolo di primo piano non solo nel Partito, ma anche nel suo “successore” militare, la Black Liberation Army (BLA). Pur mettendo in discussione gli uomini che “portavano nell’organizzazione i loro atteggiamenti sessisti”, criticava anche le donne che “usavano la propria femminilità per conseguire grado e status nel Partito”.
Bukhari non era un’adolescente animosa quando entrò nel BPP. Veniva da una famiglia del ceto medio di dieci figli e studiava al college. Il suo gruppo di studio tra universitari scelse di iniziare una ricerca sulla povertà ad Harlem. Safiya era piuttosto scettica, perché non credeva che condizioni del genere esistessero negli Stati Uniti. Cresciuta da genitori “tradizionalisti” e “religiosi” (non li chiama conservatori, ma chiaramente lo erano), il suo primo approccio al progetto fu atipico, soprattutto alla luce della sua successiva esperienza politica:
Personalmente, non pensavo che negli Stati Uniti ci fosse gente “svantaggiata”, ma solo gente troppo pigra per lavorare e “farcela” …
«Alcuni di noi andarono ad Harlem per studiare la situazione. Parlammo con la gente per strada, nei centri di welfare, porta a porta e li vedemmo lavorare, giocare, oziare agli angoli e nei bar. Ne emerse una storia di umiliazione, degrado, deprivazione e spreco che iniziando dall’infanzia si protraeva alla morte e comunque, in troppi casi, segnava l’esistenza sin dalla giovinezza».
Ma anche dopo averli conosciuti, li guardò con una sorta di distacco semi-professionale: “Non era una cosa che mi coinvolgesse, solo un progetto del gruppo di studio… Ero una sorta di turista che si impietosisce per i meno fortunati”.
Poi sentì del programma Free Breakfast for Children del BPP e le parve efficace per affrontare la povertà dilagante e la fame dei bambini. Lei ed alcune compagne del gruppo universitario si offrirono volontarie per lavorare al programma, ma era ancora una collaborazione più vicina a un’azione caritatevole che a un’esplicita condivisione politica.
«Non riuscivo a entrare nella politica del BPP, ma mi offrii volontaria per sfamare qualche bimbo affamato; vedete, i bimbi meritano un buon inizio e per farli vivere e imparare devi dar loro da mangiare. È difficile occuparsi di lettura e aritmetica a stomaco vuoto».
Questo forte conservatorismo, questo atteggiamento profondamente apolitico sarebbero andati bene nei movimenti di donne degli anni precedenti, quando nere benestanti lanciavano programmi di promozione sociale per le loro sorelle più povere e meno istruite, e sarebbe probabilmente stato il limite dell’impegno di questa ragazza universitaria con le Black Panther, se non ci fosse stata l’ingerenza dello Stato, che la sconvolse. Da volontaria nel programma della colazione fu delusa dal calo di partecipazione dei bambini, senza che ci fosse apparentemente una ragione. Ne chiese una spiegazione ai genitori e scoprì che la polizia aveva detto a molti di loro che la gente del programma “dava cibo avvelenato”.
Una cosa è sentire dei mezzucci della polizia – puoi far finta di niente – tutt’altro è sperimentarli sulla tua pelle – menti a te stesso o li affronti. Scelsi di affrontarli e scoprire perché la polizia arrivava a raccontare bugie pur di impedire che i bambini neri fossero sfamati. Tornai al BPP e frequentai alcuni corsi di istruzione politica per la comunità.
Quel rozzo tentativo dello Stato di stroncare un programma vitale per la comunità servì solo ad attrarre Bukhari verso un’ideologia e un’organizzazione che fino ad allora si era sforzata di evitare.
Ma non era ancora una Pantera, era solo una donna nera arrabbiata che si chiedeva perché gli sbirri mentissero per distruggere un’attività così palesemente utile.
