“Una Storia anomala. Secondo volume”
“Eh già, sembrava la fine del mondo, ma sono ancora qua, ci vuole abilità, eh già” parafrasando le prime strofe della canzone di Vasco Rossi possiamo affermare la stessa cosa essendo riusciti ad attraversare, dagli anni ’70, fasi molto diverse ed anche molto dure e complicate mostrando una certa capacità di adattamento sul piano delle forme senza mai aver voluto cedere sui fini per quanto questi sembravano fossero rimessi in discussione dai fatti. Stiamo parlando di una realtà limitata e certamente cresciuta nei margini che le diverse situazioni hanno permesso, oggi, però, si può semplicemente constatare che questa realtà ancora esiste ed agisce.
Ben scavato vecchia talpa! Come ricordava Marx.
Una scelta che ha le proprie radici in un momento dove lo scontro di classe internazionale ha mostrato una potenza mai vista prima nella modernità e dove il nemico di classe ha veramente avuto paura, ha capito che poteva perdere la partita e ha dato fondo a tutte le proprie risorse per contenere il movimento operaio e comunista. Aver formato le proprie individualità in quel frangente storico è quello che ha permesso, in particolare nei momenti difficili e per certi versi drammatici, di far emergere quella “tigna” che ha aiutato a passare la nottata. Ma queste motivazioni “caratteriali” non sono sufficienti a spiegare la tenuta che ha delle basi teoriche e materiali che si sono determinate e affinate nel tempo e che contengono la vera motivazione della continuità.
Una concezione storica
Il marxismo ed il movimento comunista hanno sempre avuto una lettura della Storia, sia che questa avesse accelerazioni o che invece ristagnasse. Questa variabilità nello specifico ambito del modo di produzione capitalista è stato determinato dalle possibilità di sviluppo delle forze produttive in funzione del capitale, della dimensione dei mercati, dal livello di competizione tra capitali, dai caratteri della forza lavoro e dalla necessità di gestirla economicamente e politicamente. Insomma le possibilità di affermazione di una alternativa sociale è stata sempre collegata nel pensiero rivoluzionario al contesto in cui agiva e in base a queste analisi venivano operate le scelte strategiche e politiche.
Questo approccio strutturale nell’ultimo trentennio del XX secolo è stato abbandonato dai partiti comunisti ad est come ad ovest. Tralasciamo qui le analisi sul perché si è giunti a questa “pratica” devastante in quanto richiederebbero riflessioni ben più ampie. Ad Est si è pensato che il capitalismo fosse sull’orlo del tracollo con la crisi del petrolio di metà anni ‘70 e scelto di misurarsi in via prioritaria sul piano dei rapporti di forza militari mettendo in secondo piano il vero confronto. Quello cioè tra sistemi sociali e politici diversi iniziato nel ’17 con la rivoluzione bolscevica e con lo sviluppo delle forze produttive in sintonia con i rapporti sociali, diversamente da quanto accade nel modo di produzione capitalista.
A ovest l’equivalente del militarismo è stato il politicismo come sopravvalutazione della tattica rispetto alla strategia e della sottovalutazione dell’analisi di classe nelle trasformazioni produttive e sociali rimuovendo così le conseguenti scelte finalizzate al mantenimento ed alla crescita dei rapporti di forza a favore dei lavoratori. Molto concretamente questo si è manifestato sia rispetto al PCI, più avanti nel testo vengono tratteggiati i caratteri di questa mutazione, con la svolta berlingueriana del compromesso storico ma anche nella sinistra rivoluzionaria pensando che la sola “politica”, nella variante predominante del movimentismo, potesse sostituire un lungo processo di costruzione strategica legata al lavoro di classe.
Se vogliamo individuare uno dei motivi che hanno determinato la tenuta dell’esperienza dell’OPR oltre se stessa è proprio quello di aver recuperato nel momento di crisi a cavallo degli anni ’90 questa dimensione storica e generale evitando la scorciatoia presa dal PRC, già dai primi anni della sua fondazione, rifugiandosi nella sola dimensione elettorale e tralasciando la relazione organica con la classe o delegandola alla sola CGIL.
