Il 24 marzo 1999, il Segretario generale della NATO, il socialista spagnolo Javier Solana, ordinava al comandante delle forze NATO in Europa, il generale USA Wesley Clark, di avviare l’operazione “Allied Force” contro la Jugoslavia.
Sottoposte ad attacchi aerei Belgrado, Priština, Užitse, Novi Sad, Kragujevats, Pančevo, Podgoritsa e altre città della Jugoslavia.
E’ sempre bene ricordare come anche il governo D’Alema, con il plauso delle forze “democratiche” italiane, partecipasse all’aggressione, in cui si calcola che siano stati lanciati tremila missili da crociera, circa 80mila tonnellate di bombe, comprese quelle a grappolo e con uranio impoverito, tanto che ancora oggi, su 7 milioni di popolazione, ci sono in Serbia 40mila malati di cancro e l’incidenza del male nei bambini è di 2,5 volte superiore alla media europea.
Secondo i dati serbi, i bombardamenti provocarono oltre mille morti tra i militari e 4mila civili, tra cui circa 90 bambini, con oltre diecimila feriti.
La rivista russa “Vita internazionale” ricorda come i bombardieri NATO (di USA, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Paesi Bassi, Belgio, Canada, Turchia, Italia e Germania) decollati dalle basi in Italia, e i missili lanciati da navi e sommergibili della VI Flotta in Adriatico e Ionio, colpissero non solo obiettivi militari, ma soprattutto edifici residenziali, amministrativi e governativi, radio e giornali, scuole, ospedali, ponti, treni passeggeri e autobus, strutture industriali, chiese, mercati.
Con l’inizio dell’aggressione, i terroristi albanesi lanciarono in Kosovo un attacco generale, equipaggiati con armamenti e le più recenti attrezzature di comunicazione satellitare, lasciate loro dalla missione OSCE, riparata in Macedonia prima dell’inizio dei bombardamenti.
“All’epoca, i canali televisivi occidentali parlavano di colonne di rifugiati albanesi, “cacciati dal Kosovo dalle forze serbe” scrive “Vita internazionale”, quando in realtà “fuggivano dalle bombe NATO, che non distinguevano in base all’etnia: il 14 aprile, aerei NATO colpirono due volte un convoglio di profughi albanesi sulla strada Prizren-Đakovitsa, uccidendo più di 75 civili”.
I bombardamenti sulla Jugoslavia sono un crimine contro l’umanità, scriv su News Front-Serbia il professor Zoran Miloševič (di sfuggita: inserito nella “lista nera” del sito nazista ucraino “Mirotvorets”): “L’aggressione della NATO capovolse verso occidente le politiche serbe e montenegrine, nel senso che iniziò il disfacimento dell’esercito e il trasferimento delle risorse economiche chiave, la penetrazione dei valori occidentali nel nostro sistema educativo, la subordinazione dei media”.
In occasione dell’anniversario, il Ministero degli esteri russo ha rilasciato un comunicato in cui si afferma che la NATO “non aveva legittime basi per tali azioni: non un mandato ONU.
Con quell’atto di aggressione si violarono i principi fondamentali del diritto internazionale sanciti dalla Carta ONU, dall’Atto finale di Helsinki e dagli obblighi internazionali degli Stati membri del blocco”.
Mosca ricorda anche come, sostenuti dai “bombardamenti NATO, gli albanesi del Kosovo commettessero crimini mostruosi, pulizie etniche, distruzione di chiese, rapimento di serbi per il commercio di organi: tutti fatti rivelati dalla relazione del senatore svizzero Dick Marty all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa del dicembre 2010”.
L’attuale Presidente dell’Ingušetija, Junus-Bek Evkurov, all’epoca maggiore paracadutista del GRU (l’intelligence militare) russo, tra i protagonisti della famosa “marcia-lancio su Priština” del 11 giugno 1999, con una ventina di uomini tenne sotto controllo l’aeroporto Slatina (quattro giorni fa è uscito nelle sale russe il film “Linea balcanica”, dedicato all’impresa) in attesa del battaglione russo dalla base SFOR in Bosnia-Erzegovina, che bruciò sul tempo una colonna corazzata britannica.
