La crisi di rappresentanza politica stavolta investe la borghesia
in Contropiano Anno 18 n° 3 – 16 settembre 2010
Appare evidente come la crisi politica e istituzionale in atto sia rivelatrice della crisi che si sta producendo anche dentro la borghesia italiana, ma la sinistra rischia di rimanerne subalterna.
Le crescenti difficoltà del governo Berlusconi sono strettamente connesse alle conseguenze della crisi economica globale e alla divaricazione strategica che si è aperta dentro i poteri forti del capitalismo nel nostro paese.
In realtà questa divaricazione non è una novità degli ultimi mesi ma affonda le radici nella crisi della Prima Repubblica, nell’esplosione di Tangentopoli nel 1992 e nell’avvio del processo che ha portato all’Unione Europea. Occorre pertanto riconoscere due fattori accettati da sempre molto malvolentieri dal senso comune e dalla narrazione delle forze antiberlusconiane:
- L’avvento di Berlusconi si è rivelato paradossalmente come un ostacolo imprevisto del processo di normalizzazione capitalistica dell’anomalia italiana messo in cantiere dai grandi gruppi industriali e finanziari e di cui l’integrazione europea dell’Italia era un asse fondamentale.
- Lo scontro tra Berlusconi e settori della borghesia italiana nasce prima come scontro di potere con il gruppo De Benedetti/L’Espresso/La Repubblica e solo successivamente investe e coopta i partiti della sinistra emersi dallo scioglimento del PCI, i sindacati, i movimenti d’opinione che difendono l’assetto costituzionale
Per quasi venti anni, questa divaricazione strategica di interessi materiali e della loro rappresentanza politica ed internazionale, ha agito nelle relazioni interne alle classi dominanti con alterne fortune.
I grandi gruppi capitalisti (dalla Fiat alle banche ma anche settori avanzati delle medie impresa) hanno visto l’avvento dell’Euro e dell’Unione Europea come lo strumento idoneo per dotarsi di una vera dimensione multinazionale e per poter realizzare la modernizzazione capitalistica del paese invocata e perseguita già dai primi anni ‘80. Il problema è che sono assai ridotti e ininfluenti a causa della frammentata struttura produttiva e sociale del modello produttivo italiano.
A questa prospettiva si sono contrapposti i settori legati alla micro e piccola impresa prosperati con le svalutazioni competitive della Lira, l’evasione fiscale, i bassi salari ai lavoratori, gli alti tassi di sfruttamento del lavoro vivo, la collusione con i capitali criminali. Questi settori sono ben individuabili nel Nord e nel Meridione del paese. Nella frammentazione del tessuto produttivo italiano, questi settori e i loro interessi sono quantitativamente maggiori di quelli dei grandi gruppi capitalistici.
Questi ultimi hanno sostenuto ampiamente i governi di Maastricht nei primi anni Novanta e i due governi Prodi. I settori a maggiore rischio di marginalizzazione hanno invece trovato in Berlusconi e nella Lega la rappresentanza politica dei loro interessi minacciati dalla modernizzazione capitalistica la quale è tra l’altro ha sempre puntato a cooptare sulle proprie ambizioni anche i sindacati confederali tramite la concertazione.
La crisi morde anche le classi dominanti
La crisi economica mondiale sta scuotendo brutalmente questo scenario e rafforza l’ambizione della grande borghesia italiana a “strappare” i lacci e laccioli che ostacolano l’aggancio dei maggiori gruppi italiani al nocciolo duro dell’Europa anche sacrificando i settori dell’economia vittima o destinati alla marginalizzazione nella competizione globale.
I limiti storici della borghesia italiana così come è venuta configurandosi dall’unificazione del paese a oggi, stanno manifestandosi come una crisi profonda che neanche più l’odio di classe contro le classi subalterne è abbondantemente sconfitte o disperse riesce più a cementare.
Questa divaricazione non poteva non avere ripercussioni sul piano della politica e della governabilità del paese. Da qui nascono l’incombenza di Montezemolo come convitato di pietra della politica o la rottura di Fini con Berlusconi o l’agitazione della Lega.
La crisi della rappresentanza politica della borghesia nazionale in Italia sta producendo infatti opzioni politiche diverse tra loro provocando però uno spostamento al centro e a destra dell’intero asse politico del paese.
Tre diverse opzioni strategiche per la borghesia
Queste opzioni politiche corrispondono anche a progetti strategici diversi sulle possibilità dell’azienda Italia dentro la competizione globale.