La scelta emersa in modo sofferto dopo il crollo dell’URSS di ipotizzare un processo di ricostruzione sui tre fronti, strategico, politico e sociale, nasce dall’analisi e dalla coscienza che un’ipotesi quale quella del PRC, intesa come sintesi complessiva in continuità con i caratteri del partito comunista di massa, al di là della linea politica scelta, non teneva conto della drammaticità e dello spessore storico di quello che era appena accaduto. La via da perseguire, che appariva inevitabile, era la ricostruzione dei rapporti di forza al cui centro doveva essere messa certo la funzione dei comunisti ma organizzati in forme diverse da quelle uscite sconfitte dalla fase precedente.
La sconfitta del movimento comunista c’era innegabilmente stata e non si poteva proprio pensare di ripetere la stessa storia, che rischia sempre di diventare farsa, senza modificare i caratteri del partito e della sua relazione organica con la classe. Su questo la riflessione si è incentrata evidenziando la necessità dell’organizzazione di militanti e non di massa com’era il PCI, superata a nostro avviso dalle nuove condizioni storiche, e di una modalità di relazione con il conflitto politico e sociale che non portava direttamente alla sintesi nell’organizzazione comunista, convinti che la via elettoralistica avrebbe portato alla crisi di quelle organizzazioni che ritenevano la battaglia nelle votazioni prioritaria per l’azione politica.
È stata fatta anche una riflessione sui tempi, ovvero che i margini di crescita egemonica che si erano aperti con la fine dell’URSS e l’apertura della Cina, avrebbero riproposto tempi lunghi per la ricostruzione di un progetto rivoluzionario, che non può che essere dato dalla manifestazione palese delle contraddizioni oggettive del capitalismo. Le scelte sui tempi stretti infatti, quali ad esempio quelle elettorali spesso ritenute decisive, hanno quasi sempre, in particolare oggi, il carattere dell’ultima spiaggia portando al fallimento. Aver preso atto di quella realtà e dei tempi per una ripresa politica ha evidenziato prospettive molto più impegnative che in precedenza, ed ha messo l’organizzazione a dura prova collettiva ma anche, e forse soprattutto, individuale.
La relazione con la classe
Una delle condizioni che hanno permesso la nascita dell’OPR a metà degli anni ’70 è stata la scelta di tenere in relazione stretta la prospettiva di una rottura rivoluzionaria con l’organizzazione della classe a partire dall’ “elementare” dimensione vertenziale sia per i lavoratori che per i proletari, per come si caratterizzavano all’epoca. Èstato un processo lungo che ha portato alla nascita e crescita del progetto sindacale delle RdB e ad una larga organizzazione dei settori sociali nella città di Roma con la Lista di Lotta. Anche nell’ambito sociale si è cercato di acquisire una dimensione nazionale ma ciò non si è rivelato possibile perché la crescita dell’organizzazione sociale richiede un impegno ed una dimensione della militanza politica dei comunisti ampio, strutturato e sistematico.
Come viene descritto nel testo la dimensione e la qualità dell’intervento di classe, sindacale e sociale, sono state una punta avanzata ma con la crisi dell’URSS, e quella conseguente dell’organizzazione, essa poteva essere rimessa in discussione, come in parte è stato per l’intervento romano della Lista di Lotta. Ma il radicamento costruito in quegli anni ed i risultati raggiunti, parziali ma reali, hanno contribuito al superamento della crisi politica e organizzativa dell’OPR. Infatti quella che avevamo di fronte non era solo una scelta tutta politica, magari di entrare nel PRC, ma dovevamo fare i conti con migliaia di lavoratori che avevamo organizzato e con strutture proletarie che svolgevano una funzione molto concreta, dalla battaglia per la casa alle cooperative di lavoro, dall’organizzazione dei comitati popolari nei quartieri ai centri sociali giovanili. Insomma non c’era in ballo solo una scelta politica ma anche il rischio di “tradire” le aspettative che avevamo creato in ambiti più ampi con le quali, invece, abbiamo scelto di fare i conti mediante un rilancio complessivo dell’azione politica mantenendo l’indipendenza progettuale totale.
