Il documento per la seconda Conferenza Nazionale della Rete dei Comunisti
Roma, 21 Aprile 2013, Ore 9.30, Casa della Pace (quartiere Testaccio)
La 2° Conferenza Nazionale della Rete dei Comunisti si svolge in un momento particolarmente grave e significativo per i comunisti ed il conflitto di classe nel nostro paese. La recente campagna elettorale ed i suoi esiti, hanno sancito la definitiva scomparsa dal panorama politico-istituzionale della presenza di forze comuniste. Questo non è accaduto per caso, per un destino “cinico e baro”, ma per le scelta effettuate in questi anni e per manifesta incapacità dei gruppi dirigenti. Non solo degli attuali gruppi dirigenti ma di quelli che nell’ultimo ventennio si sono succeduti nella direzione dei vari partiti.
Potremmo elencare le scelte che gradualmente ma inesorabilmente hanno portato alla situazione attuale: da quella della spaccatura del PRC con la fine del governo Prodi nel ’98 all’appoggio, rinnovato allo stesso Prodi nel 2006, alla scissione vendoliana realizzata proprio da chi aveva diretto il PRC fino a quel momento. Volendo si potrebbe continuare nel lungo elenco delle “malefatte” ma crediamo che questo, alla fine, si rischia di ridursi ad un esercizio inutilmente recriminatorio. In realtà le motivazioni di un tale esito sono molto più profonde. Sono legate alla storia del movimento comunista italiano e, purtroppo, non ci sembra che un’analisi rigorosa di tali motivazione emerga dal dibattito in corso tra molti compagni, un dibattito che spesso assume toni comprensibilmente drammatici.
Alcune di queste motivazioni nascono dalla mancata volontà o capacità di comprendere le conseguenze profonde della crisi dei paesi socialisti alla fine degli anni Ottanta che hanno investito direttamente anche il movimento comunista occidentale ed italiano: Al contrario si è risposto con la velleitaria pretesa di ritenersi diversi e dunque esenti dall’ondata storica che stava travolgendo un intero mondo e il mondo intero. Ma di questa ondata storica oggi se ne cominciamo a misurare gli effetti concreti anche nelle società a capitalismo avanzato. E’ mancata in quel passaggio una “Riforma non riformista” del pensiero comunista che si era andato sedimentando nei militanti e nel paese fin dalla fine degli anni ’60, e che successivamente ebbe a sussumere anche i resti della sinistra rivoluzionaria uscita sconfitta dal durissimo scontro politico e sociale degli anni ’70.
La crisi politica attuale nasce, perciò, dalla incapacità teorica di leggere i processi storici, politici e sociali. Caratteristica, questa, che aveva invece accompagnato la nascita del movimento operaio e prodotto l’affermazione di una concezione rivoluzionaria che si era materializzata in partiti, movimenti ed entità statali nella dimensione mondiale. In quella tensione storica era cresciuto sia il PCI sia la sinistra rivoluzionaria prodotta in Italia dal biennio ‘68/’69 che rivoluzionò comunque, nei limiti dati dalla situazione concreta nazionale ed internazionale, le relazioni sociali nel nostro paese.
Questa incapacità dagli anni ’90 ad oggi ha spostato il baricentro dell’attenzione e dell’azione politica dalla classe reale – che pure si andava fortemente modificando – alla sola dimensione istituzionale diventata il parametro generale per la direzione del PRC e del PdCI ed anche per la formazione politica e culturale della loro base organizzata e dell’elettorato.
L’effetto di questo spostamento non poteva che essere l’inaridimento del pensiero marxista ed il progressivo indebolimento del movimento di classe. In questo ristagnare dei partiti comunisti si è via via consumato il capitale politico e sociale accumulato nel ‘900, passando così di elezione in elezione intesi come momenti assoluti e catartici. Oggi siamo arrivati all’estinzione di una storia politica che avrebbe avuto diritto a ben altri rappresentanti, dirigenti e prospettive.
La responsabilità principale è di quanti non hanno saputo nè voluto essere veri gruppi dirigenti. E’ una storia che parte da Cossutta (finto ortodosso e vero burocrate) e Magri, si snoda poi attorno alla figura di Bertinotti, che con sapienza e pazienza ha smontato ogni concezione marxista e, con totale coerenza, anche la struttura di partito, abbandonandolo quando la nave da lui guidata ha cominciato ad affondare. Di “capitani coraggiosi” e maldestri non c’è solo il comandante Schettino. Diliberto, Ferrero e Vendola sono gli epigoni di questa storia ingloriosa e non è un caso che, pur da posizioni diverse, sono andati tutti consapevolmente verso una sconfitta cocente alle ultime elezioni abdicando anche a contenuti e simboli della propria storia.
Venti anni di “coazione a ripetere” elettoralista però non sono pochi e quella concezione delle cose e del mondo ha lasciato il segno anche nella testa e nella coscienza di quei migliaia di militanti e simpatizzanti che si sono spesi con generosità e con disinteresse personale. Oggi questi si trovano non solo senza dirigenti in grado di assumersi le loro responsabilità, ma anche senza strumenti di interpretazione delle dinamiche generali, politiche e sociali che li aiutino ad orientarsi in questo labirinto dentro una agonia che sembra non finire mai e che si trascina da scadenza elettorale a scadenza elettorale. Non è perciò sufficiente indicare di chi è stata la responsabilità, ma diventa necessario assumersi l’onere della ricostruzione di un punto di vista marxista e di una prospettiva comunista sapendo che in questa condizione ormai nessuno ha la delega in bianco per capire ed affrontare la realtà che sta producendo il capitalismo di questo secolo.
Non siamo però di fronte ad una missione impossibile. Tutt’altro. La crisi ha riaperto i giochi e sta mostrando una crisi di egemonia delle classi dominanti sempre più evidente. Riemergono tutte le contraddizioni dello sviluppo capitalistico ed in una dimensione al di fuori dalla portata dei poteri decisionali fino ad oggi esistenti.
Questa dinamica parte dalla dimensione internazionale, attraversa la costituzione della Unione Europea ed arriva fin dentro le case degli italiani.
Questo nuovo passaggio storico, di segno diverso ed opposto a quello degli anni ’90, ci mette in condizione di ricostruire una visione del mondo ed un fronte di lotte.
Tornano così di piena attualità tutti quegli attrezzi della cassetta di Marx, e dei marxisti che hanno fatto la storia, attrezzi che oggi “riaffinandoli” possono essere utilizzati di nuovo in questo XXI secolo sempre più gravido di cambiamenti e trasformazioni. In tal senso la nostra 2° Conferenza Annuale intende individuare una prospettiva, una proposta politica che colga il senso del cambiamento rivoluzionario che i tempi pongono sempre più all’ordine del giorno. Una proposta che vuole andare oltre l’analisi economica delle contraddizioni capitalistiche e inquadrare un passaggio storico che coinvolge direttamente tutta l’umanità.
Un percorso di analisi da rivendicare
Nella discussione interna alla Rete dei Comunisti, da tempo abbiamo ben presente l’esigenza di fare fronte al passaggio epocale che ci si para davanti definendo in modo più solido la nostra collocazione strategica ed elaborando una proposta politica che riesca ad indicare un percorso relativo alle questioni generali – sempre più pressanti – che si pongono ai comunisti ed al movimento di classe. Soprattutto per chi vive e agisce politicamente in un paese collocato dentro i confini di una potenza mondiale a carattere imperialista qual è l’Unione Europea.
Il rischio da evitare è quello di costruire proposte legate solo alla contingenza politica o dettate da una lettura superficiale degli eventi in corso che decreterebbe la velleità di una simile ipotesi.
In questo senso è importante ripercorrere oggi l’analisi avanzata in questi anni sui caratteri della crisi e collocarla dentro un processo storico che vada oltre l’ideologia dominante, la quale vorrebbe il capitalismo come ultimo ed esclusivo orizzonte dell’umanità. Ripercorrere perciò quella linea di tendenza che ha caratterizzato la attuale crisi sistemica del capitalismo, è un passaggio necessario a dare alla nostra proposta la credibilità necessaria a sostenere i veloci cambiamenti attuali ed anche quelli futuri che si manifesteranno in modo ancor più dinamico.
A che è punto la crisi?
