Maurizio Donato in Contropiano Anno 1 n° 4 – 11 novembre 1993
Gli economisti borghesi e la Confindustria cominciano a fare seriamente i conti con la crisi capitalistica. Ottenuto tutto il possibile sul costo del lavoro e la flessibilità, con un costo del denaro non più proibitivo, con un governo che ha impugnato la crociata contro il debito pubblico, i padroni non hanno più alibi per scaricare su altri le ragioni della crisi.
Secondo la Relazione previsionale e programmatica per il 1994 presentata il 30/9/1993 dai ministri Spaventa e Barucci, “in presenza di aumenti di produttività dell’ordine dell’1,7%, il costo del lavoro per unità di prodotto nell’industria in senso stretto si dimezza da 3,7% nel 1992 a 1,9% nel 1993, consentendo un recupero dei margini delle imprese erosi nel decennio precedente.” Proprio per discutere dei margini (di profitto) delle imprese italiane, il 24 e 25/9 alcuni economisti e industriali si sono dati appuntamento a Roma e a Capri in due diversi convegni in cui è stata analizzata, a partire dall’ottica imprenditoriale, la crisi industriale in corso. Può essere utile ripercorrere brevemente il senso di alcune analisi presentate, per confrontare il punto di vista sulla crisi dei padroni con alcune ipotesi alternative.
L’elemento comune alle analisi di matrice confindustriale (ma non solo) è l’individuazione dell’alto costo del denaro come determinante principale, se non esclusiva, del peggioramento degli indicatori di redditività e di profittabilità che le imprese italiane registrano più o meno a partire dal biennio 1988-89. Effettivamente, se si prende in considerazione il periodo compreso tra la fine del 1988 e il settembre della svalutazione del ’92, si può notare come i tassi di interesse a tre mesi abbiano conosciuto una variazione positiva di ben 6 punti percentuali, costringendo le autorità monetarie a ribassare il tasso di sconto ben 8 volte in seguito a questi livelli da usura.
È noto e chiaro che, con tassi di interesse così elevati, diventa sia più costoso prendere a prestito denaro per finanziare investimenti produttivi, sia più basso il cosiddetto ROE, ossia la redditività delle imprese. Quello che resta da spiegare, e da confutare per quanto possibile, è la ragione per cui i tassi di interesse siano cresciuti così tanto e, soprattutto, chi ci ha guadagnato e ci guadagna da una tale situazione. La Confindustria e i suoi economisti non hanno dubbi: è l’elevato debito pubblico che costringe in qualche modo a tenere alti i tassi di interesse; a sua volta, il debito pubblico dipende dalle esagerate spese sociali dello Stato italiano. Privatizziamo tutto il privatizzabile, così il debito pubblico diminuirà e anche i tassi di interesse potranno diminuire.
Ora, anche ammesso che l’altezza dei tassi di interesse dipenda dal debito pubblico e non, per esempio, dalle sciagurate politiche monetariste messe in atto proprio per contrastare, almeno teoricamente, quella tendenza all’aumento della spesa pubblica contro cui si dichiara di schierarsi, resta da chiedersi quanta parte della spesa pubblica è stata effettivamente destinata e poi utilizzata per spese sociali e quanta invece non sia andata a finire, durante gli anni ottanta, proprio sotto forma di sostegno ai programmi di ristrutturazione industriale delle imprese italiane. Da questo punto di vista, al convegno di Roma, dedicato alla “Struttura industriale e politica pubblica negli anni novanta”, è emerso qualche spunto interessante relativo alle ragioni che sarebbero alla base dell’interruzione di una fase relativamente “virtuosa” del ciclo di ristrutturazione industriale databile all’incirca nel biennio 1988-89. Schematicamente, sono stati individuati due motivi, a parte il costo del denaro, in grado di spiegare il peggioramento degli indicatori di redditività delle imprese manifatturiere italiane. Il primo elemento è direttamente collegato al discorso dei tassi di interesse, riguardando la necessità, per le imprese, di avviare un nuovo ciclo di investimenti in grado di produrre merci tali da soddisfare quelle nuove esigenze dei consumatori che si riducono sostanzialmente alla personalizzazione dei beni di consumo da acquistare. La fine del modello della produzione di massa, basata sulle economie di scala garantite dai grossi impianti, ha coinciso con lo sfruttamento di nuove forme di risparmio sui costi, definite tecnicamente economie di varietà, che consistono nella messa a punto di impianti tali da consentire la produzione di una vasta gamma di prodotti, fabbricabili però con lo stesso tipo di macchinario. Raggiunta, da parte delle imprese, la flessibilità necessaria a far funzionare questo nuovo tipo di impianti e macchinari più evoluti, si renderebbe necessario oggi investire in nuovo capitale, ma questa tendenza sarebbe frenata dall’alto costo del denaro da prendere a prestito.
Come si può notare, si tratta di un argomento solo apparentemente diverso da quello invocato alla riunione di Capri, ma che sostanzialmente coincide nello scaricare su altri: la presenza dello Stato, per la Confindustria, il sistema bancario, per gli economisti e industriali riuniti alla LUISS, la mancata ripresa degli investimenti e dunque, in ultima analisi, la crisi.