Aver costruito organizzazione operaia e proletaria ha avuto, dunque, una funzione strategica per la tenuta e l’adeguamento della nostra ipotesi che, altrimenti, poteva produrre la deriva politicista che ha caratterizzato la parabola del PRC. Se siamo ancora qua lo dobbiamo al rapporto organico, inteso come relazione stabile con le articolazioni della classe reale del nostro paese, che è stato costruito e che fu contemporaneamente garanzia di mantenimento della prospettiva politica e di tenuta interna dell’organizzazione.
Il recupero della dimensione teorica
Come abbiamo detto gli anni 70 e 80 hanno segnato il momento più alto del conflitto di classe internazionale ma anche una curvatura generale del movimento comunista verso la dimensione pratica e tattica rimuovendo la fondamentale elaborazione teorica elemento prima connaturato ai partiti e alle organizzazioni. Un paradosso persisteva in quel periodo, entro cui si manifestava il massimo della forza materiale e la stagnazione sul piano della concezione del mondo e delle sue dinamiche, carattere questo che invece ha accompagnato la crescita del movimento operaio e comunista per tutto il ‘900.
Naturalmente la nostra esperienza non faceva eccezione nel senso che il tutto veniva ridotto, anche da noi, alla competizione per l’egemonia sia tra ipotesi rivoluzionarie diverse, non ne facciamo qui il cospicuo elenco, sia con il riformismo del PCI; ma da parte di tutti, dai rivoluzionari ai riformisti, c’era la convinzione che il capitalismo fosse alle sue ultime battute dopo le pesanti sconfitte di quel periodo, a cominciare da quella del Vietnam.
La crisi di quello che veniva definito il campo socialista o socialismo reale fu molto rapida e sorprese tutti, incluso il nemico di classe che non si aspettava lui stesso una tale precipitazione. Le critiche da sinistra all’URSS venivano già fatte dagli anni 50, a partire dal PCC e da Mao, che accusavano il PCUS di revisionismo. Anche nell’ambito degli alleati dell’URSS c’erano critiche, ad esempio da una parte dei comunisti Latino Americani, a cominciare da Che Guevara, sullo scarso internazionalismo e insufficiente rivoluzione sociale negli stessi paesi socialisti. Per non parlare poi di una buona parte delle organizzazioni politiche nate nel biennio di lotta 68/69 e delle organizzazioni trotzkiste.
Comunque quella che sembrava acquisita e irreversibile, quasi una garanzia inconscia, era la funzione antimperialista dell’Unione Sovietica che in modo diretto e indiretto rafforzava i movimenti di liberazione a cominciare da quello dell’Indocina. Nessuno si aspettava un tracollo di quella dimensione poiché era stata completamente rimossa dai partiti comunisti l’analisi e la ricerca teorica sui caratteri di una società socialista, sulle sue contraddizioni ed anche sulla capacità del capitalismo di rilanciare il ciclo sia economico che egemonico.
Quando la realtà materiale della crisi dell’URSS, si concretizza, i tempi per una sua elaborazione efficace sono assolutamente insufficienti, in generale ma soprattutto per la nostra organizzazione che sullo scontro internazionale aveva teorizzato e tentato la possibilità di costruire un soggetto politico quale il Movimento per la Pace ed il Socialismo fin dal 1986.
D’altra parte se quella crisi aveva decretato la fine del più grande partito comunista d’occidente, il PCI, era inevitabile che una struttura come la nostra, piccola ma articolata e che doveva rispondere a varie necessità, dal giudizio sulle questioni internazionali fino alla gestione del conflitto sindacale in Italia, venisse anch’essa travolta dal terremoto in corso.