Si dice che piccoli incidenti possano avere ripercussioni profonde, come nel caso di Bukhari. La sua natura orgogliosa, indipendente e analitica non le avrebbe permesso di aderire totalmente al BPP, ma intanto aveva iniziato ad ascoltarne il messaggio. Poco dopo la sua sconcertante esperienza col programma della colazione, camminava con un’amica per la Quarantaduesima a Midtown, quando vide una piccola folla ferma intorno due sbirri e una Pantera che vendeva giornali. I poliziotti dicevano al giovane che non poteva vendere giornali all’angolo della strada mentre lui sosteneva di poterlo fare. La sobria e conservatrice studentessa universitaria intervenne informando gli sbirri che il ragazzo aveva il diritto costituzionale di diffondere materiale politico ovunque. Anziché contestare le motivazioni giuridiche delle ragazze, i poliziotti chiesero loro i documenti, e poco dopo le arrestarono insieme al ragazzo che vendeva i giornali.
Andando verso il commissariato, Bukhari pensò che si trattasse di un piccolo malinteso, che sarebbe stato presto chiarito. Quando la sua amica sull’auto della polizia cominciò a parlare di arresto illegale, il poliziotto la minacciò con un manganello, dicendole che gliel’avrebbe “ficcato dentro” se non avesse taciuto e spiegando poi ai prigionieri cosa non gli andava a genio dei neri.
Al quattordicesimo distretto li separarono, li fecero spogliare e li perquisirono. Bukhari ricorda un poliziotto raccomandare alla collega di lavarsi bene le mani dopo la perquisizione, per non prendere malattie. La ragazza era indignata. E decisa.
«Quella sera andai da mia madre, le raccontai dell’arresto e della mia decisione. Mamma e papà erano in cucina, papà a tavola e mamma cucinava. Dissi loro dell’arresto e non dissero nulla. Dissi loro dell’atteggiamento degli sbirri, e non dissero nulla. Poi dissi che non potevo tacere e sopportare. Dovevo battermi per i miei diritti di essere umano. Ricordo che mia madre disse: “… se ti pare giusto, fallo”. Tornai ad Harlem e mi iscrissi al BPP».
E il Partito proprio grazie alle menzogne e alle angherie della polizia guadagnò una giovane intelligente, dura, impegnata e attiva. Alla fine, Bukhari organizzò centinaia, forse migliaia di altre persone e fu nominata a capo di alcune sezioni di Harlem. Fondò una scuola di liberazione e, più tardi, quando il Partito fu dilaniato dalla scissione, avrebbe comandato un’unità armata della Black Liberation Army. Le minacce e la repressione della polizia fecero più che spingerla a entrare nel BPP; portarono alla luce l’impegno e la determinazione di una rivoluzionaria.
Per il lavoro svolto nella BLA clandestina trascorse molti anni in prigione, rischiando una condanna a quarant’anni e la pena di morte. In quanto donna che si unì a un gruppo prevalentemente maschile e che arrivò a dirigere sia il ministero dell’Informazione che la BLA, le sue opinioni sul sessismo sono significative. Bukhari non era certo una paladina dell’organizzazione. In un articolo scritto per rispondere alla scrittrice Alice Walker sul “New York Times” assieme all’ex capo del BPP, Elaine Brown, Bukhari cercò di inquadrare il sessismo nel BPP nel suo contesto storico. Nel suo articolo “Sulla questione del sessismo all’interno del BPP”, Bukhari dà conto di una storia della comunità nera fatta di relazioni familiari gravemente danneggiate e intenzionalmente sabotate. Durante la schiavitù, a causa della violenza usata, uomini e donne neri furono costretti a costruire rapporti che potevano essere troncati senza difficoltà, sui quali non avevano alcun controllo. Gli uomini erano ben considerati se mettevano incinta le donne, perché in tal modo incrementavano la mandria di schiavi, e, analogamente, le donne erano valutate positivamente se facevano figli, perché aumentavano la ricchezza dei bianchi. Queste pratiche socialmente e psicologicamente perverse che ebbero luogo nell’America del Nord per più di duecento anni sopravvissero nella psicologia dei neri per molto tempo dopo la cessazione legale della schiavitù formale, e perfino nel secolo dell’apartheid legale che seguì. Sopravvive fino a oggi nella coscienza dei neri:
«L’errore che fanno tutti, sostenitori e denigratori del BPP, è di separare il Partito dal suo tempo e dalle sue radici e considerarlo in astratto. Chiaramente, il BPP nacque dalla comunità nera e dalle sue esperienze. I compagni furono reclutati nei ghetti delle città. Lo stesso Partito fu fondato da due neri… che venivano dritti dal ghetto e si incontrarono nel campus del Merritt College…
Il che ci riporta al 1966 e alla fondazione del BPP. Nel Paese, in termini di qualità della vita delle comunità nere e di razzismo, non era cambiato nulla. Eravamo sempre schiavi, solo senza catene ai piedi. Non avevamo ancora una cultura. La coscienza delle nostre origini africane e il nostro senso di identità erano morti, sostituiti dalla civiltà occidentale. Ci affannavamo a cercare di essere come gli altri in America. Avevamo accettato l’America sessista, solo con una sfumatura nera. E in tutto ciò, il BPP dichiarò che eravamo rivoluzionari e che un rivoluzionario non ha genere».
Bukhari non sostiene che le donne nere non fossero mai trattate male, nella comunità o nel Partito. Alla luce dei processi storici che portarono alla fondazione del BPP, ciò era scontato. Dato che il Partito si concentrava volutamente sui sottoproletari delle comunità, è chiaro che chi veniva reclutato era poco ferrato sugli argomenti di genere. Tuttavia, sostiene, i media non riconoscono al BPP il merito di aver aperto strade nuove:
«Il semplice fatto che il BPP avesse il coraggio di affrontare la questione fu un enorme passo avanti. All’epoca, le altre organizzazioni nazionaliste concepivano la donna scalza, incinta e in cucina; nel BPP le donne lavoravano a fianco degli uomini, dirigevano sezioni come gli uomini e ricevevano lo stesso addestramento degli uomini. E poi, gli incarichi nel BPP erano assegnati per merito, e non per genere».
Il ricordo di Bukhari del lavoro di altre donne è un albo d’onore e orgoglio, non scevro da critiche:
«Nei suoi brevi sette anni di storia (1966-1973) il BPP ha coinvolto donne a tutti i livelli. Donne come Audrea Jones, che fondò la sezione di Boston, come Brenda Hyson, ufficiale di giornata della sezione di Brooklyn, come Peaches, che lottò fianco a fianco con Geronimo Pratt nella sede della South California, o Kathleen Cleaver, del comitato centrale, e sorella Rivera, che si impegnò nella sezione di Mt. Vernon, New York. Allo stesso tempo, vi furono anche problemi con uomini che portarono i loro atteggiamenti sessisti nell’organizzazione. Molti rifiutavano di prendere ordini dalle donne. Anche se avevamo delle procedure per individuare tali atteggiamenti, spesso non venivano intraprese, per pressappochismo, codardia o paura.
L’altra faccia della medaglia erano donne che aggiravano i principi del nostro lavoro usando la propria femminilità per fare carriera. Questo comportamento senza etica nel Partito (o nelle strade) danneggiava il lavoro delle altre sorelle che lottavano per affermare i propri principi. Dovevamo quindi lottare contro tre nemici: lo sciovinismo maschile, la passività femminile e l’ultra-femminilità (la sindrome di “sono solo una femmina”)».
Da ultimo, Bukhari criticò quelli che da posizioni di sicurezza temporanea e relativa biasimavano che il Partito, impegnato in una crudele lotta per la sopravvivenza, non fosse sempre all’altezza dei suoi ideali dichiarati:
«È facile denigrare il sessismo della leadership del BPP da lontano, senza averne condiviso le lotte… Il Partito, oltre a educare politicamente la sua base, ha anche sfamato bambini affamati, fondato scuole di liberazione, organizzato inquilini, ragazze madri, istituito ambulatori sanitari gratuiti. Allo stesso tempo, il BPP era sotto attacco da parte dei governi locali, statali e federali. Le sue sedi in tutto il Paese, dalla California alla Louisiana, dal Texas al Michigan, erano colpite fisicamente e le Pantere venivano uccise e imprigionate. Non teorizzavamo la lotta, la facevamo costantemente a tutti i livelli».