Volendo sintetizzare la risposta a questo interrogativo strategico, potremmo dire che siamo passati da una crisi dai tempi lunghi ad una crisi in tempi medi. Il forum della Rete dei Comunisti tenuto a Napoli nel 2012 si è misurato proprio con questa domanda e con le risposte possibili. Diciamo da subito che ipotesi “crollistiche” sono per noi fuori da ogni razionale interpretazione dei processi generali, anche se nel processo storico non possono mai essere escluse accelerazioni o rallentamenti, delle dinamiche in atto. La storia della fase più recente della crisi è nota a tutti ed inizia nel 2007, cioè ormai sei anni fa, con la famigerata crisi dei mutui Subprime, ovvero con la crisi dei mutui immobiliari non restituibili dai debitori Statunitensi. Da quel momento si è vista la crisi delle grandi banche, che si ritenevano “Too Big to Fail” (troppo grandi per fallire) quali la Lehman Brothers, una crisi che si è poi estesa nei primi anni soprattutto nel mondo anglosassone riaffidando allo Stato un ruolo ormai non più “sociale” ma di mero supporto al capitale finanziario.
La stessa crisi, a seguire, si è riprodotta nella Unione Europea seppure in forme diverse e provocando anche notevoli effetti politici nella costruzione del nuovo soggetto imperialista continentale. Questa evoluzione è stata presentata e mistificata come crisi dei “debiti sovrani”. Una tesi che abbiamo contrastato duramente come Rete dei Comunisti e sulla abbiamo espresso posizioni ed analisi dettagliate che hanno trovato conforto nello sviluppo degli eventi economici e politici europei di questi ultimi due anni.
La crisi comunque sta continuando e sta provocando effetti di relativo rallentamento economico anche nelle periferie produttive – le quali ormai non sono più solo “periferie”- e sta invertendo la capacità di traino economico e di sviluppo prodotta dai paesi capitalisti avanzati negli ultimi due decenni. Infine si stanno rivelando nitidamente alcuni frutti avvelenati dell’attuale modello produttivo come “la guerra delle monete”, smentita dai guru dell’economia e delle banche mondiali, ma che emerge dalla volatilità dei cambi tra le monete più rilevanti dei paesi imperialisti ovvero Dollaro, Sterlina, Yen ed Euro.
In sintesi possiamo dire che il “Titanic” capitalistico non ha utrato un Iceberg ma si sta arenando lentamente invertendo la funzione avuta nel recente progresso economico mondiale. I dati sulla stagnazione produttiva, sulla recessione, sulle ripresine asfittiche non li produciamo noi ma le più autorevoli fonti politiche, economiche e statistiche dell’occidente.
Questa è la fotografia della situazione attuale che ci mostra i paesi egemoni in crisi di prospettiva, che arrancano nel tentare di trovare una via d’uscita ad uno stallo che si prolunga nel tempo e che produce sempre ulteriori e maggiori contraddizioni. E’ dunque decisiva l’analisi di questa condizione rimuovendo dal campo le più svariate interpretazioni ed impugnando di nuovo gli attrezzi che possiamo trovare nella cassetta del marxismo.
In primo luogo va sottolineato come la crisi attuale è la crisi dell’uso dello strumento della finanza – nelle sue molteplici forme legali ed illegali – che ha permesso di procrastinare nel tempo gli esiti della crisi di sovrapproduzione degli anni Settanta. Quello finanziario è lo strumento messo in campo per contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto, un saggio ormai insufficiente e che deve essere supportato da altre modalità per ripristinare livelli soddisfacenti di profitto. Queste altre modalità si vanno evidenziando a livello internazionale, dove si sta tornando senza mediazioni al solito “vecchio” e brutale sfruttamento della forza lavoro non più solo nelle recenti periferie produttive (Asia, America Latina etc.), dove si produce la merce per il mercato mondiale a costi ridotti, ma anche nei centri imperialisti come Europa e Stati Uniti ai quali finora era stato riservato il ruolo privilegiato di paesi consumatori, paesi dove si realizzavano i profitti essendo anche quelli dove la ricchezza è maggiormente concentrata. In altre parole si sta gradualmente producendo una tendenziale convergenza o equivalenza nei livelli salariali tra i lavoratori a livello mondiale. Crescono nelle periferie, diminuiscono nei paesi occidentali.
Un’ altra conseguenza di questo restringimento dei margini di profitto è data dalla accentuata competizione internazionale anche nella veste della competizione direttamente economica. Emblematica di questa è l’insorgere della guerra monetaria fino a ieri sottaciuta nonostante la ormai decennale competizione tra Euro e Dollaro. A fianco di questo aspetto della competizione globale, stanno ritrovando spazio anche rinnovate forme di colonialismo guerrafondaio inteso come occupazione diretta, anche manu militari, dei territori e delle loro risorse da parte delle potenze imperialiste. Quello che sta accadendo dalla Libia alla Siria al Mali sono la conferma del tentativo di controllare direttamente, in questo caso particolare da parte della Unione Europea, aree limitrofe e strategiche come è già avvenuto in altri periodi storici.
Insieme a questi dati strutturali attinenti alla crisi del capitalismo, vanno considerati ed aggiunti altri due fattori che incrementano la drammaticità di questo stato di cose: la questione ambientale e quella energetica che contribuiscono ad assegnare alla crisi attuale il carattere sistemico che abbiamo denunciato e descritto in questi anni.
Un ultimo effetto nel processo competitivo che per noi ha un peso politico rilevante, è quello interno alla Unione Europea dove, per tenere testa al confronto internazionale, essa deve rendere compatibile e funzionale la propria economia e articolazione sociale a questa dimensione. Nel Modo di Produzione Capitalistico ciò ha sempre significato produrre diseguaglianze sociali, per aree e concentrazione delle ricchezze, in funzione degli specifici obiettivi competitivi da raggiungere, obiettivi determinati dagli interessi dei monopoli ed ora anche dalla nuova tecnocrazia europea.
Le mutazioni avvenute nell’Unione Europea
Il cambiamento delle condizioni generali analizzate incide sulla condizione di classe in termini sociali ed economici e su questa dobbiamo ragionare per dare credibilità alla nostra proposta politica dentro l’Europa ma per fuoriuscire dall’Unione Europea. E’utile in tal senso tracciare una dinamica storica che mostri come la mutazione sociale in atto sia una conseguenza e sia legata ai processi precedenti di stessa natura.
I processi in corso nell’Unione Europea sono iniziati negli anni ’80 e poi si sono sviluppati molto più rapidamente nel decennio successivo alla fine dell’URSS. Nell’ultimo scorcio del secolo scorso, infatti, il cambiamento dell’assetto produttivo dell’Italia e di tutti gli altri paesi a capitalismo avanzato ha subito una accelerazione ed una modifica qualitativa. Dalla produzione fordista di massa, al cui centro c’era la grande fabbrica ed il ruolo dello Stato come mediatore sociale, si è passati ad una produzione dislocata sulle filiere internazionali dove il lavoro nei paesi centrali passava dalla produzione di merci alla produzione dei servizi, si trasformava da manuale ad intellettuale, dove le parti più importanti della produzione e della concentrazione finanziaria rimanevano al centro ma la produzione di massa sviluppata nei decenni precedenti veniva trasferita nelle periferie produttive. Una delocalizzazione impetuosa che in Italia – ad esempio – ha portato ad una vera e propria destrutturazione-decimazione dell’industria.
Da allora è avanzata in tutto l’occidente ed in Europa la terziarizzazione delle attività produttive, che già si era manifestata negli Stati Uniti, provocando mutazioni di mansioni lavorative che sono diventate ulteriori supporti materiali alla egemonia ideologica “vincente” del capitalismo. Nello stesso tempo a questi lavoratori del “centro” veniva assegnato il ruolo di consumatori ovvero la realizzazione dei profitti tramite vendita di prodotti materiali e finanziari, dato che questa poteva avvenire solo lì dove la ricchezza si concentrava in modo più consistente.
D’altra parte i paesi europei vivevano e producevano in pace, come gli Stati Uniti ed il Giappone, dalla Seconda Guerra Mondiale, avevano dunque avuto una impetuosa crescita economica nel cosiddetto “trentennio d’oro” e si era prodotta una accumulazione di ricchezza che riguardava imprese, banche ma anche le famiglie e che permetteva quindi un aumento dei consumi e degli investimenti finanziari. In Italia chi non rammenta gli ormai quasi dimenticati “ BOT people” degli anni ’80 e ’90?
Va segnalato contestualmente come la forza lavoro in questi paesi sia stata comunque coinvolta in consistenti processi di riorganizzazione produttiva e sociale, il che ha significato in particolare precarizzazione diffusa, riduzione della ricchezza distribuita alle classi subalterne e riduzione delle funzioni dello Stato Sociale. Anzi la modifica in peggio delle relazioni formali e sostanziali tra le classi è stata possibile ed è stata accettata grazie proprio alle suddette condizioni economiche. Questo processo, che ha riportato la classe lavoratrice all’interno delle compatibilità economiche e politiche capitaliste, è stato facilitato dalla riduzione dei prezzi delle merci (da quelle alimentari a quelle moderne di consumo elettronico) causata da una maggiore produttività mondiale del lavoro in cui convergevano sia le produzioni tecnologicamente avanzate dei paesi imperialisti sia quelle prodotte dai paesi (vedi Cina, India, etc.) con un bassissimo costo della forza lavoro.