I passaggi e le contorsioni subite all’epoca sono descritte successivamente nel testo e a questo rinviamo, ma dopo la nostra rottura e di fronte alla necessità del rilancio bisognava decidere se procedere, ed entrare ad esempio nel PRC, o come procedere se avessimo ribadito la nostra prospettiva indipendente. La seconda scelta è quella che abbiamo praticato cercando capire qual’ era il punto di ripartenza, in un mondo per noi capovolto in termini letterari dove spazi, possibilità, ipotesi politiche e organizzative erano assolutamente avvolte dalla polvere delle macerie.
Nonostante fossimo quasi analfabeti riguardo alla teoria marxista e del movimento comunista il conflitto di classe infatti era stata la nostra principale scuola di militanza e formazione una cosa apparve chiara e cioè che una ripartenza non poteva che prendere le mosse dalla qualità delle analisi e della teoria in senso stretto, che dovevamo elaborare. Da una parte la scelta della relazione con la classe è stata confermata e accentuata come condizione necessaria di esistenza ma ci siamo avviati anche su un sentiero da noi mai praticato prima. Il tentativo era quello di ricostruire una visione d’insieme della storia del movimento e del pensiero marxista, dei nuovi caratteri del modo di produzione capitalista, della nuova composizione di classe che emergeva dall’implosione non solo dei comunisti ma anche del movimento operaio internazionale.
Questo impegno, non di poco, conto partiva però da un presupposto politico ed anche ideologico molto determinato. Ai nostri occhi appariva storicamente oggettivo che i comunisti avevano cambiato nel ‘900 il mondo, le condizioni delle classi subalterne e dei paesi colonizzati. I piagnistei autocritici e masochistici in voga tra gli epigoni del movimento comunista e della sinistra, all’epoca ma ancora oggi, non potevano assolutamente essere il punto di partenza per acquisire una visione adeguata della nuova condizione storica.
Si rifiutò il percorso analitico, maggioritario, per cui bisognava capire su cosa si era sbagliato e perché avevamo “fallito” e ribaltammo letteralmente questo punto di vista cercando di capire invece perché i comunisti avevano vinto nella prima parte del ‘900, rivisitando analisi e teorie che avevano portato quasi la metà dell’umanità a costruire il socialismo.
Ciò ci spinse a studiare i classici della rivoluzione, a cominciare da Lenin, e ad avviare un lungo percorso di formazione che certamente non è esaustivo e nemmeno verificato ma che certamente oggi ci fornisce gli “occhiali” giusti quantomeno per leggere le dinamiche presenti. La tenuta ed il possibile rilancio, insomma, non potevano che partire dal recupero non dottrinario e contestualizzato storicamente del pensiero comunista.
Rafforzare i fondamentali del nostro pensiero
Coscienza dei processi storici sia nelle loro precipitazioni o stasi, rapporto organico e organizzato con la classe reale di riferimento, ricerca analitica e teorica riproponendo il pensiero marxista che l’ideologia dominante vorrebbe seppellire sono gli elementi che ci hanno permesso di tenere nonostante il nostro faticoso remare controcorrente, oggi alleviato dal manifestarsi della crisi di egemonia del capitale. Questi parametri usati nella fase di crisi saranno ben presenti anche nel lavoro futuro della Rete dei Comunisti come dati permanenti da rafforzare e da sottoporre a continua verifica analitica e pratica. Bisogna però sapere che questo insieme logico, politico e pratico che abbiamo costruito agisce concretamente nella realtà solo grazie ad un corpo militante attivo che va ben oltre la semplice partecipazione politica. Nonostante oggi la militanza sia stata per buona parte distrutta da pratiche politiche fallimentari, prodotte dalle organizzazioni della sinistra e dal movimentismo, è compito prioritario formare militanti che sappiano legare una visione di lungo periodo alla costruzione di una concreta forza comunista e di classe. Forza che si ponga il problema del cambiamento adottando un metodo di analisi e di lavoro sul quale la RdC da tempo ha scritto e sta discutendo e attuando nella nostra formazione complessiva.