Almeno un altro studioso della storia del Partito arrivò alle stesse conclusioni per quanto attiene alle donne. Nikhil Pal Singh descrisse l’appello del Partito nel 1970 in appoggio alla liberazione delle donne e dei gay come “uno stupefacente salto in avanti, dato il periodo”.
Alcune donne avevano vite relativamente privilegiate nel Partito, perché loro stesse o i loro compagni avevano incarichi di direzione. Il privilegio spesso era dato da opportunità come viaggi o migliori condizioni di vita quotidiana.
Ad esempio Barbara Easley Cox, moglie dello stimato capo militare di New York, aveva privilegi considerevoli rispetto alla sorella media nell’organizzazione, come ha ammesso in una recente dichiarazione. Fu anche d’aiuto il fatto che provenisse dal nucleo originario californiano del BPP. Da Philadelphia, Cox visse e lavorò a San Francisco, Oakland, New York e per qualche tempo ad Algeri, Pyongyang nella Corea del Nord, Francoforte e Parigi. Negli ultimi anni ha vissuto ad Amsterdam. Descrive i suoi anni dopo il Partito come la continuazione di un percorso. Scrive: “Ricevetti un mucchio di rispetto, che non sono sicura di aver sempre meritato. Me lo sono comunque guadagnato nei 35 anni successivi e non permetterò a nessuno di denigrare il nostro, il mio valore nella storia”. Non riposa sugli allori delle sue esperienze storiche: “Siamo ancora qui, neri e forti… Se posso aiutare qualche giovane ad andare avanti, a mantenere la fede, dargli forza o chiarirgli le idee, lo farò sempre e ovunque”.
Cox poté vedere il mondo e vivere, forse, in modo più confortevole delle sue sorelle Pantere. Ma occorre dire che le donne avevano anche un posto privilegiato nella repressione dello Stato, come dimostrano i casi di Afeni Shakur e Ericka Huggins. Lo Stato si impegnò a fondo per mandarle in galera a vita. Eldridge a proposito di Ericka scrisse: “Non la misero in una cella di lusso, non le resero la vita più facile. Ma i porci riconobbero che una rivoluzionaria donna era altrettanto pericolosa di un rivoluzionario uomo”.
Ma la maggioranza delle Pantere donne non avevano questi privilegi e le loro scelte rispecchiavano la situazione, come testimonia l’esperienza di Naima Major, che lasciò la sua casa a diciassette anni, lei dice “scappai”, non appena ebbe finito le scuole superiori nel 1968. Nelle sue parole:
«Scappai a S. Francisco/Oakland cercando la sede del BPP e finii nell’ufficio di Eldridge Cleaver. Avevo 17 anni, non conoscevo nessuno laggiù a parte la mia compagna di stanza, cacciata dallo Spelman College, anche lei in fuga dalla mediocrità piccolo borghese.
«Andai a una manifestazione per liberare Huey al palazzo federale di SF e incontrai molte Pantere coraggiose. Poi andai in missione con Kathleen Cleaver a Hunter’s Point perché il mio compagno era una delle sue guardie del corpo. L’affetto e l’energia della gente nera mi conquistarono anima e corpo.