In sintesi ad una riduzione del valore monetario della produzione distribuito sul versante del lavoro dipendente e subordinato non ha corrisposto nella stessa misura una riduzione delle merci necessarie alla riproduzione (moderna, cioè non solo materiale ma anche sociale, culturale, etc.) della forza lavoro, unico parametro oggettivo per chi vive del proprio lavoro. Inoltre questa condizione materiale associata alle politiche finanziarie in cerca di investimento, vista la massa monetaria accumulatasi, ha permesso l’uso del credito in modo tale da supplire alla riduzione dei salari monetari effettivi indebitando, ad esempio, le famiglie con i mutui per le case e per molti altri beni di consumo. In altre parole si è creata in Italia ed in Europa, oltre che nel resto dei paesi avanzati, quella che abbiamo definito negli anni passati una vasta “aristocrazia salariata” che ha prodotto una illusione di privilegio rispetto al resto del mondo, degli ex paesi socialisti e dell’ex terzo mondo, la quale ha fatto pensare che non fosse possibile, e forse neanche desiderabile, nessuna alternativa a modello sociale capitalista egemone e vincente.
La regressione in atto nel sistema capitalista
Questa condizione di stabilità in realtà è però durata appena un quindicennio, dopo di che, con la crisi iniziata negli USA nel 2007, è iniziata l’inversione di tendenza e ogni “pezzo del puzzle” sta tornando al suo posto in base alle sacre leggi del mercato. Una sacralità del Dio denaro che sembra aver messo in crisi anche la tenuta della Chiesa Cattolica, uscita indebolita dal confronto.
Venuta meno l’efficienza della leva finanziaria, è riemersa per il profitto l’importanza dello sfruttamento diretto dei lavoratori tramite intensificazione dei ritmi e tramite l’allungamento della giornata lavorativa (composta magari di più posti di lavoro diversi e di assunzioni in modo precario). Procede con forza il furto per legge del salario indiretto e differito (servizi sociali e pensioni) con trasferimenti di ricchezza direttamente al sistema finanziario ed alle imprese private dominanti. In altre parole quella che viene definita “crescita” oggi significa incremento del sottosviluppo economico e sociale per chi lavora e per le classi subalterne. Vengono meno le opportunità di reddito e profitto anche per le piccole imprese commerciali e artigianali. Si manifestano chiaramente relazioni di subordinazione alle dinamiche del capitale che evidenziano la proletarizzazione concreta che si va riaffermando, anche se si presentano con un ventaglio di relazioni di lavoro e di forme sociali “spurie” come le partite IVA o i contratti di collaborazione e molte altre forme di moderna schiavitù lavorativa.
Abbiamo detto però che non siamo “crollisti” e abbiamo cercato anche di mostrare alcuni freni messi in azione per la “discesa agli Inferi” delle classi subalterne. Vale la pena ricordare che siamo dentro un processo che non procede in modo automatico ma che, pur non potendolo invertire, viene politicamente e socialmente gestito dalle classi dominanti della Unione Europea.
Dunque la riduzione delle condizioni materiali riguarderà solo una parte, anche se consistente, delle classi sociali che verranno rese totalmente funzionali alle esigenze delle imprese e della finanza continentale in relazione alla competizione globale. In tale contesto si capisce bene perché alcune classi ed alcuni paesi debbano arretrare dalle posizioni sociali prima raggiunte (vedi le politiche finanziarie sui paesi PIIGS) ma si capisce bene anche perché una parte dei lavoratori debba mantenere quella posizione di aristocrazia salariata che consenta di avere ancora dei livelli di consumo tali da generare profitti alle imprese, una frammentazione sociale che riproduca perciò una divisione materiale, politica e ideologica tra le classi subalterne nel continente.
Significativa è la presa di posizione della IG Metall tedesca ad Ottobre del 2012 dove si sostiene la necessità dei sacrifici dei lavoratori europei a sostegno della costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Altrettanto significativa in questa prospettiva è la posizione che ha preso la Lega sulla macroregione con Austria, Baviera e Slovenia superando la ridicola ipotesi secessionista del Nord. Essendo ben chiaro il delinearsi di una separazione “de facto” nella Unione Europea tra le diverse condizioni economiche, produttive e di ricchezza, la Lega Nord spera di agganciare quelle regioni italiane in bilico nello sviluppo, con quella parte dell’Europa che invece dovrà essere il vero soggetto centrale nella competizione globale sia all’interno del polo europeo che all’esterno.
Dalle terapie d’urto alle guerre monetarie
Tenendo conto dei processi descritti e del tempo che questi hanno impiegato nel portare la situazione allo stato attuale, il dato che emerge con sufficiente chiarezza è che la valorizzazione dei capitali passerà per forza dentro una contrazione delle condizioni materiali e dei diritti sociali, e non solo, delle masse popolari. Il famoso e ambito “modello sociale europeo” emerso dal dopoguerra è ormai ritenuto superato e con un costo insopportabile. Questo si evince già dalla moltitudine di statistiche, appelli, esortazioni che vengono dai centri economici e dalle istituzioni europee. Quello che è legittimo dedurne è che questo stato stagnante e di regressione latente dell’economia non sia affatto contingente ma rappresenta lo scenario, lo sfondo delle prossime vicende politiche e sociali dell’Europa.
Certamente alla drammatizzazione attuale contribuisce in modo decisiva la politica di austerità adottata dalla “Troika” relativa ai cosiddetti “debiti sovrani”, una austerità dettata più che da motivazioni di bilancio nazionale dal fatto che nell’Unione Europea si sta giocando la partita sul “CHI” comanderà nei prossimi decenni, ovvero su quale sarà la composizione vincente delle classi dirigenti e della borghesia europea. Su questo abbiamo più volte affermato che un tale esito andrà visto non sulla sola base dei confronti e dei rapporti di forza tra stati-nazioni membri dell’Unione Europea, ma individuando con una analisi di classe adeguata le caratteristiche della neonata borghesia continentale. E’ una partita tutta aperta, ma da marxisti – ancora una volta – pensiamo sia corretto fare analisi a partire dalle classi sociali e dai loro reciproci rapporti piuttosto che dalle sovrastrutture politico-istituzionali, certamente importanti ma soggette ai cambiamenti strutturali dell’attuale modo di produzione.
Se la politica di austerità riguarda le scelte della Unione Europea, la stessa cosa non si può dire certo per gli USA ed il Giappone dove si preferisce aumentare la massa monetaria a sostegno delle banche, delle imprese ma anche di una domanda interna sempre più asfittica. Se il modo di affrontare la crisi è diverso da quello europeo non sono certo diverse le necessità da cui partono questi paesi e gli esiti a cui porterà l’aumento in circolazione della massa monetaria. Il risultato implicito di queste politiche monetarie è il tentativo di aumentare la competitività della propria economia portando ad una svalutazione più o meno forte della moneta nei cambi internazionali e, per controverso, rendere più difficili le condizioni di vita dei “prestatori” di forza lavoro in quanto la svalutazione implica una inflazione che colpisce chi non ha potere economico e lo rende più ricattabile.
Questa scelta inoltre ha un sapore nettamente protezionista per i paesi che la fanno e dunque il rischio di accentuare la competizione tra le aree monetarie imperialiste diventa sempre più palpabile, anzi già lo è nelle molteplici dichiarazioni che tentano proprio di esorcizzare questa guerra delle monete al suo stato nascente. Ma anche la prospettiva sostenuta da USA e Giappone parte dai limiti che il mercato pone alla valorizzazione del loro capitale, dal che appare chiaro che questa difficoltà riguarda tutti i paesi ed aree imperialiste e si pone come limite generale per l’umanità.
Crisi assoluta da sovrapproduzione. Sarebbe difficile infatti trovare un termine più adeguato per una situazione dove la massa monetaria circolante è divenuta otto (già nel 2010), nove, dieci volte più grande della somma di tutto il PIL mondiale e che continua a crescere, quando l’84% del debito mondiale si trova negli USA, in Giappone e nella UE e quando le banche centrali continuano a produrre denaro solo per “agevolare” la circolazione. Questa ad esempio è la teoria dell’economista americano Paul Krugman il quale sostiene che il denaro ha solo la funzione di mezzo di scambio e che ritenerlo misura del valore è una posizione antiquata non solo dei marxisti ma anche degli economisti europei che sostengono le politiche di austerità in quanto ritengono esistere un rapporto tra i bilanci, i debiti pubblici ed il valore della moneta. Le teorie anche in campo borghese sono molte, i governi e le banche centrali giocano ormai di rimessa sugli andamenti dell’economia reale prevalentemente finanziaria ma il dato che interessa a noi e che riguarda le classi subalterne è che la capacità di crescita economica e di egemonia ideologica delle aree sviluppate e cioè dei paesi imperialisti è ormai in crisi e non può più rappresentare in queste condizioni una prospettiva generale per l’umanità. Da questo stallo e dai suoi devastanti effetti sociali internazionali comincia ad emergere la necessità di una alternativa sociale che significa riaprire una fase di transizione e di superamento del capitalismo.