Evkurov ricorda come della sua squadra facessero parte militari russi, “ma la maggioranza erano serbi, albanesi, croati. Persone di nazionalità diverse, di fedi diverse.
Voglio sottolineare che c’erano molti albanesi, colpiti dalle azioni dei nazionalisti radicali albanesi e croati contro i civili”.
Se quel successo militare locale si fosse concretizzato in una volontà politica, dice Evkurov, forse ora la “situazione in Kosovo sarebbe diversa.
Ma non è avvenuto.
La Russia non era la stessa oggi; non aveva le stesse possibilità; i partner occidentali capivano che essa era fuori gioco e quindi si comportarono in modo così spudorato.
Sono convinto che l’attuale politica estera venga condotta anche tenendo conto degli errori del 1999”.
Un anno fa, nel 19° anniversario dell’aggressione NATO, rispondendo alla domanda se questa si ripetesse oggi, a suo parere, la Russia interverrebbe nel conflitto, il Ministro degli esteri serbo Ivitsa Dačič aveva risposto: “Ne sono convinto.
La Russia è in Siria su invito del governo siriano.
Ora, immaginiamo come sarebbe andata la storia se nel 1999 fosse stato presidente Putin, la Russia fosse stata la stessa di oggi e la nostra leadership avesse chiesto aiuto”.
E Andrej Medvedev scrive oggi su iarex.ru che “con l’esempio della piccola Serbia, l’Occidente ci ha mostrato cosa sarebbe successo a noi; solo una circostanza non ha loro permesso di condurci sullo scenario jugoslavo: l’arma nucleare.
La Jugoslavia è un esempio di ciò che si fa con i deboli e gli indifesi; di ciò che accade a un paese con un leader debole e un’élite filo-occidentale”.
D’altronde, per ricordare i legami, non solo ideali, tra serbi e russi, non è necessario andare troppo indietro nei secoli.
Nei primi mesi del 1994, la Pravda pubblicava numerose lettere di volontari (militanti di formazioni nazionaliste russe, o veterani di Afghanistan, Transnistria, Abkhazija) che chiedevano informazioni su come entrare in contatto “con reparti russi che si battono nelle file dei difensori della Serbia”.
Come ieri a Dubossary, si diceva, così oggi a Sarajevo o a Goradze, “si tratta di combattere contro l’aperto attacco a slavi e ortodossi”.
La Pravda calcolava in circa tremila il numero di volontari – “non mercenari”, si sottolineava – che, con ripetute permanenze al fronte di tre-quattro mesi, combattevano in Bosnia a partire dall’estate del ’92 “per la fede ortodossa, per i fratelli serbi, per salvare il popolo serbo dal genocidio scatenato dalle bande musulmane e dai loro protettori americani”.
Lo scorso 18 marzo, il Presidente serbo Aleksandr Vučič ha dichiarato che la Serbia “può perdonare l’aggressione NATO, ma non può dimenticarla.
Desideriamo buoni rapporti con la NATO, ma non vogliamo entrarvi”.
La morte di oltre 90 bambini, ha detto, “è il simbolo di quell’orrendo crimine compiuto contro la Jugoslavia e il suo popolo”.
La Tass ricorda come, un anno fa, i sondaggi indicassero che il 62% dei serbi non ha perdonato l’aggressione NATO e non accetterebbero nemmeno le scuse, mentre l’84% è contrario all’adesione all’Alleanza atlantica.
La politologa moscovita Elena Ponomareva dichiara che l’aggressione NATO del 1999 non fu che “la fase finale della strategia per il controllo totale dell’Occidente sui Balcani.
La Casa Bianca aveva messo a punto i piani per la distruzione della Jugoslavia, come stato più ricco e strategicamente più importante della regione, molto prima del 1999.
Nel 1984, l’amministrazione Reagan aveva emesso la direttiva NSC n.
133 per una “tacita rivoluzione” volta a rovesciare i governi comunisti e “far rientrare i paesi dell’Est europeo nell’orbita del mercato mondiale”.
Poi, proprio “da Belgrado, nell’ottobre 2000, iniziò la serie delle “rivoluzioni colorate” nell’area postsovietica”.
Di più: nella creazione dello “stato del Kosovo” sono confluiti gli “interessi del governo USA, delle multinazionali americane e quelli della mafia albanese e del terrorismo internazionale”.