Sposai il bel rivoluzionario arrabbiato perché si presentò da me con un neonato chiamato BJ, Baby Jesus, di cui non si era sicuri chi fosse il padre. La madre, dell’immacolata concezione, era in galera alla Corona State Prison for Women e il mio compagno, che era stato uno dei suoi amanti, cercava di aver cura del bimbo. Devo dire di più? Non è amore questo? Dedicai i cinque-sei anni successivi della mia vita al bimbo e al Partito e alle visite alla prigione di Soledad dove il mio amato scontava da sei mesi una condanna a vita. Aveva 19 anni. Immaginate. Io ero incinta. Il mio compagno fu rilasciato dopo 22 mesi a seguito di un’azione civile di massa iniziata da Huey P. Newton dalla galera e dal senatore Mervyn Dymally per far rilasciare decine di Pantere detenute in California a causa di condanne ingiuste o eccessive per reati minori o commessi per la prima volta. Perdemmo BJ nel 1969, appena prima della sentenza contro il mio compagno. Non l’ho più visto. Vedemmo la madre dopo il suo rilascio, aveva 16 anni quando entrò, 21 quando uscì. La potete vedere assieme a BJ nella collezione di foto di Pirkle Jones… la madre di BJ morì pochi anni dopo, misteriosamente, dicono, a Los Angeles. BJ è cresciuto da qualche parte a San Francisco; non ci conosce. Prego che non ci odi. »
A onta di queste terribili difficoltà, Major tenne duro, come migliaia di altre donne. Fece attività politica e studiò gli altri rivoluzionari come tutte le Pantere. Continuò con volontà e grinta:
«intercalare del tempo era: “E questo a che serve per liberare il popolo?”. Ero dogmatica e insofferente, ma potevo ballare per ore!
Devota alla rivoluzione nera e al programma in dieci punti, cominciai a fare il duro lavoro nella comunità richiesto a tutte le Pantere col bimbo in braccio, organizzai donne povere come me, progettai e mandai avanti scuole libere, scrissi lettere per gli analfabeti, mi battei per la casa, diffusi il giornale. Feci lavori pericolosi e studiai Hegel, Marx, Lenin, Fanon, Mao come uno zelota religioso, assieme ai fratelli. Litigai con loro a proposito di Bakunin e Stalin. Con il marito in galera e il bimbo al seno nessuno mi molestò, ma nessuno mi fece sconti. Dovevo imparare ciò che imparavano i fratelli. E imparai bene. Lottai bene. Seppi allora, e so ancora scegliere le mie battaglie. So di aver salvato alcune vite. Una, la mia. Volevo vivere per la rivoluzione, non morire per lei. La gente erano persone, non teorie.
Il mio amore tornò in tempo per l’inferno. La cosiddetta scissione sfasciò le comunità di Fillmore e West Oakland e quasi distrusse la mia famiglia, che all’epoca comprendeva un bimbo piccolo e un neonato. Non importa. Andammo avanti contro le difficoltà e contro il senso comune, sostenemmo la sezione internazionale in Algeria e ovunque con soldi e provviste. Qualcuno ricorda l’ordine di sparare per uccidere contro tutte le Pantere e gli avventuristi di sinistra di San Francisco? Io lo ricordo. Tempi terribili.
Poveri come eravamo, vivendo sotto assedio, mandammo abiti da bambino e soldi all’estero! Scrivemmo propaganda, un sacco di cose… A New York dovetti nascondermi e le Pantere della costa orientale e i musulmani si presero cura di me e della mia famiglia – non uscivamo quasi mai, ma non saltammo mai un pasto. Tornata in California mi unii alla Nation of Islam, perché nessun altro poté, o volle, offrirci un rifugio. Come donna musulmana dovetti uscire dalla NOI per il suo fondamentalismo, che riconobbi già allora, e per la sua avidità, lo sfruttamento economico e la stupidità, oltre che per le attività del COINTELPRO».
Major sperimentò molte cose, ma non una vita privilegiata. Tornò a scuola, allevò i suoi figli e mantenne una vita interiore con la poesia, la letteratura e il cinema. Si descrive come “madre orgogliosa di tre neri liberi” e ha quattro nipoti. È membro fondatore della fondazione Keep Ya’Head Up, un collettivo di sostegno alle donne dell’ex BPP, e lavora nel settore non profit.