Contraddizioni crescenti tra Centri imperialisti e paesi emergenti.
Gli effetti del blocco della crescita sono molteplici ma chi ne subisce direttamente le conseguenze sono i paesi della periferia produttiva, i quali però oggi sono arrivati ben oltre quella specifica funzione assegnatagli dalla divisione internazionale del lavoro. Questi paesi – I BRICS -hanno sviluppato anch’essi scienza e tecnologia in relazione alla produzione materiale ed immateriale. Se prima i centri imperialisti hanno esportato fabbriche e produzioni per investire la massa di capitale finanziario a loro disposizione oggi, più di ieri, hanno la necessità di utilizzare ancora quei paesi in funzione dei loro interessi ma non è affatto detto che questi siano gli stessi della fase storica precedente. Anzi per come si va accentuando in varie forme e misure la competizione tra centri capitalisti sviluppati, questa necessità si imporrà anche nei confronti di chi fino a ieri ha contribuito a far crescere i profitti delle multinazionali, delle banche e dei fondi finanziari. Anche qui i sintomi si vedono ad esempio nella crescente tensione politica tra Cina ed USA ma soprattutto nello scontro molto più palese con il Giappone.
Parlare di Imperialismo non significa fare una affermazione ideologica e l’Imperialismo non è una aggressiva e “cattiva” politica dei paesi occidentali, ma è la necessità per questi di asservire la società mondiale alle proprie e oggettivamente inderogabili necessità di valorizzazione del capitale dentro le proprie “cittadelle” ma anche al di fuori di esse. Con la collaborazione ma, se necessario, anche con la competizione ed il conflitto. E’ esattamente questo il punto dove ci ha portato la crisi di sovrapproduzione con la quale tutti i soggetti in campo internazionale dovranno fare i conti.
Questo significa intravedere una contraddizione con i paesi della “periferia”, che si intreccia con quella tra i centri imperialisti, contraddizione che nasce dalla difficoltà di trovare nuovi “territori di caccia” per la crescita del capitale e che aumenterà quel conflitto che in altre epoche storiche ha implicato anche una distruzione generalizzata di capitale. Detto più esplicitamente: è stata la guerra che in altri momenti storici ha permesso la ripresa e la crescita del capitalismo.
L’aumentata aggressività dell’imperialismo del XXI secolo deve fare i conti con una situazione molto diversa da quella incontrata nell’800 e nel secolo scorso. Innanzitutto la dimensione mondiale raggiunta dalla produzione capitalistica non è mai stata così estesa, cioè l’inserimento della Cina, dell’India, della Russia, dell’America Latina e di molti altri paesi nella produzione di merci e del mercato mondiale ha ridotto gli spazi da poter ancora capitalistatizzare e da mettere a produzione di valore. Questo non esaurisce certo le possibilità di crescita legate anche agli sviluppi tecnologici, ma questi presentano la “controindicazione” di ridurre il saggio di profitto.
Un’altra condizione oggettiva problematica è infatti legata alla questione delle risorse energetiche, l’incremento della produzione quantitativa propria del capitalismo deve fare i conti con i limiti tecnologici e materiali della produzione di energia, visto che alternative sostanziali agli idrocarburi non sono ancora emerse. Infine rimane sul tavolo la questione ambientale che non può essere risolta dalla cosiddetta Green Economy, un lusso possibile solo per i paesi sviluppati che sono però una parte ridotta della popolazione mondiale.
Quello che rende ulteriormente complicata una piena affermazione della predominanza dei centri imperialisti è anche la presenza di soggetti statuali forti e politicamente non dipendenti. Le aree del mondo da sottomettere oggi non sono governate da imperi in via di dissoluzione, come è stato per il vecchio imperialismo, ma sono soggetti non solo forti ma che per gran parte nascono proprio dal conflitto di classe internazionale del ‘900. La Cina, la Russia, l’Iran, l’America Latina di Cuba e dell’ALBA, il Brasile, il Sud Africa, l’India sono paesi legati alle dinamiche economiche mondiali, agiscono dentro il modo di produzione capitalistico ma politicamente non sono subordinati, anzi ognuno di questi ambisce a svolgere un accresciuto ruolo internazionale sia politico che militare.
L’insieme di queste condizioni oggettive e delle soggettività statuali in campo, rende molto complessa una riaffermazione netta dell’imperialismo e rappresentano un limite alla valorizzazione del capitale internazionale; da qui sortiscono alcuni effetti che vanno analizzati e compresi. Uno è certamente relativo alla affermazione, nelle relazioni tra stati ed aree economiche, della competizione e del conflitto piuttosto che della concertazione; quest’ultima strumento preferito nelle relazioni internazionali dopo la fine del campo socialista. In altre parole si pone ai paesi imperialisti una scelta strategica sul come uscire da una crisi che ancora non mostra la sua fine: ridimensionare il proprio ruolo internazionale contrattando con altri soggetti oppure continuare sulla strada del conflitto economico, politico ed anche, quando necessario, militare.
Per controverso lo stesso problema si pone ai paesi emergenti della periferia. Per quanto si sia parlato di crescita di questi paesi, va detto che ancora oggi circa il 60% del PIL mondiale è appannaggio di USA, UE e Giappone e la Cina ha appena superato il PIL del solo Giappone. Inoltre i paesi occidentali detengono ancora il monopolio dello sviluppo scientifico e tecnologico e dunque delle capacità militari. Ovviamente se si esclude l’arma nucleare. In altre parole è possibile sostituire i paesi imperialisti oggi predominanti con nuovi protagonisti storici? Questo è già successo varie volte nella storia, l’ultima è stata la sostituzione nel ruolo imperialista dell’Inghilterra da parte degli USA. Rispetto alla crisi sistemica attuale è possibile ipotizzare un cambio di egemonia magari da parte della Cina sugli USA, come spesso si sente teorizzare, sempre dentro il modo di produzione attuale? Questa prospettiva non dipende solo dalle scelte strategiche che i singoli paesi possono o vogliono fare ma anche dalle condizioni obbiettive dove ad uno sviluppo mondiale ed esteso delle forze produttive non è detto che possa corrispondere ancora un modo di produzione intrinsecamente infinito nella propria crescita materiale. Se la scelta non sarà quella della guerra, generalizzata o di lungo periodo, ai paesi non imperialisti si pone obiettivamente la necessità di relazioni internazionali, economiche e sociali diverse da quelle del sistema attuale e dunque la necessità di ipotizzare una trasformazione dello stato presente delle cose. Oggi non si intravede l’assalto al Palazzo d’Inverno e l’insurrezione armata, ma non di meno e in forme diverse si pone la necessità della transizione in modo sempre più evidente e proporzionale alla mancata risoluzione della crisi attuale.
In questo senso ci sembra che le esperienze dei paesi latinoamericani organizzate nell’ALBA, pur nella loro forma incompiuta e transitoria, riaprano una prospettiva di transizione che sembrava essersi chiusa con la fine del ‘900.
Ne sono conferma in questo senso le vittorie elettorali progressiste in Venezuela, Bolivia e Ecuador, oltre che la solidità dell’esperienza rivoluzionaria di Cuba, le quali mostrano la necessità di rottura con la storia del Sud America come cortile di casa degli USA e la solidità di governi democraticamente eletti e che perseguono una prospettiva rivoluzionaria.
Sicuramente la strada aperta non è certa nè così netta come vorremmo ma questo conferma la forza di una prospettiva che riesce a vivere ed affermarsi anche in condizioni politiche che in altri tempi le sarebbero state fatali.
Le radici di una crisi sistemica del capitalismo
Ma come si è arrivati a questo punto della crisi? Solo i furbi e i distratti possono ritenere che la crisi sistemica in corso sia nata dall’esplosione dei mutui subprime negli Usa nel 2007 o che sia una semplice crisi finanziaria.
Come abbiamo molte volte affermato, ed in molti nostri lavori cercato di dimostrare, quella che si manifesta è una crisi da sovrapproduzione assoluta, di merci e denaro, maturata fin dagli anni ’70 e che nasce dai meccanismi profondi del Modo di Produzione Capitalistico, meccanismi che spingono verso una valorizzazione del capitale, che è per sua “natura” tendenzialmente infinita. Abbiamo ripetutamente indagato le evoluzioni strutturali dell’economia utilizzando chiavi di lettura, spesso rimosse dall’attuale cultura politica della sinistra, quali la legge del valore, la caduta tendenziale del saggio di profitto, una sistematica analisi delle classi alle quali per noi va ancora riconosciuta validità analitica in quanto mostrano chiaramente gli effetti concreti delle tendenze generali del moderno capitalismo.