Terziario: i servizi sotto accusa
Più interessante appare un’altra analisi, ossia il secondo motivo in grado di spiegare la recessione, anch’essa presentata in queste riunioni, e che si fonda sul peso sempre maggiore che all’interno dei costi delle imprese italiane è rappresentato dalle voci relative ai servizi. Negli ultimi anni, ed in modo particolare dalla fine degli anni ottanta, si osserva un aumento dell’uso di servizi alle imprese, che vanno dal marketing all’assistenza alla produzione, dalla distribuzione alla finanza aziendale, e così via. L’ipotesi di alcuni economisti confindustriali è che questi settori del terziario, essendo meno esposti alla concorrenza internazionale di quanto siano invece le imprese, abbiano meno incentivi a comportarsi in maniera economicamente efficiente, sfruttando posizioni di privilegio o vere e proprie rendite di posizione che risulterebbero poi in una pratica di prezzi alti cui non corrisponderebbe una altrettanto elevata produttività. I dati presentati come evidenza empirica sembrerebbero, a prima vista, dare ragione agli industriali, dal momento che, secondo la Banca d’Italia, solo facendo riferimento all’ultimo triennio 1990-92, mentre i costi unitari variabili del settore della trasformazione industriale sono cresciuti del 5,1%, del 6 e poi del 2,8%, quelli dei servizi destinabili alla vendita sono aumentati del 6,8, dell’8,1 e poi del 3,5% per i tre anni considerati. Nello stesso triennio i prezzi dei prodotti degli stessi due settori sono cresciuti del 2,6, del 2,8 e del 2,5 per quanto riguarda l’industria, del 7,5, del 7,6 e del 6,3% per quanto riguarda il terziario. Ecco dunque un terzo imputato in grado di scagionare il mondo delle imprese dalle responsabilità in merito alla crisi: dopo il settore pubblico e le banche, i servizi.
Come i lettori più attenti avranno certamente notato, c’è una grossa novità nell’impianto teorico generale dei ragionamenti confindustriali: i lavoratori, il salario, la produttività, la flessibilità sono praticamente scomparsi – temporaneamente – dalle analisi padronali; hanno avuto indubbiamente abbastanza, su questo fronte, e questa significativa omissione, a parte alcuni “irriducibili” che continuano a chiedere lacrime e sangue, ci evita il compito di ribattere su questo punto, per concentrare invece l’attenzione sugli elementi presenti nell’analisi padronale.
Costo del denaro
Ripercorrendo a ritroso il ragionamento, possiamo iniziare proprio dall’argomento forte: i tassi di interesse. È fin troppo facile ricordare l’elevata quota di indebitamento rispetto al fatturato che ha rappresentato la norma della finanza aziendale nel periodo in cui i tassi di interesse erano bassi e conveniva alle imprese indebitarsi, salvo scoprire adesso che le banche sono diventate di fatto, e tra un po’ anche di diritto per alcuni casi, proprietarie e non solo creditrici delle stesse.
Dal versante del costo del denaro, anche per gli argomenti ricordati in precedenza, nessuna lamentela può dunque essere presa sul serio da parte di chi prima ha ristrutturato prendendo a prestito a poco o facendosi finanziare dalla spesa pubblica, ed ora licenzia e chiude stabilimenti, per riaprire magari dove è più conveniente. Dire questo non significa, ovviamente, dimenticare o sminuire il fatto che i profitti del settore bancario, o più in generale finanziario, stiano crescendo in questa fase del ciclo nei confronti della minore remuneratività relativa del capitale industriale: sappiamo bene che, ciclicamente, il modo capitalistico di produzione si ristruttura profondamente e, nei periodi di recessione, il capitale fittizio appare più forte e più appetibile di quello direttamente impiegato nei processi produttivi. Quello che rileva è perciò il fatto che si tratta di fratelli gemelli, di forme diverse di impiego dello stesso capitale, in ultima analisi di opportunità diverse sfruttate e sfruttabili dalla medesima classe di sfruttatori, e dunque lamentarsi che l’interesse è alto non è davvero argomento cui appassionarsi per la sinistra radicale.
La nuova divisione internazionale del lavoro spinge l’Italia verso la deindustrializzazione
Un punto che ci interessa più da vicino è invece un altro: che cosa ha determinato, nel concreto della ristrutturazione industriale italiana, il passaggio da una fase a un’altra del ciclo di produzione e riproduzione o, detto in altri termini, che ci hanno fatto gli industriali con i soldi pubblici della ristrutturazione, a parte mazzette, lussi e quant’altro? Tralasciando, per ragioni di spazio, un’analisi più approfondita delle dinamiche e delle implicazioni economiche e politiche di questa vera e propria rivoluzione tecnologica che si è compiuta davanti ai nostri occhi in questi anni, la risposta è: ci hanno comprato macchine, macchine nuove, tecnologicamente avanzate, computer, robot industriali, sistemi automatizzati che rispondessero alla necessità di ridurre il tempo di lavoro necessario a produrre e far circolare le merci. Con l’aumento della velocità di produzione/distribuzione delle merci resa possibile dalla combinazione di meccanica e microelettronica è possibile ottenere più merci con sempre meno lavoro, ed è esattamente questo che favorisce il verificarsi di periodiche crisi da sovraproduzione con conseguente disoccupazione. In altre parole, il tipo di ristrutturazione dell’industria italiana avvenuta durante gli anni ’80 è stata trainata da innovazioni di processo, piuttosto che di prodotto, nel senso che, più che cercare di produrre nuove merci con metodi più o meno moderni, hanno organizzato la produzione in modo da produrre le solite cose, o merci solo apparentemente differenziate, ma in modo diverso.