Nonostante i dolori, i tradimenti, le sconfitte politiche, continua a essere fedele all’ideale rivoluzionario, sostenendo semplicemente “voglio essere come il Che”. Anche se il suo nome può non dire molto ai lettori della letteratura popolare sul BPP, la sua storia è davvero vicina alla normale vita di una donna nel Partito. Duro lavoro. Duro studio. Compagni in galera. Sopravvivenza. Lotta. Tempi promettenti. Tempi di terrore. Resistenza allo sciovinismo maschile.
E speranza.
È indicativo che Major, a decenni dalla sua militanza nel BPP, sia ancora attiva politicamente e lavori in un collettivo per assistere le sue simili.
Rosemari Mealy non aveva intenzione di aderire al BPP. Alla fine degli anni Sessanta viveva in una comunità in maggioranza quacchera a West Philadelphia occupandosi di pacifismo, resistenza alla leva e giustizia economica per i neri. Aveva lavorato come attivista nel movimento per i diritti civili, come attrice nel Black Arts Movement ed era una delle poche donne del Black Economic Development Conference (BEDC), un gruppo diretto dall’attivista Muhammad Kenyatta che chiedeva soldi alle ricche chiese bianche per le comunità nere. Pur avendo studiato autori marxisti, aveva un figlio piccolo e la vita pericolosa di una Pantera non la attraeva. In effetti, aderire al BPP era “l’ultimo dei suoi pensieri”.
Poi, nel dicembre 1969, squillò il telefono. Il giovane Fred Hampton, a Chicago, era stato ucciso nel suo letto da poliziotti statali e federali.
Il capitano Reggie le aveva spesso telefonato per farsi aiutare a stampare volantini e per questo lei aveva litigato con i membri della comune, perché alcuni quaccheri radicali pensavano che la difesa armata del BPP contrastasse con la loro dichiarata non-violenza.
Stavolta Reggie non chiamò per i volantini, ma per sapere se qualche membro della comune andasse a Chicago e se alcune Pantere potessero andare con loro per rappresentare la sezione in onore di Fred.
Molti quaccheri trovarono da ridire, ma molti vennero a Chicago. Rosemari partì membro di una comune prevalentemente bianca e tornò membro del BPP.
Per i compagni del BPP la visita alla città del vento fu traumatica, ma rafforzò la nostra determinazione, poiché sapevamo che chiunque di noi avrebbe potuto essere ucciso come Fred.
Per Rosemari:
«L’assassinio di Fred Hampton spinse il mio attivismo politico allo stadio successivo… in retrospettiva, quell’esperienza ebbe un impatto profondissimo nella mia vita. Nel Partito usai tutte le mie conoscenze… per costruire reti di supporto in un comparto della società di Philadelphia che spesso aveva condannato le azioni e le tattiche del Partito. Dato che la mia vita era segnata dalle esperienze collettive dei precedenti movimenti, in qualche modo mi inserii naturalmente tra persone con una diversa età, classe sociale ed esperienze. Diffusi giornali, organizzai la lotta contro gli omicidi della polizia e scrissi articoli per il giornale su ciò che accadeva a Philadelphia».
Il Partito trovò in lei un’esperta organizzatrice e poco dopo la trasferì a New Haven per dare una mano al caso contro Bobby Seale ed Ericka Huggins. Fu scelta per parlare dei problemi della sezione di New Haven al ministro dell’Informazione Huey P. Newton, l’unico che potesse risolverli.
Ma lo Huey che incontrò non era lo Huey che si aspettava e quando illustrò le criticità della sezione fu estromessa dal Partito. Il numero successivo del “Black Panther” annunciò la sua espulsione e la condannò come “nemico del popolo”, assieme alle Panther 21 e alla sezione internazionale di Algeri.
Lasciò la città e si nascose per sopravvivere. Sopravvisse per vedere suo figlio diventare un uomo. Si sposò, scrisse molti libri, si laureò in legge e ora fa la giornalista in una radio.