Le tappe che hanno portato alla crisi ed allo stallo odierno della cosiddetta crescita sono state molte ed hanno seguito una direttiva ben precisa. La crisi di sovrapproduzione di merci maturata nel secondo dopoguerra ed esplosa negli anni ’70 ha segnato una prima evoluzione verso la finanziarizzazione dell’economia, cioè verso quell’impazzimento che prende il capitale quando pensa di poter “saltare” la valorizzazione che nasce dall’uso della forza lavoro nel processo produttivo concreto. Quella è stata una prima trasformazione durata per tutti gli anni ’80, che ha coinvolto tutte le aree subordinate all’imperialismo “unico” americano, dove parallelamente alla finanziarizzazione hanno preso quota i processi di ristrutturazione, esternalizzazione e dell’uso intensivo delle nuove tecnologie nella produzione. Indubbiamente quella fase ha favorito uno sviluppo dei sistemi produttivi e, più in generale, della produttività sociale che ha contribuito anche a mettere in crisi i paesi a socialismo reale.
E’ proprio da quella crisi avuta ad Est, a cavallo degli anni ’80 e’90, che sono emerse grandi opportunità di crescita per il capitale internazionale che ha allargato i confini della propria azione a tutto il globo ed ha recuperato per tempo i sintomi di una crisi finanziaria che aveva già cominciato a manifestarsi con il crollo delle borse nel 1987. Da quel momento la crescita della produzione materiale e la finanza hanno proceduto e sono cresciute in parallelo senza apparenti contraddizioni e con la riconferma di una egemonia incontrastata del sistema capitalista nel suo complesso e non solo nella sua variante liberista.
Comunque non è stato un procedere lineare in quanto i segni di inceppamento del sistema si sono manifestati periodicamente; la crisi finanziaria che colpì l’Asia (azzoppando per gli anni a venire il Giappone divenuto pericoloso competitore degli USA), la Russia ed il Messico alla fine degli anni ’90 oppure la crisi di Wall Street del 2001 che penalizzò le società tecnologiche ed informatiche i cui titoli erano divenuti oggetto di aspettative e speculazione nel decennio precedente.
Su questo percorso storico come Rete dei Comunisti abbiamo scritto testi e fatto convegni in cui abbiamo analizzato da ogni punto di vista la dinamica economica e sociale della trasformazione capitalistica, nell’epoca della sua maggiore influenza e penetrazione, nella produzione e nella società a livello mondiale. L’ultimo è stato quello fatto a Napoli nel giugno scorso sul “vicolo cieco del Capitale” ed a questi rinviamo per un’analisi approfondita sul piano teorico ed economico. Ciò che va messo, però, in assoluta evidenza è che la crisi attuale non è il prodotto di una fase più o meno lunga di difficoltà ma di una dinamica storica che procede ormai da circa quattro decenni. Questo significa molto concretamente che la via di uscita da questa situazione non è affatto alla portata ed anzi i suoi esiti sono ignoti ed incerti anche per i gruppi dominanti che guidano l’attuale assetto di potere internazionale.
La crisi del capitalismo non è solo economica.
Avere una analisi corretta delle dinamiche strutturali generali e della loro evoluzione è fondamentale ma misurarsi con una proposta di prospettiva in un contesto difficile già nella sua interpretazione è un’opera da affrontare sapendo i propri limiti e quelli di una cultura politica che nel nostro paese si è andata sempre più inaridendo. Non vogliamo, però, sottrarci alle nostre responsabilità ed intendiamo individuare un percorso ed una proposta che allo stesso tempo sia un nostro punto di vista, più strutturato possibile, ma anche un contributo ed una richiesta di confronto sul merito che avanziamo ai comunisti ed alla sinistra di classe nel nostro paese. Non si tratta di fare proposte che si collochino nell’ambito del tatticismo estremo finora praticato, che le ultime elezioni hanno dimostrato essere anche suicida, ma è necessario misurarsi con ipotesi e proposte che abbiano un loro spessore teorico senza il quale ogni soggettività di classe è condannata a muoversi come un “asino nei suoni”. Non è un tentativo facile ma ridare alla teoria la funzione di orientamento per la pratica politica è l’unica via per tentare di risalire la china nella crisi oggettiva e soggettiva attuale.
Ciò che diviene sempre più evidente è che siamo in una fase in cui verranno richiesti e si manifesteranno cambiamenti politici radicali. Da alcuni anni il mondo finanziario, cioè la colonna portante dell’economia attuale, è scossa da continui scandali ed esplicita la sua tendenza all’illegalità per tentare di ristabilire i propri margini di profitto. Questo non riguarda solo il nostro paese ma parte dalla maggiore potenza occidentale cioè gli Stati Uniti e dal salvataggio fatto verso le sue banche violando le proprie “ferree” leggi liberiste.
Il degrado delle relazioni economiche si riversa così nella politica e nel sociale producendo corruzione ed una crisi etica e morale delle classi dirigenti ma anche della cosiddetta società civile. Certo su questo terreno il nostro paese ha un ruolo di “avanguardia” ma non possiamo dire che viva in solitudine in questo scenario degradato.
Gli stessi risultati elettorali in Italia non mostrano solo uno stallo elettorale ma sono il sintomo di una profonda crisi di egemonia che attraversa in varie forme e modi tutto l’occidente. L’esito elettorale mostra la fine della credibilità del progetto della Unione Europea in un paese che era considerato il più europeista del continente e che ora si pronuncia in maggioranza contro le sue politiche. Possiamo dire che siamo entrati in una fase di cambiamenti radicali che non si fermeranno proprio a causa delle caratteristiche sistemiche della crisi che abbiamo cercato di delineare nelle sue dinamiche decennali.
Ricomincia ad emergere in vario modo ed a trovare spazio, inaspettatamente anche per noi, la parola “rivoluzione”, parola che era stata messa al bando ma che oggi si riaffaccia nella realtà e nei pensieri sia delle classi dominanti che di quelle subordinate; insomma il cambiamento radicale ormai si impone come necessità obiettiva ed ogni classe sociale lo interpreta, lo auspica e lavora affinché questo vada a proprio vantaggio.
I comunisti e la sinistra di classe affrontano questo tornante della storia in condizioni di estrema debolezza causata dalla irresponsabilità e opportunismo dei suoi gruppi dirigenti ufficialmente eredi di quella che è stata la sinistra comunista storica in Italia. Anche se molti di questi si disperderanno dentro la durezza dello scontro il periodo che si prospetta non offrirà facili “nascondigli”, magari istituzionali, dove poter aspettare che la nottata sia passata. La nottata è già passata ed il giorno che si apre sarà per forza duro da affrontare; per questo è necessario definire con la maggior chiarezza possibile una proposta ed una prospettiva politica che rompa definitivamente con le ambiguità ed ipotizzi un ruolo strategico dei comunisti in funzione della ricomposizione di un nuovo movimento di classe che parta dalla cruda realtà sociale di questo paese.
Tutto ciò non può più essere fatto così come è stato fino ad oggi cioè con tattiche e approssimazione politica sperando che le cose vadano nel verso giusto.
Bisogna ritrovare il rigore teorico e analitico, la coerenza politica, la forza organizzata in grado di riaprire le prospettive .
Parlare di rivoluzione in questo contesto non significa fare la rivolta qui ed ora, si tratta invece di individuare quelle tendenze che portano ad una rottura del quadro attuale e su queste lavorare per sedimentare forze e ricostruire rapporti di forza, questo è il vero obiettivo praticabile nel contesto presente. Significa individuare i filoni internazionali che spingono in quella direzione. Significa dare a questa prospettiva una qualità del pensiero politico che faccia ritrovare tutti quei contenuti che mantengono ancora una loro validità in grado di descriverci le dinamiche reali della società in questo nuovo secolo.
“Rivoluzione è il senso del momento storico”:
La lunga premessa sull’analisi strutturale ed economica è stata necessaria per definire il contesto e le dinamiche oggettive che muovono gli eventi attuali.
Possiamo dire che negli anni passati il lavoro di analisi fatto a partire dalla questione dell’imperialismo di questo secolo alla composizione di classe nazionale ed internazionale, dai caratteri della costituzione della Unione Europea ai punti di rottura con gli USA come nell’America Latina ha dato i suoi frutti. Oggi abbiamo, perciò, una chiave di lettura complessiva sulle dinamiche strutturali aderente ai processi che nel tempo si sono manifestati; un lavoro iniziato già dalla metà degli anni ’90 che ci mette in condizione ora di misurarci su un piano più avanzato con la costruzione di una proposta politica che vada oltre le contingenze, soprattutto quelle elettorali, e che cerchi di cogliere lo “spirito” del momento storico attuale.