È dunque vero che le imprese italiane si sono ristrutturate secondo la logica dell’automazione flessibile, cercando di venire incontro alle preferenze dei consumatori che cercano merci il più possibile differenziate e, al limite, personalizzate, ma il limite di questo processo è rappresentato dal posto assegnato all’Italia dalla nuova divisione internazionale del lavoro caratteristica del nuovo ordine mondiale del post-89. Di nuovo correndo il rischio della semplificazione, questa nuova ripartizione dei compiti a livello mondiale vede, da un lato, il tentativo di rapinare i paesi del sud del mondo delle risorse fondamentali di questi popoli: le materie prime, le risorse naturali e ambientali e, più in generale, la biodiversità in modo da ridurre il più possibile la “dipendenza” del nord del pianeta dai prodotti di base del sud, sostituiti in modo crescente da prodotti biotecnologici ottenuti con manipolazioni genetiche e tecniche di ricombinazione che lasciano nelle mani delle multinazionali chimiche e farmaceutiche i brevetti su scoperte rese possibili solo dalla ricchezza di specie e varietà dei paesi del sud. Per quanto riguarda il nord, la tendenza generale è quella di far svolgere il più possibile all’estero tutte le fasi di lavorazione a monte dei processi produttivi, lasciate a quei paesi dove il costo del lavoro è basso, per specializzarsi nelle fasi di rifinitura, a volte semplicemente nel marchio, ossia nelle fasi a valle della catena del valore.
Il sentiero di crescita di un paese come l’Italia rientra pienamente in questa tendenza: l’automazione flessibile, la terziarizzazione dell’industria, la finanziarizzazione dell’economia sono tutti elementi di uno stesso processo di progressiva delocalizzazione industriale ed, in ultima analisi, di deindustrializzazione. L’ammodernamento tecnologico del macchinario, le innovazioni di processo di cui sopra, sono servite e servono intanto a ridurre la composizione numerica della classe operaia ed a scompaginarne la composizione tecnica e politica: le lavoratrici e i lavoratori degli anni novanta saranno sempre di meno, alle prese con macchinari sempre più complessi, sfruttati sempre meno dal lato della fatica e sempre più dal lato del lavoro intellettuale, alle prese con manufatti sempre più spesso prodotti all’estero, producendo merci sempre più simili nella sostanza e differenziate sul piano dello status symbol, vendute solo da chi riesce a spettacolarizzarne la pubblicità.
Fare questo per le imprese significa esattamente gonfiare a dismisura i costi dei servizi e, difatti, la malintesa terziarizzazione dell’Italia, il post-industriale, post-moderno e compagnia bella altro non è che la terziarizzazione dell’industria italiana, ossia la crescita di attività di servizi che non dipendono dalla domanda finale, bensì direttamente dall’industria. Ecco perché la crisi di questi mesi, in maniera altrimenti inspiegabile, colpisce fortemente proprio quei settori (basti pensare all’informatica) che erano stati portati ad esempio in questi anni di crescita virtuosa e nicchia sicura per l’occupazione eventualmente espulsa dall’industria. Nient’affatto: gran parte del terziario privato, in Italia, lavora per l’industria e, se va in crisi quella, necessariamente aumenterà la disoccupazione anche in questo.
L’illusione della ripresa basata sulle esportazioni
Un discorso diverso, ma di segno analogo, va fatto per quanto riguarda l’esposizione più o meno forte alla concorrenza internazionale: recentemente si è sostenuto e si sostiene che la vera divisione nell’Italia prossima ventura non sarà più quella tra Nord e Sud, ma quella tra chi esporta e chi no. Abbagliati dall’effimero successo esportativo dovuto a una svalutazione pesante quanto irripetibile, queste analisi sembrano dimenticare che se le merci prodotte sono solo processate in modo diverso, ma sono sostanzialmente simili a quelle prodotte altrove, è chiaro che i consumatori si rivolgeranno verso quelle che costano di meno. Ma, non c’è svalutazione che tenga, quelle che costano di meno sono esattamente quelle prodotte nei paesi in cui il salario è più basso, sicché affidare le speranze di ripresa a un nuovo boom trainato dalle esportazioni significa ignorare che, nell’epoca della velocità crescente e del villaggio globale, saranno sempre di più i paesi a bassi salari in grado di riprodurre a costi inferiori merci tecnologicamente semplici come quelle esportate dall’Italia.