Il Partito può non esistere più, ma molto del suo spirito, il senso della resistenza collettiva, del servizio alla comunità, della perseveranza, continua nelle vite di gente come Major, Jennings, Mealy e altre che aspirarono a cambiare la realtà nella quale loro e il loro popolo erano natie.
Erano, senza dubbio, il meglio del BPP.
Quando leggo o sento criticare il BPP per il sessismo riesco a stento a nascondere un ghigno, perché per quanto ricordo le donne del Partito erano capaci, determinate e forti rivoluzionarie che lottavano come leonesse per sé e per i propri fratelli.
Le donne del Partito nel quale ho militato per anni nella mia giovinezza non erano timide violette. Avevano origini e colori di pelle assai diversi, come capita nell’America nera.
Erano donne dure.
Vivevamo in appartamenti “da Pantere”, spartani, praticamente non arredati, dove crollavamo su materassi alla fine di una giornata di duro lavoro.
A Philadelphia, nel Bronx o a Berkeley, California, ovunque ero sottoposto all’autorità di una Pantera femmina che gestiva le cose con efficienza e senza complimenti.
Sebbene nessuna donna fosse tra i fondatori della sezione di Philadelphia, la direzione nazionale mandò una donna col grado di vice feldmaresciallo, che implicava un immenso potere in città.
Il suo nome era Sorella Love, aveva le sue radici nel profondo Sud e parlava con l’accento dei neri californiani. Controllò ogni minimo particolare della sezione e ordinò spesso di correggere difetti o infrazioni alla sicurezza. Come donna e straniera, evocava emozioni contraddittorie tra noi. Da un lato c’era il risentimento per la sua presenza e il suo potere; dall’altro un profondo rispetto, poiché pensavamo che se era stata mandata dalla “costa”, da amici e compagni del nostro amato ministro della Difesa, Huey P. Newton, doveva essere una persona straordinaria.
Nel Bronx, Sorella Bernice gestiva l’ufficio del ministero dell’Informazione della costa orientale con la tenerezza di un sergente istruttore. Lavorando a un progetto poteva un momento sussurrarti un incoraggiamento all’orecchio, ma un momento dopo poteva abbaiare: “a terra e dammene venti!” e, con la faccia impassibile dietro gli occhiali come una maschera di ossidiana, contare le flessioni: “1, 2,… 17, 17 e mezzo – fanne una bene, negro – 18, 19 e 20”. L’ufficio era un alveare di produttività e lei, Sorella Bernice, era la regina indiscussa.
Nella direzione nazionale in California, una falange di donne gestiva gli uffici del Partito, rispondeva al telefono, pagava i conti e in generale gestiva le attività di una grande organizzazione nazionale. Al mio arrivo fui colpito dalla normalità degli uffici del famoso BPP, che potevano essere quelli della camera di commercio. Un ufficio popolato da giovani donne competenti, efficienti e attraenti. Con forse una sola differenza: alcune di loro portavano una pistola.
Un’altra differenza era che quasi tutte le donne erano di pelle chiara, mentre gli uomini andavano dal bruno scuro al nerissimo, come Mojo.
Al secondo piano c’erano gli uffici e il macchinario del settimanale del Partito, “The Black Panther”. Io fui assegnato ad assistere l’editrice, Judi Douglas, come tuttofare del giornale. Il mio capo era una donna gentile, con un dolce accento del Sud, che aiutava pazientemente la giovane Pantera di Philadelphia a scrivere pezzi degni del giornale, con altruismo e dedizione.
Su entrambe le coste si trovavano donne fiduciose, capaci e orgogliose che ispiravano rispetto, comunanza, grande lealtà e affetto fraterno.
Sapevamo per esperienza che in mano al nemico avrebbero ricevuto lo stesso crudele trattamento riservato a noi e le rispettavamo ancora di più per il loro coraggio e spirito di sacrificio. Sapevamo a memoria i nomi delle nostre sorelle prigioniere politiche dei porci e quei nomi erano un mantra di resistenza: Ericka Huggins, Angela Davis, Afeni Shakur, Joan Bird…
Quanto al sesso, le donne sceglievano i loro compagni, potevano dire di no e lo facevano spesso.