Per fare questo però sappiamo bene che non basta avere una analisi economica corretta e rigorosa in termini marxisti, questa è indubbiamente una condizione necessaria ma non sufficiente. Noi siamo stati finora, nella nostra pratica e a causa di forza maggiore, economicisti non per concezione ma per necessità, ovvero abbiamo dato spazio all’analisi delle tendenze economiche e sociali e su queste abbiamo operato e costruito organizzazione reale. Ma se il problema che nasce in questa fase dalle contraddizioni economiche e sociali è quello della “rivoluzione”, del superamento dell’attuale assetto sociale, almeno come potenzialità, il solo dato strutturale è insufficiente a comprendere e sostenere nella pratica un simile processo. Certamente le contraddizioni materiali ed il movimento spontaneo che producono sono una condizione fondamentale ma sono appunto solo una “condizione”. Va compreso e studiato, perciò, anche il dato sovrastrutturale, cioè i caratteri e le contraddizioni che si manifestano sul piano politico, culturale, etico, giuridico etc. dell’attuale formazione economico sociale capitalistica; senza cogliere questa esigenza si può riuscire al massimo ad incidere su alcuni punti specifici ma non si è in grado di produrre processi generali.
Se il problema che ci si presenta è quello di un passaggio storico è chiaro che dobbiamo andare oltre, dotarci di quegli strumenti di analisi e politici che permettano di adeguarci ad un passaggio qualitativo complessivo. Su questo non arriviamo del tutto impreparati, ovvero in questi anni ci siamo misurati sul piano concettuale e teorico sia sui problemi relativi al movimento operaio e comunista del ‘900 sia sulla questione della soggettività ovvero dell’organizzazione. Le risposte che abbiamo formulato sono certamente non soddisfacenti e ancora molto lontane dalle necessità e dunque su questo terreno dobbiamo continuare ad “arare” e ad approfondire.
Anche se va detto che su alcuni terreni abbiamo riscontrato delle verifiche alle nostre ipotesi. Sul piano della riorganizzazione del conflitto politico e di classe, ad esempio, abbiamo teorizzato, anche questo a suo tempo, la questione dei tre fronti ovvero della necessità di ridefinire, dopo una sconfitta storica come quella avuta negli anni ’90, le relazioni tra la prospettiva strategica della trasformazione sociale, il conflitto politico e quello più direttamente sindacalesociale. Relazioni che non potevano essere più rigide e formalmente gerarchizzate ma che dovevano essere obbligatoriamente più dialettiche, con una reciproca autonomia organizzativa e con una sintesi che andava certamente ricercata ma nella ricostruzione concreta del conflitto di classe.
Su questa base abbiamo tentato di definire un piano generale ed organico dell’intervento organizzato che vogliamo rappresentare in questa Conferenza Annuale con la stampa di un nuovo quaderno per la formazione delle strutture della Rete dei Comunisti. Avendo e facendo presente, però, che in una fase di passaggio e di ricostruzione la questione dell’organizzazione non può essere ingessata in formule predeterminate in quanto materia “viva”, che ha bisogno di essere sviluppata nelle verifiche pratiche; cosa che noi intendiamo fare.
Cercare nella “cassetta degli attrezzi” del marxismo
Per misurarci, dunque, con una proposta politica dobbiamo fare uno sforzo di elaborazione e continuare a cercare nella “cassetta degli attrezzi” della teoria del movimento operaio quelle parti che mostrano ancora la loro utilità nell’interpretare l’epoca moderna, le sue contraddizioni, le sue potenzialità di sviluppo o di crisi. In questo senso pensiamo che riprendere un lavoro di studio ed elaborazione attorno al pensiero di Gramsci possa aiutarci a dare una chiave di lettura del processo storico che stiamo attraversando, naturalmente senza “santificare” le sue posizioni. Questo autorevole pensatore marxista, infatti, è stato spesso utilizzato e piegato alle contingenze politiche in particolare dal PCI degli anni ’70 nel momento in cui emergevano soggettività politiche comuniste alternative, almeno in quegli anni. Questo uso improprio probabilmente ha contribuito successivamente anche al disperdersi del suo pensiero proprio nel paese dove esisteva il Partito Comunista più forte d’occidente di cui Gramsci ne era stato il fondatore. C’è però un altro elemento che probabilmente va riconsiderato proprio oggi; il periodo in cui il pensiero di Gramsci ha avuto la sua “età d’oro” ed è stato usato politicamente erano gli anni ’70, cioè una fase storica completamente diversa da quella in cui quel pensiero era stato concepito, elaborato e costruito. Gli anni ’20 e ’30, quelli della militanza rivoluzionaria e del carcere, segnarono l’onda lunga della crisi capitalistica prima della seconda guerra mondiale; crisi certamente del capitalismo ma anche del movimento operaio europeo che si era infranto e distrutto sulla prima guerra imperialistica mondiale, schierandosi con le proprie borghesie nazionali contro il proletariato ed i popoli degli altri paesi europei.
Quel periodo storico ed il riflesso che di questo traspariva tramite il pensiero di Gramsci è oggi molto più vicino alla nostra condizione, ai caratteri strutturali della crisi, allo spaventoso arretramento del movimento comunista, di classe ma anche di quello democratico, di quanto lo fossero a quella degli anni ’70 che vedevano un incalzante movimento rivoluzionario internazionale.
Riprendere quell’impianto teorico, confrontarlo con la situazione attuale, coglierne gli elementi ancora vitali è un lavoro da fare per capire una fase di movimento e di trasformazione ma estremamente duro e difficile.
Noi oggi non vogliamo certo riaprire un dibattito sulla figura e sul ruolo di Gramsci, non ne abbiamo certo l’autorevolezza; quello che siamo in grado di fare è riutilizzare alcune categorie che il suo pensiero ci mette a disposizione e che oggi, a nostro avviso, sembrano tornare utili ad una interpretazione del passaggio che stiamo vivendo complessivamente. Queste ci sembrano essere quelle di Blocco Storico e di Egemonia che vanno riprese e utilizzate nella lettura dell’attuale frangente storico.
Costruire perciò una proposta politica significa misurarsi non solo con i dati strutturali ma anche con quelli che abbiamo definito sovrastrutturali. In questo senso va ripreso ed attualizzato il concetto di Blocco Storico. Gramsci si riferisce a questo quando tra il dato strutturale e quello sovrastrutturale esiste una corrispondenza ovvero tra i due, pur nella inevitabile dialettica delle formazioni sociali, esiste una unità sostanziale. Quando questa unità viene meno si apre una fase di crisi e di possibile trasformazione rivoluzionaria la cui posta in gioco è la conquista dell’egemonia sia tra frazioni diverse delle classi dominanti sia nella lotta tra classi antagoniste. In Italia abbiamo avuto questa condizione nell’affermazione dell’indipendenza nazionale nel Risorgimento dove alla necessità strutturale di avere un ambito nazionale per lo sviluppo delle forze produttive è corrisposta l’ideologia dell’unità nazionale contro lo straniero prima e poi, dopo il 1870, la costruzione dello Stato borghese. Un altro esempio è quello avuto dopo seconda guerra mondiale e la lotta di liberazione dove, a fianco della ripresa della produzione industriale del paese e del nuovo ruolo interventista dello Stato, il compromesso democratico sancito dalla Costituzione Italiana ancora vigente ha permesso la ricostruzione economica politica, sociale e culturale dell’era post fascista.
Un blocco storico in via di superamento
La questione che ci riguarda è capire che significa parlare oggi di Blocco Storico, tenere conto dello sviluppo attuale e potenziale delle forze produttive e della ideologia che ha sostenuto questa condizione strutturale. Questa è esattamente la condizione avuta nell’ultimo ventennio dopo la fine dell’URSS.
In quegli anni abbiamo avuto una “corrispondenza”, una coerenza interna, tra i caratteri capitalistici della crescita strutturale, economica, sociale, scientifica, che trainava la società mondiale nel suo complesso (ovvero la globalizzazione con lo sviluppo delle forze produttive, la crescita del mercato, dei redditi complessivi etc.) e la rappresentazione ideologica predominante (la fine della storia, il capitalismo come unico orizzonte casomai da migliorare, la pretesa di un nesso inscindibile tra libero mercato e democrazia, l’impossibilità dell’alternativa sociale). Dentro questa corrispondenza tra struttura e sovrastruttura si è manifestata la capacità egemonica della concezione borghese del mondo e gli spazi contraddittori sono stati minimi o avevano un carattere specifico (vedi le tendenze “centrifughe” del continente latinoamericano del periodo nei confronti degli USA ed oggi in pieno sviluppo) soprattutto per chi agiva e viveva nelle “cittadelle” imperialiste.