A) “Ultimi, ma tra i primi”
La grande borghesia (ininfluente però a livello di massa) punta all’integrazione dell’Italia nella grande borghesia europea che è venuta definendosi con il processo che ha portato alla costituzione dell’Unione Europea e dell’Eurozona. La struttura produttiva dell’Italia (la maggior parte della microimpresa, la forte componente extralegale dell’economia) e la stessa figura di Berlusconi contrastano con questo progetto di agganciare l’Italia ai punti forti di Francia e Germania e ostacola però questo progetto. A questo punta il Partito della Nazione (una moderna destra europea) ma a questa appare subalterno anche l’intero impianto ideologico delle forze della sinistra emerse nella Seconda Repubblica. Costoro hanno infatti introiettato e veicolato per anni una idea progressiva dell’Europa come indispensabile strumento della modernizzazione capitalistica in Italia. Un’idea smentita sistematicamente dai fatti, dalla natura imperialista dell’Unione Europea e dal carattere antipopolare delle sue scelte concrete.
B) “Primi, ma tra gli ultimi”
Il blocco sociale berlusconiano è rappresentativo e consapevole dell’arretratezza della borghesia italiana e del capitalismo italiano che questa ha prodotto. Nella competizione globale e nella relazione con la strategia della borghesia europea esso può avere solo un ruolo marginale e parassitario (piccole imprese, capitalisti appaltatori e bollettari, imprenditori criminali etc). Ragione per cui il berlusconismo alimenta l’idea che “è meglio essere primi tra gli ultimi” (intendendo con gli ultimi anche paesi non del tutto marginali come Russia, Turchia, Libia, il Maghreb, i paesi dell’Europa dell’Est, i PIGS europei etc.). Questo spiega la spregiudicata politica estera seguita da Berlusconi dominata dal criterio del business più da criteri geopolitici, strategici, diplomatici, un disegno questo che ha fatto inquietare non poco gli Stati Uniti e messo in difficoltà l’Unione Europea.
C) “Padroni a casa propria”
Emerge anche la terza opzione di un settore della borghesia italiana: quella localista-secessionista che vede tutti i pericoli che gli derivano dal progetto della grande borghesia di integrarsi nel polo imperialista europeo e cerca una soluzione nel localismo, nel particolarismo della propria dimensione produttiva ridotta e che non disdegna neanche la prospettiva secessionista. È la logica del “padroni a casa propria” alimentata dalla Lega. Si badi bene che questa prospettiva non è una prerogativa solo della Lega: in Italia cresce una spinta analoga anche nel Meridione e in Europa ci sono ormai esempi come quella della Catalogna in Spagna o della zona fiamminga in Belgio dove sono proprio le regioni più ricche a volersi dividere dalla struttura statale spagnola o belga (vedi “La secessione ingovernabile” su Affari e Finanza di lunedì 13 settembre).
I tre poli del bipolarismo
Alla luce di quanto sta emergendo nella crisi di rappresentanza politica della borghesia italiana, si vanno delineando piuttosto chiaramente tre poli:
- L’asse Berlusconi- Lega. È un contratto a tempo determinato che potrebbe però divaricarsi sulle due diverse opzioni strategiche sopra indicate;
- Il Partito della Nazione (Fini, Casini, Montezemolo). È l’idea di un rassemblement centrista che riduca la dialettica politica a due sole opzioni che escludono completamente la sinistra o la rappresentanza politica dei lavoratori.
- Il PD, IdV, SEL sono seriamente in crisi perché il “Partito della Nazione” gli soffia l’interlocuzione privilegiata con la grande borghesia e perché con l’attuale sistema elettorale non possono che essere disponibili all’alleanza con esso in quanto né loro né il “Partito della Nazione” avrebbero da soli la possibilità di battere il blocco berlusconiano.
Il rischio principale che vediamo nello scenario politico, non è tanto né solo quello di Berlusconi (cosa questa che abbiamo cercato di spiegare in diversi numeri precedenti) quanto che la rinuncia a qualsiasi opzione politica indipendente della sinistra anticapitalista e dei comunisti continui a perpetrare la cooptazione del blocco sociale proletario e proletarizzato su queste tre opzioni. Nel primo caso accentuando il consenso dei lavoratori ai “movimenti reazionari di massa”, nel secondo piegando ulteriormente gli interessi dei lavoratori a quelli delle imprese e del “governo europeo” e agevolando il depotenziamento del conflitto sociale come richiesto da Marchionne e Marcegaglia ma anche da Fini o dal PD. I comunisti non possono che riaffermare l’indipendenza politica e di classe anche per impedire l’arruolamento dei lavoratori nella crisi e nella strategia della borghesia e rimettere in campo un progetto radicalmente alternativo sia come uscita dalla crisi che come modello sociale.
Come disse Gramsci davanti al Tribunale Speciale: “Voi state portando il paese alla distruzione, spetterà ai comunisti ricostruirlo”. E occorre ammettere che in Italia i comunisti allora stavano decisamente peggio di quanto potrebbero esserlo ora.