Una sera, Sheila venne nella mia stanza e mi chiese senza complimenti: “Vuoi farlo?”. Guardai quella ragazza, il dolce alone della pettinatura afro color rame attorno al suo bel volto, la giada verde dei suoi occhi, sulla porta in mutande, e quasi balbettai. Ma oltre al desiderio provai un forte senso di colpa, poiché quel giorno il vice capo di stato maggiore, June Hilliard, aveva rimproverato un fratello che era andato a puttane:
“Mojo, dovresti sapere che avere rapporti con una donna fuori del Partito è una violazione della sicurezza!”
“Ma, June, lo so, fratello – ma ma…”
“Ma cosa, Mojo?”
“Nessuna me la dà mai”, ammise timidamente.
“Mojo, o lavori col cervello o lavori con le mani, fratello. Che ti devo dire?
Ma non puoi andare con le sorelle nel bordello – è una violazione della sicurezza, fratello.”
“Signorsì, June. D’accordo.”
Mojo fece un risolino e se ne andò, tristissimo.
Pensai a lui quando Sheila mi invitò nel suo giardino di delizie celestiali e mi scappò una specie di grugnito.
“Allora, vuoi farlo con me?”
“Oh, sì, ma quella storia di Mojo…”
“Che c’entra Mojo?”
“Be’, il fratello è dovuto andare al casino, perché nessuna delle sorelle gliela dava… ed è una cazzata!”
“E sarebbe un problema mio?”
“No, ma”
“Ma un cazzo! La fica è mia! La do o non la do quando voglio, chiaro?”
“Chiaro, sorella.”
“Allora, vuoi la fica o no? Dimmelo!”
La volevo. La volevo così tanto da farmi male. Ma mi sarebbe parso di tradire il fratello Mojo e io ero prima di tutto una Pantera. Un vero rivoluzionario doveva scegliere la lealtà, non il desiderio. “No”, risposi.
“Allora vaffanculo”, ringhiò, fulminando con i suoi occhi verdi l’idiota che rifiutava la sua offerta sublime. Girò su sé stessa e un favoloso culo ondeggiò fuori dalla mia stanza nell’oscurità della storia.
“Sono un rivoluzionario!”
“Voglio per i miei fratelli ciò che voglio per me!”
“Sono una Black Panther!”
Mi ripetei questi slogan a lungo. Ma sotto di essi traspariva un altro messaggio: “Mumia l’hai mandata via? Sei proprio un coglione!”
Mi avvolsi nel sacco a pelo sul duro pavimento, nel freddo della notte californiana, e mi addormentai sognando Sheila.
Essere una Pantera significava qualcosa di straordinario nel 1970 e ci si sentiva immensamente onorati di lavorare assieme e amare queste donne dure e impegnate. Erano, come più tardi ricorderà Elaine Brown, donne “dure”, che venivano viste come “soldati, come compagne, non come graziosi oggettini”. Per dirla con Eldridge, erano la nostra “altra metà”, che combatteva “con la stessa nostra forza ed entusiasmo nella lotta”.
Dato che la liberazione della donna è una delle più importanti sfide del mondo odierno… la rivendicazione della liberazione della donna a Babylon esploderà e se non vi prestiamo attenzione distruggerà le nostre file, la nostra organizzazione, perché le donne, come ogni altro popolo oppresso, vogliono la liberazione.
Nelle file del BPP, le donne erano ben più che mere appendici dell’ego e del potere maschile, erano compagne stimate e rispettate che dimostravano quotidianamente la verità dello slogan “un rivoluzionario non ha genere”.
CREDITS
Immagine in evidenza: Mumia, giovane giornalista del Dipartimento Comunicazione delle Black Panthers di Philadelphia
Autore:Prison Radio, 1984
Licenza: Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic
Immagine originale ridimensionata e ritagliata