Il punto da capire ed approfondire è se il passaggio che ci troviamo oggi ad affrontare è quello della fine di questa corrispondenza che produce una crisi di egemonia che apre gli spazi per la ricerca di una alternativa economica ma anche di valori, di rappresentazione ideologica, di visione del mondo.
Naturalmente e come possiamo direttamente verificare questa crisi non viene percepita a livello di massa direttamente come crisi del modello economico sociale complessivo, ma traspare attraverso la crisi dello Stato. Stato non inteso in modo ristretto come “apparato” ma nelle sue funzioni più ampie da quella giuridica a quella sociale. Da questa angolatura è evidente che questo non è solo un processo Italiano o Europeo ma riguarda anche gli USA, cioè l’imperialismo principale (vedi la vicenda del Fiscal Cliff, la disgregazione sociale oppure la perdita di potere nel controllo internazionale verificabile sulle vicende della Siria, dell’Iran, della Cina e dall’America Latina).
Siamo dunque dentro una crisi di egemonia cioè della capacità del gruppo sociale predominante di riuscire a mantenere la propria capacità di orientamento ed aggregazione degli altri gruppi sociali nonché di essere direzione politica , intellettuale e morale sul resto della società. In Europa questa crisi ha un carattere peculiare ed è la crisi degli Stati Nazionali, incluso quello della Germania. In teoria (in pratica è da vedere) questa crisi ha uno sbocco potenziale negli “Stati Uniti d’Europa”, ma questo esito può essere garantito solo dalla tenuta della lotta di classe dall’alto. Perciò se in via teorica questa crisi dello Stato e dell’egemonia in Europa è superabile (soprattutto se non emergeranno forze antagoniste significative) questa produce contraddizioni e diseguaglianze a livello continentale. In parole povere per l’Italia la crisi materiale e morale rimarrà per la gran parte della popolazione e solo una parte della borghesia nostrana potrà usufruire della “ripresa”.
Questo scenario è stato plasticamente rappresentato dagli ultimi risultati elettorali dove alla disgregazione sociale rappresentata dai tre maggiori ed equivalenti raggruppamenti elettorali si è contrapposto quel 10% di elettorato “montiano” formato sostanzialmente dalla media e grande borghesia. Classe più interessata alle prospettive europee che alle sorti dello Stato italiano. Se si formeranno gli Stati Uniti d’Europa questi faranno pagare il prezzo della loro costruzione a quei paesi e settori sociali destinati alla subordinazione nel progetto europeo di competizione globale. E’ su questo livello, perciò, che va attestata la nostra elaborazione e proposta politica che non può essere storicamente astratta (il richiamo alla rivoluzione socialista, al proletariato, alla classe operaia etc.) ma che va collocata e compresa nel contesto attuale e nella necessità di cambiamento che sta divenendo senso comune cioè necessità di massa. Arriviamo dunque alla attualità del cambiamento che richiede oggi una rottura, essere un elemento di radicale discontinuità, in altre parole che deve essere rivoluzionario nel contesto storico che stiamo vivendo.
Il ragionamento fin qui fatto ci porta per via “naturale” a definire una strategia di classe nella rottura della Unione Europea intesa come nuova entità imperialista in costruzione. Questo tipo di conclusione e di proposta ha però bisogno di un serio e solido impianto analitico e teorico perché rompere l’Unione Europea significa prendere in considerazione anche una possibile e non auspicabile divisione della classe lavoratrice continentale.
Come abbiamo detto proporre una prospettiva “rivoluzionaria” significa individuare quelle alleanze strategiche che permettano questa prospettiva, ovvero quella ricomposizione tra struttura e sovrastruttura che, tendenzialmente, possa concretizzarsi sul fronte antagonista al capitale prefigurando una formazione sociale diversa e fuori, nei limiti storicamente dati, dalle leggi che regolano il capitalismo. Nella storia questo processo si è già manifestato in quella alleanza operai e contadini, rappresentata nella falce e martello, che ha rivoluzionato il mondo nel secolo passato e che ha costretto il capitalismo ad una sua profonda modifica.
Ritenere che la crisi attuale possa implicare la possibilità di una alternativa, significa capire qual’ è il blocco storico sul nostro versante di classe che possa dare credibilità, se non fattibilità, ad una ipotesi di cambiamento e rottura. Una prima ipotesi può essere quella che vede questa alleanza strategica agire dentro l’Unione Europea come polo imperialista avanzato. Cioè una alleanza tra lavoratori e settori sociali del centro e della prima periferia interna/esterna alla UE perché si ritiene che la base materiale di questa alleanza sia il livello di sviluppo delle Forze Produttive raggiunto in questa parte del mondo e che questo sia il presupposto e condizione per la trasformazione sociale.
Agire per la rotturadell’Unione Europea
Questa convinzione di fondo, che spesso rimane inespressa politicamente, accomuna sia le posizioni della sinistra moderata che quelle più ortodosse dal punto di vista marxista, ma a nostro modo di vedere entrambe presentano alcuni rilevanti difetti:
- Non tengono conto degli effetti dei processi di riorganizzazione produttiva e sociale dentro l’UE che produce diseguaglianze, immiserimento, degrado sociale e, per controverso, aristocrazia salariata (in particolare nella parte nord del continente ma non solo). In altre parole non tiene conto dei processi produttivi, sociali, politici ed ideologici concreti che stanno agendo dentro l’Unione Europea in funzione della frammentazione materiale e politica della classe, una frammentazione che il capitalismo ritiene necessaria a sostenere la competizione internazionale.
- Non prende atto che la crescita nei centri imperialisti del sistema capitalista – nella dimensione che abbiamo storicamente conosciuto – non è più possibile a causa delle tendenze e delle contraddizioni strutturali del capitale. Ovvero crisi da sovrapproduzione, aumento della composizione organica di capitale e calo del saggio di profitto, limiti materiali ad uno sviluppo intrinsecamente tendente all’infinito (ovvero aggravamento della questione ambientale, energetica, sfruttamento e consumo dei suoli e delle aree metropolitane). Oggi diviene sempre più evidente che la crescita quantitativa, ma anche qualitativa, potenziale è quella che si sta realizzando fuori dai centri imperialisti, ovvero nei paesi emergenti dove risiedono i 4/5 dell’umanità e dove le spinte al cambiamento nelle relazioni internazionali sono più forti. Spinte che dovranno anche fare i conti con un’aggressività dei poli imperialisti accentuata dalle loro contraddizioni e difficoltà interne.
- Si ripropone in qualche modo un’ottica eurocentrica, secondo cui tutto ruota attorno al punto più avanzato dello sviluppo capitalistico. Ciò riproduce sia nella sinistra riformista che in quella più radicale una visione che riteniamo essere economicista e che già una volta è stata superata dalla storia (la rivoluzione mancata in occidente). Si tratta di una visione che oggi – nella economica mondiale basata sulle “filiere produttive internazionali” – viene superata anche dal dato strettamente strutturale. Nella dimensione produttiva mondiale attuale è difficile considerare le parti nazionali degli apparati produttivi in modo separato dai collegamenti per filiere. Allo stesso modo non si può più avere una visione della classe lavoratrice partendo dai soli confini nazionali, e non per motivi ideologici ma perché è ormai una dimensione concreta relativa alla produzione internazionalizzata.
Occorre dunque fare i conti una domanda che – almeno per ora – ha una valenza tutta teorica. Se pensiamo che il blocco storico che fin qui ha segnato la sua egemonia sta vivendo una crisi profonda e ci poniamo dal punto di vista del suo superamento, dove stanno le potenzialità di sviluppo alternativo? Qual è la visione del mondo che può aspirare a rappresentare un’altra egemonia, un’altra idea di relazioni sociali, un altro modo di avere rapporti internazionali? In termini ancora più diretti e concreti per noi in Italia, occorre chiedersi qual’ è l’alleanza che conviene ai paesi e classi in difficoltà nella Unione Europea perché subordinati in un processo di gerarchizzazione dovuto alla nuova strutturazione della divisione internazionale del lavoro?
