Quando il caos ci sommerge, l’unica possibilità di salvare il funzionamento del cervello è sollevarsi al di sopra del chiacchiericcio e guardare le cose dall’alto per individuare almeno le correnti più importanti. La loro direzione di marcia.
Se qualcuno crede davvero che un tal Matteo Salvini sia il “capo” o la “mente” dell’ondata reazionaria che sta sommergendo l’Italia probabilmente ha bisogno di dare una ripassata alla Storia, o almeno di ricordare che i processi storici selezionano – determinandoli – gli uomini e le donne incaricati di rappresentarli. Non viceversa.
A gestire gli affari correnti – del Viminale, della Lega e del governo – ci pensa sicuramente qualcun altro.
Si chiama “personalizzazione della politica”, ossia riduzione dei problemi complessi a soluzioni semplici, al livello delle discussioni tra ubriachi all’osteria. Un attore occupa tutta la scena, mentre dietro le quinte si governa, si media, si compravende, si decide.
Il soliloquio salviniano diffuso in diretta via social richiederebbe l’analisi di uno strizzacervelli, se non fosse, com’è, una dichiarazione programmatica.
Riassumibile nella fine della classica “separazione dei poteri” – legislativo, esecutivo e giudiziario – che costituisce l’architrave della democrazia liberale. O, più modestamente, della sua retorica.
La pretesa coglie peraltro la magistratura italiana nel punto più basso della sua credibilità, con lo “scandalo Palamara” che ha distrutto il Csm e messo allo scoperto i rapporti peggiori tra politica e magistrati, ridicolizzando ogni pretesa di “terzietà” dell’istituzione (ogni singolo magistrato ha come riferimento un partito politico diverso, e l’arresto di Mimmo Lucano sta lì a dimostrarlo).
Ora o mai più, insomma, per provare a realizzare quello che non è riuscito a fare Berlusconi quando era in forma.
Ma al di là dei singoli intrecci, l’idea di fondo del nuovo potere costituente è semplicissima: chi sta al governo può fare tutto e nessuno deve provare a contrastarlo, che sia un giudice, un movimento popolare, un partito d’opposizione parlamentare, un giornalista, ecc.
“La legge sono io”, come il giudice Roy Bean al di là del Pecos…
Se fosse un problema solo italiano, basterebbe forse sedersi sulla riva del fiume e attendere che anche questo jokerman venga licenziato dai suoi impresari, come avvenuto per l’altro Matteo, il Renzi.
Ma tutto il mondo che si autodefinisce “democratico”, da molto tempo, è percorso da un processo identico, seppure con modalità differenti a seconda dei diversi assetti istituzionali.
Riguarda la Francia come gli Stati Uniti, la Germania come la Gran Bretagna. Riguarda l’Unione Europea, che per i prossimi anni vedrà al suo vertice un terminale della Nato (il ministro della difesa tedesco, Ursula von der Leyen) e l’ex direttrice del Fondo Monetario Internazionale (la francese Christine Lagarde), rispettivamente a capo della Commissione Europea e della Bce. Il fatto che siano donne non riduce, ma maschera brillantemente, la portata della dipendenza di queste istituzioni dal capitale multinazionale.
Un processo da quasi 50 anni teorizzato come inevitabile e necessario per mantenere la supremazia “dell’economia di mercato”, della “libertà di impresa”, del capitalismo occidentale. Il divario di fondo, crescente, tra complessità del sistema e impossibilità per i “singoli cittadini” di farsi un’opinione realistica su problemi di cui non sanno molto, o addirittura nulla, è alla base di un “pensiero politico” esplicitamente teso a ridurre gli spazi democratici. E in ogni caso a ridurre le opzioni possibili da sottoporre al voto popolare (necessario a mantenere la forma, e soltanto quella, della democrazia liberale).
Sotto quello che sembra “nuovo” si scopre spesso qualcosa di molto vecchio. La Crisi della democrazia fu il testo redatto da Michel J. Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki per conto della famigerata Commissione Trilaterale nella metà degli anni Settanta.
L’esplosione del “socialismo reale” allontanò momentaneamente la necessità di accelerare il processo di concentrazione formale del potere. Erano gli anni della Fine della Storia (con Francis Fukuyama come ideologo), della globalizzazione, dell’unipolarismo trionfante sul mondo.
Poi la crisi economica, il declino statunitense, l’emergere di nuove potenze – assai più dinamiche, innovative, fortemente centralizzate nelle catene di comando – e quindi la ripresa quasi nevrotica del vecchio processo.
Il prossimo “testo teorico” sembra dunque dover essere La fine della democrazia. Ma non sarà Salvini a scriverlo. Ne sta solo recitando i passaggi essenziali.
Dante Barontini