Per la Russia, afferma Ponomareva, la “lezione jugoslava” fornisce preziose informazioni, dato che la politica balcanica dell’Occidente riflette i suoi principi geopolitici e interessi più profondi, in cui non c’è posto per la Russia, né per la Serbia, né altri paesi che abbiano una visione autonoma del proprio futuro”.
Pochi giorni fa, il sito colonelcassad riportava la testimonianza dell’ex agente della CIA Robert Baer al giornale bosniaco WebTribune, secondo cui negli anni 1991-’94 la sua sezione disponeva di milioni di dollari per le attività in Jugoslavia, in particolare per finanziare ONG e partiti di opposizione, a favore della secessione delle varie repubbliche.
La prima operazione, dice Baer, fu nel gennaio ’91, contro “presunti terroristi serbi” a Sarajevo, che avrebbero dovuto “contrastare le ambizioni separatiste bosniache.
Ma tale gruppo di terroristi non esisteva affatto” e Baer sostiene di esser stato “ingannato dai vertici della CIA, che miravano ad attizzare gli odii interetnici in Jugoslavia; si doveva scegliere un capro espiatorio da incolpare di guerra e violenza: fu scelta la Serbia, in qualche modo successore della Jugoslavia”.
Alla domanda su quali esponenti bosniaci fossero al soldo della CIA, Baer fa i nomi di “Stipe Mesič, Franjo Tudžman, Aliya Izetbegovič”, ma anche “molti funzionari e membri del governo in Jugoslavia, generali serbi, giornalisti, ecc.; per qualche tempo pagammo anche Radovan Karadžič, ma lui smise di prendere soldi quando capì di poter essere sacrificato e accusato dei crimini in Bosnia, organizzati in realtà dall’amministrazione statunitense”.
A proposito di Srebrenitsa, Baer afferma che il “numero delle vittime serbe non fu inferiore a quello di altre nazionalità, ma Srebrenitsa doveva essere un “marketing politico”.
Un mese prima del presunto genocidio, il mio boss disse che la città sarebbe stata la principale notizia in tutto il mondo e ci ordinò di contattare i media.
Srebrenitsa ricade su bosniaci, serbi e americani; ma, di tutto furono accusati i serbi.
Molte delle vittime sepolte come musulmani erano serbi e di altre nazionalità.
Alcuni anni fa, un altro ex agente della CIA che ora lavora per il FMI, ha affermato che Srebrenitsa fu il risultato di un accordo tra il governo USA e i politici bosniaci.
Srebrenitsa fu sacrificata per dare all’America il pretesto per attaccare i serbi: fu la “linea rossa” di Bill Clinton”.
La giustificazione ufficiale dell’aggressione del 1999 continua a essere quella della “difesa della popolazione albanese del Kosovo”, ma lo scorso ottobre, il Segretario generale NATO, Jens Stoltenberg, ammise candidamente che essa fu compiuta “per prevenire ulteriori azioni del regime di Miloševič”, fatto morire in carcere nel marzo 2006.
Sono “giustificazioni abbastanza risibili” aveva commentato la storica russa Irina Rudneva, che “risuonano da venti anni.
Ogni volta, cercano di convincere i serbi che tutto è stato fatto per il loro bene.
Iniziarono con la frase “catastrofe umanitaria”; poi cominciarono a dire che lo avevano fatto per salvare gli albanesi.
E ora viene effettivamente espressa la versione secondo cui USA e loro alleati avevano semplicemente deciso di rimuovere Miloševič con la forza e sostituirlo con un altro, più adatto”.
Oggi, a distanza di 20 anni, allorché si fanno sempre più sfacciate le manovre CIA per una “rivoluzione colorata” a Belgrado e la NATO insiste sulla “legittimità” e “necessità” dell’aggressione del 1999, nessuno crede a una casualità nella trasformazione in ergastolo, decisa proprio ora, della precedente condanna a 40 anni inflitta nel 2016 all’ex Presidente della Repubblica serba di Bosnia-Erzegovina, il 74enne Radovan Karadžič, accusato dal cosiddetto tribunale de L’Aja di genocidio nei confronti di musulmani bosniaci a Srebrenitsa nel 1995