La risposta per noi è abbastanza chiara e l’abbiamo anche concretizzata sul piano economico con la proposta che intendiamo avanzare sull’alleanza dei paesi PIIGS e su una nuova area economica e monetaria euromediterranea che deve sancire una rottura della costruzione imperialista della Unione Europea e volgere l’attenzione anche ai paesi della sponda sud del Mediterraneo. La battaglia che ci aspetta ha un suo importante versante sul piano economico, produttivo e di classe, ma questo snodo non può fare a meno di ricostruire un’altra visione del mondo tramite battaglie culturali, politiche e teoriche che non limitino alla sola dimensione materiale una lotta che ha ben altri orizzonti di emancipazione complessiva. Questa è la sfida che facciamo a noi stessi e che proponiamo a tutti quei compagni che non vogliono abbandonare una prospettiva di cambiamento politico e sociale radicale. In questo senso intendiamo fare della nostra conferenza annuale un momento di confronto interno ed esterno da sviluppare anche nei prossimi mesi nel conflitto politico e sociale che attraversa il paese.
I PUNTI di SNODO DELLA NOSTRA PROPOSTA POLITICA
Partendo da questo impianto analitico e teorico. intendiamo articolare indicazioni più concrete sui diversi piani politico, sociale ed economicoproduttivo dando organicità alla nostra proposta. Intendiamo collegarla ad un impianto di lavoro politico e pratico che definisca una direzione di marcia utile alle battaglie politiche e sociali nel paese, che sia un rafforzamento dei necessari processi di ricomposizione del fronte di classe e di sedimentazione delle forze. Naturalmente i punti qui elencati sono solo l’avvio di un ragionamento e di un confronto che va sviluppato, motivato ed allargato a tutti gli interlocutori che troveremo nella nostra azione politica con l’intenzione di condividerne gli obiettivi politici e pratici.
- In primo luogo va esplicitato l’obiettivo politico che ci vogliamo proporre, ovvero di indicare una via d’uscita dalla condizione di subalternità di una parte dell’Unione Europea, cioè i paesi più penalizzati che vengono definiti PIIGS. Oggi la crisi del debito sovrano ci viene rappresentata come evento divino dal quale è impossibile sottrarsi, con il quale è ineluttabile misurarsi. Bisogna indicare una via d’uscita a questo ricatto ideologico. Proporre la rottura di questa Unione Europea è un modo per dire che non ne accettiamo la natura e le conseguenze, proprio perché abbiamo individuato da tempo la UE come l’apparato della costruzione e del rafforzamento dell’Europolo imperialista.
- Abbiamo indicato quattro momenti del processo di rottura dall’attuale progetto dell’Unione Europea: a) La determinazione di una nuova moneta comune all’Europa mediterranea (a titolo esemplificativo la potremmo chiamare “LIBERA”, cioè una moneta appunto libera dai vincoli monetari imposti nella costruzione dell’euro), una moneta che inizialmente abbia carattere virtuale utilizzata a compensazione come moneta di conto alla stessa maniera del Sucre nell’ALBA; b) La ri-determinazione del debito nella nuova moneta dell’area (che potremmo chiamare ALIAS. – Area Libera per l’Interscambio Alternativo Solidale), cioè una sorta di ALBA euromediterranea relazionata al cambio ufficiale che si stabilisce; c) Il rifiuto e l’azzeramento del debito, a partire da quello con le banche e le istituzioni finanziarie e l’imposizione di una rinegoziazione dello stesso residuo; d) La nazionalizzazione delle banche e la stretta regolazione (incluso la proibizione momentanea) della fuoriuscita dei capitali dall’area stessa è un requisito per evitare la fuga dei capitali e per eliminare la drammatica e storica tradizione capitalistica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite.
- In questa prospettiva si rende necessaria la nazionalizzazione dei settori strategici nelle comunicazioni, energia e trasporti, che potrà portare le risorse necessarie per realizzare una strategia di rilancio produttivo a breve termine, il che può permettere di creare le condizioni affinché milioni di disoccupati nei paesi della periferia euromediterranea comincino a produrre ricchezza sociale nel minor tempo possibile. Pertanto risulta imprescindibile per l’affermazione di una nuova moneta e di una politica orientata in favore dei lavoratori, contare su una nuova area fuori dalle regole dell’Europolo, uno spazio produttivo nel quale si possa stabilire una nuova divisione del lavoro basata sui principi di uno sviluppo sociale collettivo solidale e un benessere qualitativo.
- L’autonomizzazione ipotizzata richiede un ruolo dello Stato più attivo, interventista e pianificatore, sia sul terreno economico-produttivo che finanziario, dentro un’alleanza di Stati che possa avere più potere contrattuale a livello continentale. Questa necessità va in controtendenza rispetto alla necessità delle banche e delle multinazionali di agire liberamente, senza legami ma utilizzando a loro volta lo Stato a fini privati. Dentro una riforma delle funzioni dello Stato si pone inevitabilmente la questione democratica, ovvero di come i cittadini partecipano effettivamente alla vita del paese, togliendo alle forze politiche attuali quel monopolio della rappresentanza che oggi blocca ogni reale partecipazione alle decisioni attraverso sistemi elettorali autoritari fondati sul sistema maggioritario, il bipolarismo il dogma della governance. Nelle elezioni per le istituzioni così come in quelle sindacali l’unico criterio accettabile è quello proporzionale: una testa un voto.
- Una prospettiva di questo tipo, che si pone il problema dell’indirizzo e degli obiettivi della pianificazione socio-economica, richiede inevitabilmente più investimenti su scuola, università e ricerca scientifica legate alla produzione. E’ evidente come il livello attuale di sviluppo scientifico e tecnologico e le caratteristiche della forza lavoro nell’area euromediterranea e in Italia, non possono più tornare alla semplice produzione di linea della merce. Queste sono legate ormai ad un’alta composizione organica del capitale ovvero alla produzione automatizzata ed avanzata di scienza, servizi e merci.
- Questa condizione produttiva qualificata è complementare al Sud del mondo, in particolare per noi dell’area mediterranea, mentre è invece competitiva con l’Europa del Nord che in qualche modo è il cuore produttivo e finanziario dell’Europolo imperialista. Non a caso oggi i processi di concentrazione e acquisizione vedono il prevalere dei gruppi capitalistici del Nord Europa a discapito dei sistemi produttivi degli altri paesi della Unione Europea, inclusa l’Italia. Questo dato strutturale pone sul piano concreto dell’economia e dello sviluppo possibile la questione centrale delle alleanze storiche e sociali, che oggi vanno comprese e promosse per poter far avanzare l’umanità nel suo complesso e non solo i centri imperialisti divenuti propagatori di crisi economica e sociale mondiale.
- Attorno a questi elementi strutturali si può ipotizzare un blocco sociale che partendo dai settori di classe e subalterni può arrivare fino alle piccole imprese ed a settori di borghesia nazionale messe in crisi dai processi di concentrazione, centralizzazione del capitale finanziario nell’Unione Europea (vedi le difficoltà di accesso al credito per le piccole imprese). Dentro questo blocco sociale rientrano le nostre ipotesi di rappresentanza politica e sociale nelle quali i processi organizzativi di tipo sindacale, sociale, metropolitano possono trovare un loro ruolo e un loro significato più generale che va oltre la sola dimensione vertenziale.
- L’impianto analitico e la proposta politica recuperano e partono dai punti più importanti della teoria del movimento operaio: dalla questione dell’imperialismo all’analisi di classe, dalla questione del blocco storico, a quella dell’egemonia, dal ruolo dello Stato fino alla questione dell’internazionalismo. Quest’ultimo punto riteniamo sia decisivo perché assegna maggiore forza teorica alla proposta. La colloca infatti dentro un processo storico di trasformazione reale, certamente non ancora maturato pienamente, ma che si manifesta con chiarezza sullo scenario globale e di cui i processi di transizione verso il socialismo in atto nei paesi latinoamericani dell’ALBA ne sono l’espressione più concreta ed avanzata.
- Dalla comprensione di un moderno internazionalismo prodotto dal nuovo livello di sviluppo complessivo dell’umanità, vanno recuperati obiettivi che fanno parte della storia del movimento operaio e democratico mondiale ovvero la lotta contro le spese militari, la guerra e gli interventi armati dovunque e comunque mascherati. Non solo. In questo scenario globale va costruita e rafforzata anche la lotta in difesa dell’ambiente sempre più devastato e distrutto da una irrazionale concezione economica che non vede i limiti ad una produzione estesa all’infinito, ben oltre le possibilità di sostenibilità che il pianeta metta a nostra disposizione.
Con la definizione di alcuni elementi di programma politico da sviluppare e confrontare, dentro e fuori la Rete dei Comunisti, riteniamo esaurita la prima fase di elaborazione di una proposta politica organica, non legata ad obiettivi specifici di organizzazione ma funzionale a concepire la realtà attuale nel suo complesso e le sue dinamiche. Ciò si rivela utile per individuare un terreno di confronto pubblico più chiaro e netto possibile nelle sue articolazioni che nelle sue fonti di interpretazione teorica, fonti che a noi sembrano valide per le forze comuniste ma anche per tutto lo schieramento di classe e democratico.
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